Settecento inglese

Settecento inglese Settecento inglese La prima osservazione che capita ili fare a chi visita la mostra della pittura inglese alla Royal Academy idi Londra, quest'anno, è certo sulla enorme preponderanza di ritratti. Se si dovesse desumere il carattere <d'nn popolo dai soggetti prescelti dai pittori, si potrebbe dire che come l'Italia del Trecento ci pare assorta nel culto delle immagini della Vergine e dei santi, così l'Inghilterra del Settecento _ ci dà l'impressione <ì'una nazione in estasi davanti alla sua oligarchia: patrizi, ammiragli, nomini di toga e di spada, e quelle dame del Reynolds nobili come dee e sibille, e quelle del Gainsborough più umanamente affascinanti, quando passavano nei grandi cocchi adorni di dorate figure mitologiche e di pannelli dipinti dal Cipriani, splendevano agli occhi della plebe di Beer Street e di Gin Lane, di quella rozza plebe che vediamo nelle stampe del Hogarth, splendevano essi come una razza eletta e adorabile? Non ci meraviglieremmo se così fosse stato, perchè l'Inghilterra è oggi l'ultimo "baluardo dell'aristocrazia nel mondo. Ma vi sono ragioni di gusto che spiegano quella predilezione dei pittori inglesi del Settecento. La voga fera pei quadri delle grandi scuole italiana e olandese; per valer la pena d'esser appeso in una galleria di palazzo, un quadro aveva da essere istraniero, di preferenza italiano. Per jrn Carlo Maratta quei bravi patrizi, che aspiravano al titolo pseudo-itaìliano di cognoscentì, ossia intenditori, eran disposti a pagare duecento (sterline, e cento per un Holbein, un Rubens, un Lorenese; ma se un pittore inglese offriva un soggetto allegorico o sacro o un paesaggio, poteva considerarsi fortunato se trovava un compratore. Tuttavia non SÌ poteva chiedere a Tiziano o al [Veronese che venissero a fare il riif.ra.tto d'un gentiluomo del Settecento; e siccome il ritratto si voleva, non restava che dame la commissione a un inglese contemporaneo. •Sicché solo in questo campo si riconosceva una competenza ai pittori d'oltre Manica, i quali, se volevano Rampare, ci si dedicavano. Codesta ragione di gusto spiega à'n parte quella enorme preponderan£a di ritratti, ma solo in parte. Che è d'altronde vero che gl'inglesi del Settecento furono spesso grandi e memorabili personaggi, degni d'esse!re immortalati dai pennelli. Chi è uso a pensare al Settecento come a un'età effeminata e corrotta, che poteva solo lavarsi nel sangue d'una rivoluzione come quella francese, dovrebbe esitare a estendere quelle caratteristiche all'Inghilterra, il cui Settecento, se ebbe molto in comune col Settecento continentale, fu però soprattutto un'età virile e tetragona. Questa giusta considerazione si legge al principio di un volume complessivo sul secolo, pubblicato dalla Clarendon Press alla fine dello scorso anno (Johnson's Euglena, An Account of the Life and Manners of his Age, a cura di vari). Il Settecento inglese è sì l'epoca d'un raf rinato patrizio come Lord Chester field, che tra ì saggi consigli mon dani che dà al figlio nelle famose lettere, condanna il vizio volgare ma raccomanda le coperte vie dell'intri go; è sì l'epoca dei dandies come Beau Nash ; ma ben altra pittura del secolo può farsi se si pensa a Clive piantato come torre ferma alla breccia d'Arcot, a Wolfe coi suoi uomini in atto d'inerpicarsi pel ripido sen •tiero tra i boschi verso Quebec, al capitano Cook che penetra con le sue vele in Botany Bay... Che se la [Inghilterra perse in questo secolo un impero colla rivoluzione americana, ne conquistò un altro e s'assicurò la egemonia dei mari. E di questa robustezza fondamentale degli inglesi •furono consapevoli i contemporanei continentali, la cui infatuazione per le più effimere mode d'oltre Manica, la ben nota anglomania, andò congiunta con l'ammirazione per le solide virtù anglosassoni. Essere inglese significava avere un carattere. Duri e giusti li trovava il Rousseau : « Je trouve beau qu'ils ne soient qu'Anglais, puisqu'ils n'ont pas besoin d'ètre hommes ». L'Inghilterra settecentesca abbondò di genio creativo nelle scienze e nelle arti, e se è piaciuto ai compilatori dei due volumi panoramici intitolarli al nome di quel solido carattere di letterato che ffu il dott. Johnson, con altrettanta proprietà avrebbero potuto intitolarli al nome dell'infaticabile Priestley, i cui esperimenti scientifici ebbero tanto grido in quel secolo di scoperte. In realtà, quello che più c'interessa in questi due volumi non è tanto la moda, il costume, le amenità delle arti e delle lettere. Codeste son cose risapute e risaputissime, sebbene, per esempio, il saggio di Osbert Sitivell e di Margaret Barton sul gusto offra una scena nota vista da un angolo insuelo. Giardini^inglesi e cinesi, finte rovine romantiche e ì'Ha-Ha (barriera invisibile che impediva agli animali del parco d'entrare nel giardino), le squisitezze pompeiane degli Adam precorritrici dello stile Impero, il commercio di statue messe insieme con frammenti di scarto dagli antiquari romani e pagate a peso d'oro dai « virtuosi » d'Albione, e quei piani di tavole, fatti di pezzetti di marmo rubacchiati e smozzicati da antiche colonne, che fan bella mostra in ogni villa inglese che si rispetti ; il Grand Tour dei « milordi », e i combattimenti di galli, e le caricature del Hogarth, queste e tante altre cose son familiari a tutti, oramai, son parte immancabile nella visione di quell'epoca di solido mogano e d'argento pesante che fu l'augusto Settecento inglese. Ma sapere che l'Inghilterra si conquistò un impéro coloniale con una marina decimata dalle febbri, e nutrita di pane verminoso e di birra acida, e con truppe che sotto il sole cocente dei tropici combattevano cogli stessi vestiti che indossavano a Londra per csdbrturdrtFpmttssdtcvLutpsd comparire in parata dinanzi al loro sovrano che se ne compiaceva come di giocattoli di lusso (al modo d'ogni bravo sovrano settecentesco),_ sapere questo è forse più nuovo e istruttivo. E se si pensa che le mene degli uomini politici in patria spesso paralizzavano l'azione dei comandanti di terra e di mare, apparirà quasi miracoloso come in tali circostanze potesse fondarsi un impero coloniale. Fu un'opera di ardire di animosi capi, e di tenacia e obbedienza di umili gregari. Opera mal rimunerata, anche, poiché nessuno a quei tempi si sognava di fare un eroe del semplice soldato : i loro nomi eran scritti nell'acqua e nel vento. L'eroe del Settecento inglese era il celebratissimo English Merchant. Tabacco, cotone, rum e schiavi negri figuravano indifferentemente come merci. La carta del mondo era aperta come un libro di cassa. George Washington se la pigliava contro gl'inglesi perchè le loro leggi gl'impedivano di speculare colle terre dell'Ohio, e guidava l'America all'indipendenza. Eppure dinanzi a questi avventurieri spregiudicati, pur con la loro Bibbia, dinanzi a questi soldati male equipaggiati e uccisi dalle epidemie, più che dalle ferite, come bestie brute, dinanzi a questi marinai che di regola non sapevano nuotare (ce lo dice l'ammiraglio sir Herbert Richmond nel suo saggio sulla marina, e stenteremmo a crederci), si sfasciavano vecchi imperi, si aprivano nuovi continenti. V'è un fattore di cui non ci si rende conto che indirettamente in questa voluminosa rassegna, un