Cervantes ritorna

Cervantes ritorna Cervantes ritorna Quanlc volte lio Ietto e riletto le avventure del Gran Cavaliero! In italiano, in spugnolo, in francese; la prima volta, da piccola, nell'edizione scarnita e «spepata», dove solo sopravvive Io schema comico della narrazione, senza aureola tragica nè introspezione drammatica. Così più tardi, adolescente, fui tutta sorpresa di trovarmi a tu per tu, nella grande edizione legata in rosso, a labbro dorato, illustrata da Gustave Dorè, con un Cervantes sconosciuto, bizzarro grandioso e amoroso; la storia del Cavaliero in quel testo integrale si trova intercalata a storie di avventura e di passione, di cui capivo vagamente che mi schiudevano il mondo dei grandi, una soglia a me sino allora vietata, balenante ombra, luce e mistero! La bella Zoraide, per esempio ; non ricordo più esattamente, ora, cosa le fosse accaduto ; ma so che ho sognato e palpitato per lei e con lei. E più tardi ho letto anche Unamuno, e Heine, e tanti altri che hanno fatto dell'arte, della filosofia, o della letteratura intorno a Don Chisciotte; tessendo ragnatele di filosofemi universali intorno a quella, cosi umana, figura. Ebbene, con tutto questo, volete credere che non ho mai tanto capito il Gran Cavaliero come l'altro giorno, al cinematografo? Potenza dell'arte, che si svela e si illumina di sempre nuovi significati; potenza anche dell'ingegno, che traduce un capolavoro sènza profanarlo ! Vi pare poco rischio? Una delle bibbie _ dell'umanità, incarnarne i fantasmi scritti più di trecento anni fa, in persone vive, in attori < attrici della carne e del tempo d'og gì, e poi proiettarli sullo schermo, e per giunta — qui da noi — con quella imperfetta supermeccanizzazione che è il doppiaggio parlato in altra linguai Un rischio da rompersi l'osso del collo. A dirla cosi, sembra di doversi velare occhi e orecchi imprecando al Satana della speculazione, dell'istrionismo e della meccanizzazione, che avvilisce e svaluta nella democraticità moderna ogni aristocratica arte, riservata agli eletti. E invece, è un capolavoro. Guardandolo e ascoltandolo, a me avverava di scoprire per la prima volta in Don Chisciotte lati arcani mai prima compresi, o intuiti solo in confuso. Innanzi tutto, mai egli mi era apparso cosi spagnolo nello spazio; mai così immortale e universale nel tempo. Meravigliosi tagli di paesaggio, composti nella cornice dello schermo, commentano l'azione; più ancora, l'essenza spirituale dei personaggi. E' la landa spagnola, arida, diroccata, fissa e sassosa; così austera, che ogni roccia vi pare naturale piedistallo all'ascetica figura del Cavaliero; la naturale scaturigine della sua innaturale visione, tanto è essa stessa allucinante. Un molino a vento, su quei cieli, veramente appare piuttosto un gigante che non quattro cenci di tela su quattro assi imperniate. La Spagna immobile estatica vi si rivela nell'anima della sua luce immobile estatica. 11 Don Chisciotte cammina tutto sul filo di un rasoio, fra il tragico e il grottesco. Bisognava dunque evitare la farsa, e anche il dramma a base di fastosa, sgargiante parata storica, pur senza rinunciare al fascino dell'esotico e delle lontananze dì tempo. Questo film esemplare fa uso estremamente sobrio del pittoresco; e sa anche servirsene con giusto senso storico. La povera gente, si sa, veste press'a poco sempre uguale ; per esempio, gli albanesi e certi contadini greci d'oggi portano probabilmente ancora il vestito miceneo di trentacinque secoli fa. Dunque, la folla del villaggio, Sancio, la sua moglie ci bimbi, l'oste, e tutto il resto della piccola folla anonima, potrebbero essere, e probabilmente sono, gente della campagna spagnola nel quotidiano abito d'oggi. I ricchi, invece, sempre, vestono ricco e differenziato, secondo la casta e il tempo; per cui, le scene in casa il Duca sono scene di costume; tuttavia salvate da un certo lepido sapore di caricatura anacronistica, per la sovrapposizione, quasi supermontaggio, dell'età leggendaria dei cavalieri erranti con la disincantata realtà storica del 1600. Ma soprattutto. Sancio nella pellicola appare in nuovissima luce. Per la prima volta mi sono accorta che i! personaggio veramente prodigioso del romanzo, non è Don Chisciotte; è Sancio. Don Chisciotte è un pazzo. Sul volto di Scialiapin suo interrirete, l'onila della follia si vede chiaramente arrivare dalle lontananze dell'anima, formarsi, ingrossare,, intorbidire lo sguardo e