LETIZIA

LETIZIA LETIZIA ^ L'amore, quando è vero, tende all'alto. In città, spinge ai giardini, tra gli alberi, anche sui tetti delle case, sulle terrazze. Ce ne salivamo lassù, non avendo il permesso d'uscire. Lesto lesto, per le scale, perchè non se n'avvedesse qualcuno. Ma una servente con la cesta del bucato ancora stillante, la si trovava sempre, maledizione. Saliva anch'essa e sciorinava al sole la biancheria, turbando, con questa noia realistica, l'aspirazione poetica della nostra escursione. Non so quello ch'io fossi per lei ; lei, per gli altri, era soltanto una scolaretta di ginnasio; per me, il più affascinante mistero vivente. A scuola, avevo dinnanzi la sua schiena, con la treccia dei capelli : ogni movimento del suo capo era, per la treccia, una scossa, e Io era anche per me. Sentivo il suo respiro, la sentivo vivere, vivevo come se respirassimo insieme lo stesso fiato. E pure, non solo ascoltavo la lezione, ma essa mi s'imprimeva nella mente con potenza fotografica. Avrei saputo dire a quale passo del De bello gàllico, Letizia s'era curvata a raccogliere il fazzoletto, il giorno tale del mese tale, e a quale verso de « I<a Caduta » del Parini s'era fatta rossa in viso, a causa d'un errore d'interpretazione, assai grossolano, commesso da una compagna. Difficilmente, interrogato, mancavo alla domanda. Alle volte, non sapevo con precisione; ma, al momento di dire, mi balenavano dinnanzi le parole esatte, e le ripetevo, come per illuminazione improvvisa. Se interrogata era lei, compivo lo stesso sforzo e ottenevo lo stesso risultato; la risposta mentale la trasmettevo a lei, che, se in imbarazzo, istintivamente gettava su me un'occhiata rapida. Provavo, allora, udendo la sua voce ripetere precisamente quello ch'io avevo pensato, la sensazione di formare io stesso le parole sulle sue labbra. Benché abitassimo nello stesso palazzo, raramente tornavamo insieme a casa. Ci piaceva, piuttosto, accompagnarci di lontano, fingendo di non saperlo. Giunti, ci salutavamo sull'uscio. La immaginavo nella sua stanza, deporre i libri, prepararsi per il pranzo. Avrei voluto vedere come si sedesse a tavola quella che avevo veduto solo sedersi sul banco, come portasse il cibo alla bocca, e come questa bocca che conoscevo solo nei trattar latino, prosa e poesia italiana e scienze, trattasse il pane e la pietanza. Ci vollero ancora due buoni anni di ginnasio, prima che ci risolvessimo a salire in terrazza. Si dominava la città, si toccavano con mano cupole e pinnacoli ed anche le cime dei piroscafi, degli alti velieri ancorati nel porto. Quando nuvole leggere viaggiavano nel cielo azzurro, anche la nostra terrazza si disancorava di sui tetti, e, inghirlandata del verde delle montagne, andava a spumeggiare sui flutti del Mare Jonio, in un rapimento d'allucinazione. Allora, le dita che conoscevo nello sfogliare le pagine, sfogliavano petali di rosa nell'aria; mi pareva fatta interamente di sostanza celestiale, mi pareva una rincarnazione delle forme mistiche studiate nel verso antico, e conservate, nel tempo, dall'aria slessa dell'Isola dalla marina, dal monte tuttora olezzanti di mito. Non solo, ma le fredde cognizioni apprese nell'aula, anche quelle (Ielle materie più aride, si scaldavano al sole mentre le ero accanto, rivelandomi, senza ch'io ci ponessi mente, l'esperienza umana che le aveva faticosamente formate nel tempo. Nel calore del suo corpo adolescente, del suo fiato olezzante di sanità, il sapere, ancora superficialmente impresso, mi filtrava dalla mente nel sangue, diventava vita. E d'altro lato, la vita vivente d'ogni giorno, era naturalmente ricondotta dallo spirito ai segni fissati dall'esperienza del sapere e acquistava, ai miei occhi, i contorni del divino. Quando, dall'alta terrazza, _ scendevamo nella strada, avviandoci, finalmente insieme, a scuola, l'odore degli agrumi conciati in salamoia nelle botti e pronti a saziare i fianchi di piroscafi e velieri in attesa, mi svegliava nel palato non so qual sapore odisseo; e le ciurme sui ponti e tra il sartiame, lo sforzo dei caricanti, le loro voci afre mi destavano nella immaginazione marine più orientali e più lontane nel tempo, e pur così vive come