Ritratto dell'artista giovane

Ritratto dell'artista giovane Ritratto dell'artista giovane Anche per coloro che conoscono il volume neiroriginale, questa traduzione di The Portrait of the Artist as a Young Man di James Joyce dovuta a Cesare Pavese, e pubblicata in veste di ottimo gusto e di originale concezione dall'editore Frassinelli di Torino (Dedalus, ritratto delVartista da giovane, in « Biblioteca Europa diretta da Franco Antonicelli », lire 15) può essere fertile di insegnamenti. La veste nostrana toglie al volume assai di quell'alone di rispetto e d'esclusività di cui s'avvantaggiano sempre le opere straniere. Poiché nove volte su dieci si suole anteporre uno scrittore estero a uno nostro, che magari non vai meno di lui, pel solo fatto dell'impossibilità di rendersi conto di quel che proprio valga lo scritto straniero, e della tendenza di trovar magnifico tutto ciò che è ignoto o imperfettamente noto. Nella versione dell'infaticabile Pavese, onesta, ma non certo delle sue migliori (assai più convinceva, per esempio, quella sua di Moby Dick del Melville, nella stessa collezione), Joyce è sceso dal suo palcoscenico nternazionale, e consente a passeggiare tra le file della nostra platea, e, come capita spesso con attori in tali circostanze, vien fatto d'esclamare: « Toh ! è meno alto di quanto avrei creduto». Forse quell'imbonimento che è la bella prefazione d'Alberto Rossi prometteva troppo, parlando, è vero, non soltanto di questa, ma dell'opera tutta del Joyce? Si potrebbero, credo, citare alcuni nostri giovani scrittori che, alle prese con episodi come quelli che si svolgono nel Ritratto se la sarebbero cavata con onore, forse con altrettanto onore, e, in conclusione, la superiorità di Joyce apparirebbe solo, almeno per quest'opera, in una larghezza di visione complessiva e in una generosità di struttura quali purtroppo difettano sovente nei volumi più riusciti anche di nostri giovani scrittori che van per la maggiore. Si dirà : K vi par poco? E si potrà rispondere che, insomma, quelle qualità per cui Joyce è superiore son proprio quelle che si usano vantare come qualità latine, e che, dunque, i nostri non dovrebbero disperar di raggiungere. Perciò mi stupisce un giudizio di Silvio Benco riportato sulla copertina di questo Dedalus : « Il Ritratto non sarà mai il libro degli italiani. E' terso d'una tersità translucente, fresco di una tagliente freschezza invernale che è quasi rigidità, autoritàrio per esattezze intellettualistiche, più che non tollerino le nostre abitudini colorite e sentimentali ». Strano giudizio, se siam proprio noi italiani a trovar coloriti e sentimentali tanti scrittori nordici, e se la miglior tradizione nostra è tutt'altro che colorita e sentimentale. Joyce, grande ammiratore della Divina Commedia, dà nel Ritratto un'opera poliedrica assai men lontana dalla Commedia di quél che non siano tante opere nostre d'oggi. Forse perchè lo studio della filosofia scolastica, al Collegio dei gesuiti, ha conferito al Joyce una forma mentis assai affine a quella medievale? Il Ritratto è un organum, con una gerarchia di valori umani ciascuno adeguatamente rappresentato, ciascuno al suo posto. Lumeggiato l'ambiente, l'habitat, del personaggio centrale, con vividi ricordi d'infanzia e di scuola (e fin qui, ripeto, ogni nostro bravo autore giovane potrebbe misurarsi con Joyce), s'affronta il problema del peccato, problema centrale di ogni uomo cattolico — e poco importa se l'autore rivive quell'episodio non più come credente, ma come osservatore ormai spassionato e «scientifico». E' il mito del peccato dì Adamo, quel mito che Antonello Gerbi ha di recente esposto in un dottissimo saggio (// Peccato di Adamo ed Eva, storia della ipotesi di Beverland, Milano, « La Cultura », 1933) la cui lettura alle menti moderne riuscirà non meno ostica di quella degli antichi volumi di teologia a cui attinge; è questo mito cristiano che rifermenta nella torbida psiche di Stephen Dedalus adolescente. Corpo e anima qui contendono come nei misteri medievali; l'apice dell'angoscia è raggiunto nello squallido sogno di Stephen, ancora sotto l'impressione della terribile predica del gesuita il quale, secondo le regole degli Esercizi spirituali, aveva dato una rappresentazione paurosamente vivida delle pene dei peccatori. Il senso di schifo carnale è reso dal Joyce in modo indimenticabile : ma non è questa la lezione di potenza espressiva che l'irlandese ha da darci, checché ne sembri a certi nostri giovani che, dove il Joyce aveva scritto « nausea », han letto « latrina ». Il Joyce ha ben altro da insegnare, ha da insegnare proprio quelle cose che Dante poteva insegnare a lui, e quindi, direi, tanto più a noi. Ha da insegnare che l'uomo giovane non è solo un torbido