fattore di cui la storia non serba che implicito testimonio, ed è la forza vergine della razza, che dovette vigoreggiare nel Settecento in Inghilterra. Beer Street e Gin Lane, sì, e gli orrori della miseria e del vizio rappresentatici dal Hogarth, e condizioni d'igiene e tenore di vita che oggi sarebbero- inconcepibili : ma non è qui tutto. Su colonne di muscoli e di sangue, il bruto sangue tenace e taurino, è sorto quel tempio imperiale inglese che ancora oggi rosseggia sulle carte. Opera quasi inarticolata d'inconsapevoli eroi, dapprima : poi verranno i teoristi, e i poeti, Henley e Kipling, ma tardi, molto tardi, quando gli agi avran reso la razza più civile e guardinga. E l'origine dell'impero si circonfonderà di mitici colori. Come l'inno famoso, God save the King, scritto da un ignoto (non da Kandel o da altro compositore ufficiale) in commemorazione d'una sconfitta (il disastro di sir John Cope a Prestonpans) ; e trasfigurato nel corso degli anni in un canto di trionfo e di vittoria. Quei soldati che Sua Maestà britannica mandava nei tropici in equipaggio di parata. Sua Maestà di Francia allineava in bella fila perchè saltassero all'unisono per la scossa elettrica somministrata loro dall'abate Nollet con la sua nuova macchina. Il Settecento è l'epoca della scoperta dei fenomeni elettrici, e alcune delle pagine più amene di Johnson's England son quelle che narrano dello stupore dei contemporanei alla nascita delle prime scintille. E la loro sorpresa, e il loro terrore, alla scossa, ci son descritti da quei bravi parrucconi in tali termini iperbolici, che se oggi noi non fossimo in grado di ripetere l'esperimento, immagineremmo dalle loro parole che si trattasse di cosa ben diversa da quella che è in realtà. Sarà così di molte altre cose del passato? Cataclismi e morie di cui leggiamo negli antichi, sembrerebbero a noi cose di poco momento, se potessimo paragonarli alle stragi che può provocare la scienza moderna? Altro argomento per mostrare come sia difficile mettersi dal giusto punto di vista per giudicare il passato. Il pericolo, come nota la prefazione di Johnson's England, è di rimaner colpiti dalla stranezza, dal pittoresco dei costumi e delle credenze d'un'epoca a noi lontana, e di dimenticare il fondo di comune umanità che varia relativamente assai poco. Leggiamo dei soldati inappuntabili come soldatini di piombo, verniciati di tutto punto, inviati a combattere in climi a cui l'uomo bianco tuttora male s'adatta, con tutto i progresso, e sorridiamo dell'ingenuità del Settecento; leggiamo che le persone di gusto adoperavano il termine sharawaggi a designare le asimmetriche creazioni dell'arte orientale, e apprendiamo che quel termine, creduto cinese, è una pura fantasia, e dì nuovo sorridiamo dell'ingenuità del Settecento. Leggiamo del vezzo delle dame di dedicarsi ai piaceri della matematica, della popolarità degli spettacoli pubblici di dimostrazioni elettriche, della cocciutaggine del rvPriestley di credere al fantastico phlogiston invece di accettare la spiegazione del Lavoisier, ritrovatore dell'ossigeno, e sorridiamo. Ma di tali ingenuità e stranezze è piena ogni età, e i nostri nipoti sorrideranno del nostro surrealismo, della voga per la psicanalisi tra le nostre signore, e via dicendo. Ma, infine, la genie che viveva dietro quelle file di uguali finestre nelle simmetriche strade settecentesche che rimangono ancora in Bloomsbury, era forse assai meno strana e pittoresca, assai più umana, forse, di noi meccanizzati novecentisti. Dopo tutto siam forse noi a vivere nel più rivoluzionario periodo che sia mai stato dacché mondo è mondo. AURiO PRAZ.