Pietro Gasparri intimo

Pietro Gasparri intimo Pietro Gasparri intimo Facciamo un'ipotesi assurda; che alcuno, senza aver mai avuto notizia di lui, fosso andato ad ascoltarlo mercoledì scorso, quando al'Congresso giuridico internazionale narrò come sotto la propria direzione fu compita l'opera immane della codificazione del Diritto canonico. Ebbene, da un racconto cosi tecnico e così estraneo a quella lunghissima attività diplomatica, che pure era stata la più popolarmente nota delle attività sue; da un tal racconto, lo strano ascoltatore avrebbe potuto non solo aver pieno lume sul tema svolto, ma l'arsi un'idea dell'uomo che 10 svolgeva. Anche in pagine strettamente storico-giuridiche il Cardinale avea lasciato il segno della particolare indole propria, nella quale avea tanta parte l'aborrimento da ogni convenzionalità. Quando disse che nonostante i grandi meriti di Leone XIII, sotto quest'ultimo la grande impresa, non si sarebbe potuta condurre, si vide chiaro che al suo franco giudizio non voleva mettessero gli usuali ostacoli, nò la propria porpora, ne il breve tempo dalla morte d'un tal Papa. Quando riferì che un insigne canonista, l'E.mo Gennari, nel suggerire a Pio Decimo d'affidare il gravissimo compito direttivo al Gasparri stesso, aveva aggiunto che in tal modo « il grande lavoro sarebbe in ottime mani », vi vide chiaro che la modestia, nelle forme stereotipate c screditate non era fatta per lui. Senoiichè, nello stesso modo che il suo libero giudizio sopra gli altri, per eccelsi che fossero, era disciplinato da una profonda equità, l'accogliere e il palesare una lode, per quanto solenne, rivolta a lui, appariva un atto di sincerità disinteressata, aliena da ogni vanteria, le pareva talvolta vantarsi che certi cavilli di diplomatici, perchè troppo artificiosi, si spuntassero contro le sue <-. scarpe grosse e cervello fino », il vanto avea forme d'umiltà, pel suo ritornello: «io sò pecorarp ». E difatti le origini, remote non prossime, della ricca famiglia sua e delle ricche famiglie congiunte, erano state di poveri pastori. Ad ogni modo, che il suo applauditlssimo discorso in articulo mortis lo avesse riguardato come codificatore del Diritto canonico e non come Segretario di Stato di due Pontefici, fu cosa arcanamente logica. Nelle età venture la sua gloria più certa e più chiara sarà quella. Oggi, per la moltitudine, che un pò sa di politica, ma non sa quasi nulla della storia del diritto in ispecie ecclesiastico, il defunto apparisce quasi esclusivamente come ministro della S. Sede in due ore politiche d'importanza incomparabile, quella della guerra mondiale e quella della Conciliazione, ma per quanto abbia lasciato tre volumi di Memorie manoscritte, dei quali i primi due, cioè fino ai pontificato di Pio undecimo, saranno forse pubblicati presto, chi saprà mai con precisione quanta parte dei memorabili provvedimenti del Vaticano, vi siano dovuti a lui e quanta ai suoi Sovrani? 11 fatto dei Segretari di Stato pontificii è questo: non poter il più delle volte, agli occhi della storia, restar distinti da chi fu sopra di loro. E, se per circostanze speciali, alcuni, e soprattutti il Consalvi lo potè, come lo potrà chi, come il Gasparri, servi due Papi, Benedetto XV e il Papa regnante, ambedue attivissimi, intraprendentissimi, consapevoli della propria suprema autorità, ed avvezzi ad esercì tarla intera? Il giurista godette in lui assai maggior indipendenza, e possibilità di segnare visibili impronte pròprie, che non il politico. Un giorno che potei visitarlo men tre attendeva al Codice, gli dissi seller zando: «Vede, Eoi., il Diritto Canoni co ha ottenuto da Lei un primo prodigio, che Ella