gonfiare i lineamenti, e prima assorbe pupille e volto i" attonito stupore, quando sale il maligno potere dell'idea fissa ; poi via via stravolge le fattezze e le squassa nella sua furia. Ma Sancio? Egli, non pazzo, anzi calmo e prudente, pieno di arguto buon senso popolare e contadinesco, aperto anche a tutte le voci, i richiami e le beffe del senso comune, pur si mette allo sbaraglio delle stesse avventure che il pazzo affronta; lascia la moglie, i figli, la sua casa, quel poco di comoda vita che egli tanto apprezza, pur vedendo e sapendo benissimo che il suo padrone e pazzo. Lo biasima di continuo, e lo segue; lo sgrida, e lo segue; ride di lui, e lo segue. Perchè, ma perchè? Il Cervantes qui adombra con simbolo involontario, la sorte di tut¬ rnGubg e le truppe, di fronte al generale; di tutti i gregarii, di fronte al capo; di tutte le masse, di fronte alle aristocrazie; di tutte le maggioranze, di fronte alle minoranze guida. I veterani di Napoleone più valorosi e fidi si chiamavano, per antonomasia, _i (jrofjnards; i marinai di Genova, i più arditi, i più avventurosi, rinunciavano, per contratto, a un soprassoldo di paga pur di avere riconosciuto il diritto al mogugno;nostri migliori, sublimi fanti di guerra erano quelli che più brontoavano; l'uomo si ribella appunto e proprio al prestigio cui egli cede; rivolta al fascino che più sente. Sancio è il contadino, pieno di buon senso, e anche di senso di umore; divina facoltà di equilibrio, negata al pazzo, il quale 0 ride o piange ; non sa salvarsi senza naufragio, dal pelago del riso o del pianto, sull'agile e insommergibile schermo dell'ironia, dell'umore e del sorriso. Perciò, da un lato anche Io diverte di vedere come quel gran dotto del suo padrone incappi in tanti guai; malignamente gode a pensare che a lui, no, queste cose non capitano, perchè lui, rozzo, sa guardarsene. E' la cattiveria brutale e primitiva che spinge ogni uomo della folla, istintivamente, a ridere se il vicino inciampa e cade, per l'implicito senso di superiorità : « Non è a me che capiterebbe una cosa simile! Io so-no accorto: 10 so star attento, iodunque io sono più bravo» Ma oltre questo senso crudele, viè in lui la passione del drammaticoegli, crede, in fondo, all'avventuraVi è un bimbo, l'eterno bimbo dentro ciascuno di noi, che crede alle fiabe; ed è felice di credervi, perchè « ha bisogno » di meravigliosonella vita; perchè vi è una veritàche noi sentiamo più vera del realesebbene non concretamente tangibile, ed è la verità del mito. Che cosa sarebbe la nostra vitainafferrabile attimo tra l'inafferrabile voragine del passato e le inesistenti tenebre del futuro, se la imaginazione creatrice non proiettassedal passato al futuro, suoi pontaerei di figure ed eventi drammatici? Sancio adora Don Chisciotte innanzi tutto perchè gli drammatizza — cioè gli arricchisce di palpiti, di visioni e di speranze — la^sua povera scialba esistenza, confinata in un angolo di villaggio. Ma in questo commovente amore di Sanciol'uomo dell'umile buon senso, verso il folle Don Chisciotte, vi è anche qualcosa di infinitamente più alto e pateticamente profondo: vi srivela l'innato bisogno dell'uomo davere un capo: il suo bisogno istin- tivo di giustizia e la sua insazi abilesete di ammirazione e eli eroismo. Don Chisciotte è pazzo; e, quel che è triste, è pazzo per il fatto stes so che crede alla giustizia; e tuttavia questa fede gli dà prestigio, e quando, alto sul suo cavallo, egli si affaccia nella notte a destare Sancio che russa, e gli dice « l'ingiustizia non dorme mai », sentiamo passare in quelle parole il brivido fondo dell'appello all'eroico. Ancne Garibaldi offriva ai suoi volontari fatica, durezze, pericoli e forse morte, per la sublime amante, 'Italia, e anche per quell'altra iddia, a gloria, che accende il sangue gagliardo dei giovani. E gli uomini accorrevano a lui, come correvano a Napoleone, come, accorrevano a San Francesco, a Giulio Cesare e al Buddo. * * * Gli stessi uomini? La milizia dei guerrieri e degli asceti in fondo si recluta fra le stesse aristocrazie. Fondamentalmente, è Io stesso appello all'eroico che muove e sommuove gli uni e gli altri. E non tutti coloro che vi rispondono sono eroi. In questo sta la grandezza del capo, che risveglia questo bisogno e questa sete nell'animo stesso dei Sancio, là dove essa pareva morta, e non era se non sopita. MARGHERITA G. SARFATTI

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