L'epistolario di Giuseppe Giusti

L'epistolario di Giuseppe Giusti L'epistolario di Giuseppe Giusti Quando uscì l'epistolario del Giusti, pur nell'edizione monca e affrettata che curò il Frassi, fu un coro ili lodi. Non erano prevedibili; lo stesso Martini, giudice non sospetto di antipatie giustiane, e semmai del contrario, scrisse che non avrebbe meritato più d'una modesta accoglienza. O allora perchè tanto entusiasmo? Risponde il Martini nella prefazione alle Prose del Giusti : « S'era nel '60 : prossimo a verificarsi il sogno secolare dell'unità politica, tomo a galla la questione dell'unità della lingua. La lingua, scriveva il Leopardi, nell'825, e come si dice la materia del giorno : e soggiungeva acutamente: non si può negare che il giorno in Italia non sia lungo. Trenticinque anni dopo, venute in onore le teoriche manzoniane, la lingua, che ai tempi di Dante non trovò da riposare in alcuna delle città d'Italia, s'era finalmente domiciliata in Firenze; le benemerenze del Giusti erano note, e però Firenze maestra, il Giusti dittatore, oro colato tutto quanto gli cadesse dalla penna, l'epistolario modello insuperabile di buon gusto c.di stile alle generazioni presenti e future. Poco mancò non accadesse al Giusti ciò che a Lucano e che anche lui salutassero magis oratoribus qnam poetis numerandus. Gli imitatori sorsero a diecine; e poiché la sola originalità degli imitatori è l'esagerazione, andarono per le scuole volumetti di storia romana, nei quali Catone e Cesare, Agrippina e Poppea riboboleggiavano come i ciabattini del di là d'Arno e le comari di via delle Pinzochere. Un biografo di Federico Secondo re di Prussia narrò che, da giovinetto, quel principe, rimproverato dal precettore di non so quale mancanza, sema dir ne ai ne bai gli voltò le spalle e se ne andò ». Ed -ecco un altro gustoso aneddoto dello stesso Martini sulla dilagante influenza del Giusti durante quegli anni. Si trova nella commemorazione letta da lui nell'aula magna dell'Istituto di studi superiori in Firenze il 24 maggio 1894; luogo solenne, e solenne occasione: .«Uno scrittore d'oltre Appennino, che si vantava di tenere 1 Proverbi del Giusti sotto il capezzale, lclt. i che « chi di gallina nasce convien che razzoli » e che « i figli dei gatti pigliano topi », correggendo insieme la sapienza del popolo e la storia naturale, ingemmò la fine di un suo racconto con quest'aurea sentenza: «già (notate quel già, bollo fiorentino che guarentisce la sinceri; tà della merce) già hanno ragione i toscani : chi di gallina nasce piglia i topi... ». *** Non poteva durar molto ; e difatti una decina d'anni dopo o poco più, la reazione era già suonata. Cominciò Tommaseo che, con la ■solita àcitftezza, andò diritto al centro della questione, dicendo che il Giusti era uomo di piccola mente. Il Martini nella citata commemorazione,, per sminuire la gravità di questo giudizio del Tommaseo, ricordò quelli palesemente ingiusti e velenosi che l'amaro dalmata aveva dati sul Leopardi e sul Foscolo; e gli parve, con una punta ironica, « fenomeno nuovo » che da una piccola mente uscissero la Incoronazione, il Gingillino, la Chiocciola e il Sani'Ambrogio « poesie grandi davvero ». Naturale, allora, la difesa del Martini; ma trenta anni dopo le parole « poeta grande » dette nella stessa commemorazione dichiarò, con l'onestà che gli era propria, che non le scriverebbe più. « E non perchè — spiegava — l'opera del Giusti, guardata con occhio diverso, mi appaia oggi diversa o minore di pregio, no : ma perchè lasciato lì quel « grande », sotto certi aspetti fuor di misura, mi troverei domanimolto imbarazzato a epitetare, dato il caso che 10 avessi a discorrere del Leopardi, del Manzoni, del Foscolo ». Era una ritirata elegante, e insieme un omaggio alla verità, ciò che al Martini non fece mai difetto. Ma qui non si vuol parlare del Giusti poeta ; e tanto meno descrivere la sua fortuna. Basterà dire che dal giudizio alquanto duro del Tommaseo fino al saggio del Croce che chiamò « poesia prosastica » la poesia del Giusti, chiarendo in qual modo tale definizione dovesse essere intesa, il poeta di Monsummano ha perduto sempre più terreno : e non credo che qualche industriosa riabilitazione, o rivendicazione, che pure è stata tentata, possa far mutare il giudizio. Poeta grande dunque no, nemmeno per il Martini; poeta senz'altro epiteto, almeno per il Croce, neppure. 