Moralità e letteratura

Moralità e letteratura Moralità e letteratura Come da «ai la tendenza, abbastanza diffusa e tuttora crescente, di una restaurazione letteraria densa di vita etica, presuppone un'ultima reazione a d'Annunzio, al futurismo, al frammentismo, ecc., pur con gl'immancabili equivoci e parliti presi non tutti in buona fede, che derivano da una posizione di battaglia, in Francia simile atteggiamento presuppone una reazione a "Proust, a Gide, a Barrès. Questi tre maestri di ieri, e specialmente il primo, sono infatti da diversi fronti accusati di indifferentismo etico. Può sembrare a prima vista che tale rimprovero non possa andare ne a Gide, nè a Barrès ; il primo anzi, col suo moralismo di colorazione protestante e giansenistica, in apparenza si dovrebbe salvare da questa accusa. Ma come accordare il suo moralismo con l'altra esigenza, egualmente se non niù spiccata nella sua opera, di quella sua « disponibilità » morale, evidentissima nella formula così tipicamente gidiana : Ics extremes me toachentì Tale sperimentalismo etico di Gide finisce col coincidere con una sorta di dilettantismo, sia pure superiore : diventa un gioco fine a se stesso. Provar tutto, estrarre da tutto una particella di bene o di male, soprattutto di male se è vero che coi buoni sentimenti — altra frase celebre di Gide — si fa della cattiva letteratura, significa in sostanza giungere, sia pure per una via capziosa, a un vero e proprio indifferentismo. In quanto a Barrès, a parte i recenti acuti insulti^ di Gide, quel suo pragmatismo religioso e patriottico, quella sua volontà di credere, per scopi mondani e politici, ad alcune forze ideali utili più che vere, che altro significano se non vivere, anzi imporsi di vivere su una realtà morale alla quale non s'aderisce intimamente? E questo cos'è in fondo se non dilettantismo e indifferenza etica? Per Proust, tutto il suo lungo romanzo denuncia tale indifferenza. Proust capta con una mirabile seppure mostruosa sensibilità psicologica la corrente d'un personaggio : di fronte ad essa la sua disposizione è passiva, egli se ne imbeve fino alle minime vibrazioni, e restituisce ogni cosa quasi come un lago immobile rispecchia ogni variazione di luce e d'ombra, ogni movimento e cangiamento di nuvola e di cielo. Un drago, una foglia, il volo d'un uccello o d'un moscerino : tutto vive una vita egualmente legittima nell'onda palpitante del suo periodo. Ma nell'organismo così perfetto della sua sensibilità manca una cosa essenziale : il giudizio. I suoi sentimenti sono inqualificati : la loro esistenza, r>urchè_ ci sia, gli basta. Egli non discrimina; accetta e accoglie. E' noto che tutto ciò ha generato nei più attenti lettori di Proustuna insoddisfazione sempre più chiara. In principi^,' essi provavano di fronte alla sua opera un oscuro disagio; con l'andar degli anni e il chiarirsi progressivo dei significati intimi di essa al disagio è subentrata una stanchezza e poi una vera e propria reazione. E questa oggi è formulata senza ambagi, da quasi tutti gli ammiratori di ieri, con la parola «indifferenza», alla quale s'attribuisce anche un significato di limitazione. Tipico a questo proposito è il caso del Rivière che, partito da un'ammirazione di Proust nel quale aveva trovata in un grado singolare l'espressione della verità psicologica, fu il primo a sentire in quel radicale amoralismo qualcosa « de pénible, d'irrespirable ». E a staccarsene non senza dolore, per ritrovare un punto fermo nella vita etica, pur attraverso « un'intrepida fedeltà all'esperienza ». Ma se questo è vero, è logico domandarsi in che cosa differisce lo spirito letterario d'oggi da quello di ieri. Oggi, e non solo nella letteratura francese, qualcosa _ è mutato. Ieri allo scrittore si chiedeva una rappresentazione pura e semplice di sentimenti; oggi gli si chiede, insieme a questa, una qualificazione dei sentimenti che rappresenta. Ma qualificare i sentimenti è compito essenziale del moralista, perchè qualificare significa distinguere, e questo vuol dire stabilire una gerarchia delle forze morali. L'arte, o meglio l'artista, si vuole che abbia di nuovo un contenuto etico; anzi questo contenuto dev'essere alla base del suo mondo rappresentativo. Bene e male, queste vecchie parole che un'arte di pura rappresentazione aveva eluse o negate, tornano a costituire il centro della vita dei sentimenti trasferiti nella rappresentazione artistica. All'artista non resta dunque che fare un'arte densa di forza etica : un'arte cioè in cui le forze morali, nonché negate o eluse, siano rigorosamente affermate e pienamente rappresentate. Il contenuto dell'arte è la vita