diventasse un uomo d'ordine ». Difatti nell'immensa sala sopra innumerevoli piani, erano dispo sti con la massima regolarità i fascicoli contenenti le proposte d'articoli del Codice e le osservazioni rimandate da prelati e periti d'ogni terra. Egli poteva aggirarsi in mezzo ad essi con sicurezza e rapidità. Invece nel suo gabinetto di Segretario di Stato la scrivania era un caos, e chi avesse da consegnargli qualche carta, dovea raccomandarsi, spesso inutilmente, che le si facesse un posticino dove non fosse troppo difficile ripescarla. Naturalmente, quel gabinetto fu da me frequentato più dell'officina del codice. Durante i colloqui, le sue mani non stavano mai ferme, cacciavano lo zucchetto ora su gli occhi, ora sulla nuca. E in così lungo esercizio di diplomazia, poiché sul fine della guerra e dopo, egli era nel mondo il più antico, e dei più antichi, fra i ministri in carica, non s'era mal fatto una maschera d'impassibilità. L'effetto delle nostre parole, gli recassero notizie buone o eattive, passava sul suo viso con luci od ombre manifeste. Talvolta, se gli aveste a comunicare cose che ferissero la S. Sede, scoppiava in collere aperte, gelosissimo, com'era, dell'onore di lei. Ma quando si fosse calmato, o il colloquio fosse stato tranquillo, la parola di lui aveva sempre la sapienza positiva che in tutto era diventato romano. Appena finita la guerra, e quando stava per aprirsi il Congresso degli Alleati a Versailles, trovo nel suo carteggio, 15 Dee. 1918: «Ella (ha scritto) che fu dei primi a condannare l'invasione del Belgio, potrebbe farmi avere con qualche sollecitudine, una bella tirata contro la Germania per detta invasione? ». E il 23 dello stesso decembre, insiste: « Io desidero uno o più brani di suoi articoli o conferenze nei quali Ella condanna la Germania per la violazione del Belgio fin dal principio della guerra. Non ometta d'indicare l'articolo o la conferenza con la rispettiva data». Allora, e durante la guerra, potei e avevo potuto notare che la concordia sulla condotta da tenere verso ì belligeranti era identica fra Benedetto e lui; l'istossa passione per confortare tutte indistintamente le sventure che il conflitto apportava; la stessa accorta fermezza nello schivare i tentativi che con mille arti si facevano da ogni lato, per trascinare la Santa Sede fuori di questa paterna imparzialità. Quale dei due vi spiegava maggior iniziativa? Ecco appunto una questione che non potrà, credo, risolversi mai. Sul principio del 1919, se non erro, cominciarono i nostri colloqui sulla questione romana. Mi permise di leggere i preziosi appunti dei discorsi che Mons. Corretti, inviato apposta a Parigi vi avea tenuto col presidente del Consiglio, Orlando. Anche quando questi fu caduto dal Ministero, continuarono nel Cardinale, in pieno accordo con Benedetto che « sospirava » (è la sua parola) la Conciliazione, le speranze che ci sì potesse arrivare. Dis- a a sentivamo sopra un punto; io dicevo non potersi mettere in dubbio la buona fede dei Ministri del tempo, i quali essendo relativamente giovani non aveano più la mentalità del 1870, ma nessuno di essi aver l'autorità e la forza per presentar progetti in materia. Sarebbero stati rovesciati subito. Unico, benché alieno dallo spendere il suo prestigio per affrontar un Parlamenta, pur da lui abitualmente signoreggiato, esser Glolitti, ritornato al potere nel 1920, ma, questi mi aveva detto esser meglio per il Papa e per l'Italia continuare nei rapporti antichi, poiché una proposta di Conciliazione avrebbe scatenato un anticlericalismo, che egli non voleva a nessun costo. D'altra parte il Cardinale, specialmente turbato dal disegno giolittiano della