adolescente, la cui anima è teatro di contrastanti impulsi ; ci fa assistere al disimpegnarsi di quest'anima dall'ambiente, pone esplicitamente il problema dei rapporti dell'individuo con la società e la patria, sia pure risolvendolo da artista anarcoide, presenta Stephen Dedalus come intelletto, già completo in nuce di raziocinatore (discussione d'estetica nella parte quinta) e di poeta (genesi della poesia : Are you noi weary of your ardent waysì), sicché alla fi: ne del volume sono stati affrontati tutti i problemi che s'impongono a una vita d'ampio e virile respiro, anche l'amore, sebbene questo occupi un posto secondario nel romanzo, posto che sembrerà addirittura sproporzionato a quelli per cui la narrazione dei casi dell'adolescenza vuol dire quasi soltanto educazione sentimentale. . Il Joyce ci appare dunque nel A»tratto uomo di ben altra tempra del Proust, a cui alcuni l'han ravvicinato, li Ritratta è tatt'ajtuo che un me¬ ro fluire d'impressioni e di ricordi, una ricerca di tempo perduto. Ciò che colpisce per prima cosa è la completezza enciclopedica, quasi medievale, del ritratto, che potrebbe veramente mettersi accanto a quello del giovane John Donne, il tormentato poeta metafisico del Seicento ancora tutto saturo di dottrine medievali, anziché a quello dello squisito estetaanalista israelita della Recherche. Questo aspetto strutturale del Joyce colpisce di più ancora nella versione italiana, ove non siamo — oserei dire — distratti e avvinti dall'abile e delicata istrumentazione verbale dell'inglese. Tutto il male non vien per nuocere : anche da una versione un po' negletta come quella del Pavese si può derivare un vantaggio. La rozza copia ha decalcato i lineamenti essenziali dell'originale, e questi bastano a render l'opera vitale. Non bisogna però soffermarsi su certi particolari della versione, e impuntarsi troppo sulla dubbia italianità di frasi come: « la prima occhiata nauseò il cuore a Stephen », « un vago disgusto gli sospirava nel cuore », « la sua anima era ancora tormentata e abbattuta dal fenomeno inerte di Dublin », « il signor Tate si scavò con le mani tra le cosce », « la tazza del signor Dedalus aveva sbatacchiato udibilmente contro lo scodellino », « Stephen spaziò innanzi lo sguardo calmo », « guardare con scioltezza », « il bisbiglio si spense in un sommesso ridacchiar di gallina », « il clamore gli molcì le orecchie », « l'orecchio grigliato del sacerdote », e tante altre della stessa risma, di cui io non son riuscito a rendermi conto che ricorrendo al testo inglese. Né mancano esempi della classica malattia che chiamo « cateratta dei traduttori », per cui si rendono passi in un modo contro cui la logica dovrebbe mettere in guardili. È' chiaro, per esempio, che se l'oggetto designato col nome di blind (pag. 227) ha « un cordone », non può essere « una persiana », ma sarà, come è infatti, quel genere di tendina che da noi si denomina « store» con parola straniera; è chiaro che, se una tavola è apparecchiata sotto un chandelier, questo non corrisponderà al nostro « candeliere » (pag. 33), ma a « una lumiera » ; e che la frase : « un' coltello era piantato attraverso l'asse ribaltabile » (pag. 241) non suggerendo niente di sensato, occorrerà trovare a turnover un senso diverso dal fantastico « asse ribaltabile », e il senso è quello di una sorta di dolce, di sfogliata, che quei personaggi mangiavano col tè. È' scusabile l'ignoranza del Pavese nel tradurre con « Aiuola Stephen » (pag. 274) lo Stephen's (o St. Stephen's) Green di Dublino, vasta piazza con un parco centrale di ben ventidue iugeri (se proprio si vuol fare italiano, sarebbe Giardino Santo Stefano, ma non vedo perchè il Pavese tenti di rendere la nomenclatura topografica d'una città estera, con lo stesso effetto comico d'un inglese che dicesse Pietro Micco Street), ma è men scusabile il non riconoscere in Saint John at the Latin gate il romano « S. Giovanni a Porta Latina», e nel tradurlo con « San Giovanni alla porta del mondo latino » ! Altri errori son dovuti alla stampa : pag. 16, « nome verso » per « nome vero », 37 « saliera » per « salsiera », 193 « discesa » per « distesa », 290 '« attico » per « attimo », 372 « cani grossi » per « crani grossi » ; a pag. 266 un rigo è stato ripetuto ed uno saltato. Il Pavese ha fatto ottime prove come intenditore e divulgatore di testi inglesi, e se si notano in lui inesattezze imputabili a distrazione e a fretta, egli resta pur sempre uno dei nostri più seri interpreti della letteratura moderna anglosassone :_ col tempo ci auguriamo che scompaiano anche quelle durezze e sbavature di linguaggio che ancora compromettono qua e là l'efficacia delle sue versioni. MARIO PRAZ.

Luoghi citati: Dublino, Europa, Latina, Milano, Torino