etica; questo è il principio, apparentemente nuovo, dell'arte che si vuole oggi, e che si tende a realizzare. Ma molti dimenticano il primo elemento di questa sintesi. Pare a costoro che per raggiungere un'arte densa di contenuto morale, basti possedere un contenuto: ciò che si dice, volgarmente, « aver qualcosa da dire ». Ma pongono talmente l'accento su questa necessità, su questa che sembra esigenza nuova dell'arte, che non tengono in conto sufficiente l'altra, che è appunto l'arte. Giungono cioè ad affermare un moralismo come il solo elemento necessario e sufficiente per la vitalità d'un'opera d'arte. Per reagire all'indifferenza etica dell'arte precedente, trascurano i valori artistici, nella convinzione palese o supposta che basti l'esistenza in sè d'un contenuto, al di qua della trasfigu: razione artistica, perchè questa si verifichi quasi automaticamente. Mentre la capacità artistica sta in una mediazione fra i due termini di contenuto e forma, in un rapporto speciale, che l'estetica chiama appunto intuitivo, per distinguerlo dall'altro raziocinativo o semplicemente morale, del quale rapporto la personalità dell'artista è il centro. E tale rapporto, appunto perchè esiste in quanto è l'artista e solo lui a mediarlo, costituisce una cosa sola, una unità. Tutti e due i termini di esso sono per conseguenza necessari, nessuno dei due è sufficiente. Tutto ciò servirà forse a chiarire in quale senso bisogna postulare una moralità nell'artista, un contenuto etico nell'arte. Per restringerci all'arte letteraria, è evidente che non basta possedere una coscienza riflessa dei valori morali, anche la più acuta, se 'tale coscienza non genera un sentimento, cioè uno stato intuitivo, sul quale prenda corpo un personaggio (modo tipico del romanziere) oppure, come avviene nel poeta lirico, tale sentimento non si faccia, per così dire, protagonista di se stesso, e si sublimi nel canto. In realtà, nell'artista non esiste prima una coscienza riflessa della vita etica, poi una coscienza intuitiva; non si tratta di due momenti, nè temporalmente nè idealmente diversi ; non c'è un passaggio dal primo al secondo. L'artista non può che intuire un sentimento ; e se lo ragiona, il suo modo di ragionarlo è diverso, come quali-!tà, da quello del moralista e dello'storico. Egli insomma vede per figure non per concetti o distinzioni logiche; e a seconda che il suo sentimento della vita morale è portato ad assumere una fomia strettamente lirica, (Petrarca o Leopardi) oppure una forma narrativa, che è proiezione in esistenze concrete e imitanti il reale del sentimento medesimo (Manzoni, Tolstoi), esso sarà poeta o narratore. Narrare è narrarsi, non in senso autobiografico, ma come trasposizione in personaggi, diversi da sè in apparenza ma legali al proprio io intuitivo. Ciò vai quanto dire che la narrazione è un modo d'essere della poesia; un modo d'essere trasferito in figurazioni d'esistenza obbiettiva solo apparentemente. In tal modo si riesce a risolvere quel contrasto tra lirica e narrazione sul quale si fondano astrattamente alcune discussioni d'oberi, e di conseguenza a superare le posizioni polemiche tra i cosidetti scrittori evocativi e 1 neo-realisti. Ma stabilito il carattere necessariamente intuitivo dei sentimenti in possesso dell'artista, si mette senz'altro fuori del campo dell'arte quella produzione pseudo-letteraria che oggi si riscontra soprattutto nel romanzo tedesco e americano; produzione il cui interesse è affidato quasi esclusivamente al documento, al grezzo contenuto, alla cronaca. Distingueremo perciò sempre più un Dreiscr da un Anderson, un Doeblin da un Thomas Mann. Da noi specialmente, che possediamo una letteratura per inabolibile tradizione sensibilissima ai valori dell'arte, cioè ai modi dell'espressione, se staremo attenti a non cadere nel difetto opposto, cioè in un formalismo più o meno calligrafico, sono impossibili, o dovrebbero esserlo, certe confusioni. Nati col senso della forma, in mezzi a una civiltà che da ogni parte ci si mostra in espressioni perfette, in classici equilibri, una restaurazione etica nell'arte non la potremmo mai concepire in dispregio della forma, quando questa è intesa rome perfetta espressione di un genuino sentimento. Le nostre epoche letterarie migliori furono appunto quelle in cui le due esigenze della vita artistica (serietà etica e gusto formale) si fusero più intimamente ; quando fra l'uomo e lo scrittore non ci fu dissidio, e una robusta eticità s'alleò a un'alta esperienza letteraria. Non ci possono essere altri rapporti, a nostro modo di vedere, tra moralità e letteratura G. TITTA ROSA.

Luoghi citati: Barrès, Francia