nominativita dei titoli che avrebbe rovinato le easse ecclesiastiche, di Giolitti non voleva sapere. Frattanto sulla fine del 1920 il Cardinale ebbe occasione di rendere un gran servizio a Torino e all'Italia. Tutti ricordano che l'alleanza amministrativa tra liberali e cattolici aveva salvato fino allora il Comune dagli attacchi socialisti. Ma quell'anno, nonostante che il socialismo locale avesse spiegato bandiera bolscevica, l'intransigenza deliberata dal partito popolare in | tutta la Nazione rendeva impossibile] quell'alleanza, che d'altra parte ai « po-1 polari » torinesi oramai sembrava inutile, tanto nelle recenti elezioni politiche i sovversivi avevano superato coi voti loro la somma dei voti liberali e cattolici. Ma Teofilo Rossi pensò che questi ultimi, se di nuovo alleati, potessero ancora riuscire; si rivolse a me, deputato popolare di Torino, per tentar la prova, e n'ebbe incoraggiamento dal Card. Gasparri. Ma io, per spirito eli disciplina, senza ancora sapere di questo incoraggiamento, mi rivolsi del pari al Cardinale. Il 22 settembre n'ebbi la risposta seguente, col permesso di mostrarla ai miei amici: « Ove l'intesa è necessaria per impedire l'avanzata socialista, l'intesa è un dovere. Le direttive e la disciplina del partito!! Ma quando queste si oppongono ad un dovere, è chiaro che è il dovere che deve prevalere, e le direttive e la disciplina debbono porsi in disparte. Insomma, l'intransigenza assoluta proclamata dal Partito popolare è stata un errore e nessuno è tenuto a servire un errore. Distinti saluti. - Pietro Card. Gasparri ». Far recedere i popolari torinesi, che con deliberazione propria avevano confermato l'intransigenza stabilita dal centro, non era facile; i contrasti furono vivi, ma chi in una loro finale adunanza riuscì a persuaderli di recedere, e di profittare della libertà che finalmente il centro avea dato loro, si valse dell'autorità che la citata lettera doveva avere sulle coscienze. Essa fu quindi l'argomento decisivo a stringere l'alleanza e a stimolare i « popolari » specialmente giovani, a buttarsi allo sbaraglio con un lavoro arditissimo e incessante. Di qui la vittoria liberale cattolica, che impedì ai sovversivi di far di Torino la rocca bolscevica e che ebbe un'eco in tutt'Europa, tanto piti che non poteva prevedersi allora la generale riscossa dell'Italia, avvenuta due anni dopo con la Marcia su Roma. Non era trascorso molto tempo da quella Marcia; non era ancora iniziata nessuna trattativa, nemmeno in nube, per la Conciliazione, quando una sera, essendomi recato con un altro senatore a visitare il Cardinale, ed essendo caduto il discorso sulla questione romana, sulla quale mi parve che egli avesse abbandonato le speranze già poste in ministeri tramontati, egli ci disse nel congedarci. «Le difficoltà di risolverla sono molte, ma dalla parte dell'Italia c'è uno solo che possa superarle ed è Mussolini ». Ed ora nel dolore dì vederlo scompa- rìre e con una rapidità così tragica,1 mi studierei di rivederlo con la memo- i ria ne. momento dì quella profezìa, se fenon preferissi un altro suo momento, quando fu ricomposta la pace dopo il ; momentaneo conflitto succeduto alla Conciliazione, quella pace a cui tanto; egli si era adoprato. Uscivo dal gabi-jnetto del Segretario di Stato odierno, Cardinal Pacelli, quando incontro nel l'anticamera il Nostro. Mi dice aprendo le braccia: «Oh! chi si rivede! Lei è venuto senza dubbio a rallegrarsi col mio successore». Rispondo: «Sì, ma non con luì solo ». Allora mi dice all'orecchio: « E avremo la visita del Duce al Papa. Sia ringraziato Iddio! ». Non avevo mal visto il suo volto splendere di tanta luce! t Filippo Crispolti