11 prosatore? Mediocre; al punto che lo stesso Martini, riconosciuto che la prosa del Giusti « difettava di nerbo e di colore, dinoccolata a furia di scioltezza, a furia di proprietà paesana faticosa ed oscura », finiva, come ultimo salvataggio, per additare alcune pagine e ritratti, « veri squarci d'antologia », dalla Cronaca dei fatti di Toscana.' * * Ma parliamo un po' dell'Epistolario, cioè insomma dell'uomo. Ce ne offre occasione una nuova edizione in quattro volumi, che pubblica il Le Monnier. Chi avesse l'edizione del Frassi, che uscì nel '59, e la confrontasse con questa, vedrebbe immediatamente la differenza, non soltanto per la mole. Giustamente l'editore dice che « non v'è neppure possibilità di confronto». Del lungo lavoro attorno all'Epistolario noi siamo debitori al Martini; il quale, sebbene il poeta prediletto, amato sin dall'infanzia, ricevesse dalla critica colpi sempre più fieri, tra una difesa e una ammissione, non perde il coraggio per questa fatica, iniziata prima che andasse Governatore dell'Eritrea, proseguita durante il ritiro dalla vita pubblica, e condotta quasi a termine fino agli ultimi anni della sua vita. E' noto che la prima edizione curata dal Martini wcì nel 1904 ; ma da quell'epoca di documenti sulla vita del Giusti ne vennero fuori altri, e furono ritrovate anche le famose lettere scritte alla D'Azeglio, — sulle quali esiste tutta una storia che qui è inutile ricordare —; senza dire degli studi e delle discussioni che, sia a proposito di queste lettere sia su altri punti fondamentali della biografia giustiana, si erano venuti accumulando. Fu quindi per il Martini quasi un obbligo di fedeltà verso il suo conterraneo non tralasciare cotesto materiale, intervenendo anche all'occorrenza contro detrattori e falsi o corrivi interpreti del nome e della fama del Giusti. Almeno il cittadino, l'uomo occorreva salvarli ; usando a volte di quella discrezione clic era a suo parere necessaria, specie di fronte ad alcuni episodi intimi della vita di lui. Ma, sebbene il Martini e per innata signorilità e per rispetto affettuoso allo scrittore fosse portato a velare o almeno a non insistere su qualche punto delicato, non è detto ch'egli si nascondesse la verità ; e che al caso si rifiutasse di vedere e di deplorare, sempre garbatamente, i difetti dell'uomo. Citiamo, a esempio, l'episodio dei rapporti col Forti, prima amico poi berteggiato e oltraggiato nel Brindisi di Girella. « Del giudizio avventato — dice il Martini nell'appendice ad hoc — e della ine-; scusabile ingiuria si pentì forse egli più tardi ?, se mai, troppo tardi : e se cercò rimediare, il rimedio fu peggiore del male»: e reca il documento della leggerezza del Giusti. E a proposito dei rapporti con l'amica lontana, cui è dedicata un'altra appendice, il Martini mette senza alcuna attenuazione in rilievo il tono poetico dell'ode alla stessa e quello d'una lettera, scritta nel medesimo tempo a un amico, in cui si parla della donna con parole ben diverse. E poi commenta: «Tra quella lirica e questa prosa c'è un bel divario : chi legge l'ode non immagina che entro al petto di colui che la scriveva fervesse soltanto una sensualità irrequieta e bramosa. Eppure è così ! ». In tempi di psicanalisi, certi contrasti fanno meno impressione; il buon Martini invece se ne stupiva ; e se gli avessero detto, per esempio, che gli inni alla dea Libertà di Swinburne non erano che una deviazione e una sublimazione di certi suoi ardori erotici, si sarebbe certamente scandolczzato. Ma sempre, riguardo agli amori del Giusti, per quanto sentisse increscioso il soggetto, il Martini non si vietò di parlarne come l'animo gli dettava. « Nascondere la verità non si deve, dirla dispiace. E la verità è questa : che, stando almeno a quanto se ne sa e se ne scorge, il Giusti non amò mai, o forse, com'egli afterma, una. volta, giovanissimo ancora. Bramosie, injpulsi sensuali molti ed acuti : affetti no ». E da questo stesso punto di vista egli giudica i.rapporti con Luisa D'Azeglio, di cui narra la storia del carteggio in una delle appendici, con una conclusione ci pare in sostanza la più ragionevole. Da questi tratti della vita del Giusti '— che impegnano l'uomo così da vicino — che cosa se ne può dedurre se non quello che disse, epigrammaticamente forse, il Tommaseo? Ma se è vero che tutto l'Epistolario conferma tale sentenza, sarebbe esagerato farla pesare anche sull'ottimo cittadino che certamente fu il poeta di Monsummano. Le lettere del '48, tra le quali una bellissima proprio alla D'Azeglio, mostrano quanto in lui il fervore dell'Italiano fosse schietto, sincero. Questo è il punto essenziale. Ma l'Epistolario, disse il Carducci, è della « pedanteria popolare » ; « freddo, artificiato, civettolamente smorfioso ». Non si può risponder di no; ma converrà pur dire che non solo tale giudizio è l'indice estremo della violenta reazione alla fortuna che l'Epistolario ebbe in quegli anni, ma anche che è giudizio unilaterale perchè tien conto solo delle mediocri qualità letterarie di esso. Anche il Martini vi trovò « invece dell'accademia togata l'accademia vernacola » ; badò dunque anche lui solo alla letteratura. E' perciò che l'aurea mediocritas dell'uomo Giusti non fu colta subito come si doveva, nonostante l'acuta indicazione del Tommaseo: Ferdinando Martini, fra difese e ritirate, ammissioni e rettifiche, spese per lo scrittore più parole e tempo del necessario ; e solo eli anni ci han data una figura del Giusti, poeta e uomo, vicina alla realtà: a quella mediocre realtà di cui è improntata, con una sola eccezione, il Ricasoli, tutta la vita toscana dell'ottocento. G. TITTA ROSA.

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