se fossero queste le stesse di Omero. E pure, in parte, lo erano. Di modo che m'era agevole, respirando insieme l'odore della sua vita giovinetta e l'aria di Omero, rievocare nella sua purissima belezza, Elena e l'eterno femminino, senza, perciò, impegnarmi al punto, di vietarmi un ricordo cavalleresco, se, voltando il cantone, un ridente giardino di mirto e d'alloro con ajuole fiorite e zampilli e fontane, ci mandava incontro, con il profumo di gardenie e gelsomini, il felice mormorio d'una strofe d'Ariosto. Non a caso, più innanzi, i cavalieri sfoderavano la spada su di una tela colorita, mentre la bella Angelica galoppava per sentieri freschi d'erba e di sole primaverile. Su questa terra, la Cavalleria c'era passata e ci rimaneva ancora nei canti del popolo e nei teatri dai personaggi sfavillanti in corazze di nichelio, e scalpitava con le zampe di muletti segaligni, capaci di portare il carretto vario: pinto, per impervie strade, sino ai confini del mondo. E se non proprio laggiù, certo giungevano con fragore^di sonagli, ribrillii di borchie e di specchietti, sussulti di pennacchi, ai meno esplorati paesucoli della montagna, accovacciati, come pollai, tra pistacchi e mandorli in fiore. Accompagnando con la voce lo schioccar della frusta, l'auriga richiamava a commercio gl'interessati; mentre, sbucato dalle siepi di rovo, il modellante campagnuolo, s'accostava, circospetto, al carro sfolgorante, per indagare la fronte corrugata e le dita nel naso, le gesta dipinte di Orlando paladino. Circonfusa da questo nembo poetico, Letizia non moveva i passi sul lastrico della strada, ma su nuvole di pensieri amorosi. La palestra ginnastica — non attrezzata, ohimè, come oggi, ne cosi ariosamente aperta da potersi anche per poco paragonare agli stadii in cui la giovinezza, al presente, può esprimere al sole la sua felicità di essere — la palestra ginnastica, cosi angusta com'era, mi si slargava nell'anima, in rievocazioni olimpioniche o di tornei cavallereschi. Ed anche oggi -- dopo tanti anni — se assisto ad un saggio ginnastico - - oh (pianto in proporzione più in grande! — non solo rivedo la scolara del mio primo purissimo amore, ma risento il profumo di quel tempo e le più minute sensazioni allora provale. Rientrando, dalla palestra, nell'ombra turchina dell'aula, specie se cominciava la primavera e le finestre rimanevano aperte, il leggero sopore che prende dopo lo sforzo fisico, mi faceva, intorno, svanire le cose nei vaghi lineamenti del sogno. Leggeri soffi d'aria movevano le tende, a ondate, giungeva il profumo del fior d'arancio. II professore, ancora giovane e letteratissimo, recitava a memoria, uno squarcio dell'Eneide. Con gusto, pasteggiandoselo in bocca, si soffermava a spiegare di tanto in tanto; poi, evidentemente preso dalla bellezza del verso, si scordava di commentare, e andava avanti per conto suo, forse dimentico degli stessi scolari che gli stavano dinnanzi. Quell'aria, quel profumo, il tepore della primavera si commischiavano con la musica di Virgilio, e tutt'insieme assumevano la figura di Letizia, la cui treccia, tra gli occhi socchiusi, mi dondolava dinnanzi, dapprima come la treccia di capelli che era, poi come un intreccio di spighe d'oro, e poi come qualcosa di olimpico, di sovrumanamente classico. L'aula, mi si trasformava nel dormiveglia, in un carro febeo, ed i mici compagni divenivano tutti citaredi. Ma i cavalli li guidava Letizia, tra le cui mani, i suoi capelli stessi rlivcnivano briglie d'oro per un verso e dall'altro un'arpa parimenti d'oro. Ad un tratto, però, squillava il mio nome. — Dove siamo giunti? — mi domandava il giovane professore a bruciapelo. — Dove? — rispondevo, alzandomi disorientato. — In Parnaso, professore. Gli volevo molto bene, perchè capiva che le mie non erano distrazioni, ma una maniera di comprendere. E, talvolta, tacchettando sulla pedana e ammiccando con gli occhi: — Questa benedetta Laura ! ■— ripete-' va due o tre volte. — Letizia ! — mi veniva di correggere. Ma Letizia o Laura era così rossa, che lasciavo correre, ed anch'io abbassavo gli occhi, mormorando : « Chiare fresche e dolci acque... ». Rosso di San Secondo

Persone citate: Ariosto, Parini