L'equivoco tra Barnave e Maria Antonietta

L'equivoco tra Barnave e Maria Antonietta Un ti»ano alla deriva. A L'equivoco tra Barnave e Maria Antonietta e a a e a e a a a i u i e o o o e e l o e a a a a L'atteggiamento « spartano » di Pétion, il quale, a quanto narra la signora Campan che certo raccolse questi particolari dalla viva voce di Maria Antonietta, « mangiò e bevve indecentemente nella berlina, gettando le ossa di pollo fuor del finestrino, col rischio di buttarle in faccia al re, e alzando il bicchiere senza dire una parola per indicare, quando madama Elisabetta gli versava il vino, che ne aveva abbastanza », questa « rudesse républicaine », per dirla con un contemporaneo, pareva fatta apposta per dar risalto alla delicatezza e alla riservatezza di Barnave. «Barnave fori bien, Pétion indécent » scrisse più tardi il conte Axel de Persen alludendo al contegno dei due uomini; e in questa breve frase bisogna vedere un riflesso delle impressioni della regina che certo si era confidata col fedele amico lontano. «Lo pardon de Barnave eft d'avance écrit dans nos cocurs... ». Un cattivo inizio E tuttavia Barnave, come osserva il Lenotre, cominciò male. A Parigi si sapeva che il conte de Fersen, considerato da tutti come l'amante della regina, aveva preso parte alla fuga. Barnave, con uno sguardo sardonico e un sorriso maligno, ebbe l'aria di cercare il gentiluomo svedese a cassetta, dove sedevano le guardie del corpo. La regina capì, e fu questa quasi certamente la ragione per cui da principio si tirò il velo sul volto e si astenne dal prendere parte alla conversazione. Questo episodio potrebbe dimostrare che, al momento di avvicinarsi per la prima volta a Maria Antonietta, Barnave non era più sgombro di pregiudizi nei suol riguardi di quanto lo fosse Pétion. Per lui, come per tutti, essa era la perfida e dissoluta Austriaca degli scrittori di pamphlets. Dal canto suo, che altro poteva vedere Maria Antonietta in Barnave se non un nemico? Essa non conosceva di lui che il nome, noto alle Tuileries come quello d'uno dei « meneurs » della Rivoluzione. Certo le era giunta all'orecchio anche la frase che aveva valso a Barnave il soprannome di « giovane tigre ». E' ben vero che, a suo tempo, Mirabeau aveva parlato a corte del deputato di Grenoble come d'una forza che sarebbe stato possibile se non agevole guadagnare alla causa della Monarchia: ma la raccomandazione non poteva essere di grande vantaggio per Barnave, perchè la regina non si era mai fidata troppo di Mirabeau. Nondimeno, mentre la berlina corre col suo strano carico per le strade di Francia urtata a ogni tratto dalle ondate limacciose della folla ostile, una corrente di simpatia si stabilisce tra la regina e il giovane tribuno. Maria Antonietta, con l'infallibile istinto della donna, reso più acuto dall'urgenza del pericolo che vuole stornare dal capo dei suoi cari, intuisce che un sentimento di rispettosa pietà è nato nell'animo del suo vicino. Per questo sentimento, per la devozione che esso implica alla regina e alla donna, Maria Antonietta scrive in anticipo nel proprio cuore — e lo du-à alla signora Campan — il perdono di Barnave. Malintesi ed inganni Di qui comincia l'equivoco che vizierà tutti i rapporti tra la regina e Barnave e renderà sterili gli sforzi di questo e dei suoi compagni. Barnave è convinto che, col concorso di Maria Antonietta, ritenuta la testa forte della corte, glt sarà possibile realizzare quell'equilibrio e quella collaborazione tra il potere legislativo e il potere esecutivo che, rendendo la pace alla Francia, frustrerà i tentativi democratici di prolungare indefinitamente la Rivoluzione. Ma la mentalità di Barnave si rifiuterebbe in ogni caso di ammettere che la Francia possa rinunciare alle libertà ormai acquisite. Nessun sentimento di pietà, nessun sentimento più grande della pietà, potrebbe indurlo a tradire i propri principii e i propri amici. Perciò 'aiuto che egli offre alla regina a nome del « triumvirato », sebbene inteso ad assicurare per mezzo d'un'oculata revisione della Costituzione il massimo possibile prestigio al monarca in confronto dell'assemblea, limane strettamente limitato al campo costituzionale. Ma la regina non l'intende cosi; a regina aspira a ridare al trono di Luigi XIV l'originarlo splendore: nelle offerte di Barnave essa non vede che la possibilità di guadagnar tempo per preparare quella controrivoluzione nella quae, malgrado tutto, essa ai ostina a riporre ogni speranza. Sola concessione, fra tante e così gravi restrizioni mentali, quel perdono anticipatamente concesso a Barnave, il quale, forse, col suo improvviso fervore, ha toccato quelo che v'è in lei di più profondamente femminile. Barnave era certamente più sincero di Maria Antonietta. Durante il colloquio che riuscì ad avere con la regina prima di giungere a Parigi — forse mentre passeggiava con lei in vista della Marna, sulla terrazza della casa del sindaco de la Ferté-sous-Jouarre (Pétion che li sorvegliava giudicò che parlassero « d'une manière assez indifferente », ma non c'è da aver troppa fiducia della sua penetrazione) —, egli le confessò che più volte, per il passato, vedendo gli interessi della corte cosi mal difesi dai deputati realisti, era stato tentato d'offrire alla Monarchia l'appoggio d'un atleta coraggioso che conoacesse sprtqMptlc«znsmzdprebnescdecbbqsetvbcncdvcncLp lo spirito del secolo e della nazione ». Un'offerta chiara e lealecome si vede, tale da non prestarsi a nessun equivoco, speciper quell'abile accenno allo « spirito del secolo e della nazione ». E tuttavia essa nascondeva, pequanto involontario, un inganno. I triumviri e il popolo Che cosa offrivano infatti a Maria Antonietta i « triumviri » per bocca di Barnave? Di mettere al servizio della Monarchia la propria popolarità. Ma che cosa significava questa parola« popolarità », nell'inferno rivoluzionario di Parigi e soprattutto nella bolgia più turbinosa di questo: l'assemblea? Significava una momentanea e malsicura situazione di privilegio che bisognava difendere giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, che richiedeva una perpetua vigilanza e imponeva spesso compiacenzebassezze, transazioni d'ogni genere. La popolarità dei « triumviri » era stata grande e reale; ai era sviluppata naturalmente a misura che essi si erano affermati qualdifensori della libertà. Barnave era stato uno degli idoli della folla che stipava abitualmente le tribune del Maneggio, tanto checome vedemmo, lo stesso Mirabeau si era sentito offuscato da quella giovane gloria. Ma nell'estate del 1791 questa popolarità era profondamente intaccata. Da tempo l'atteggiamento dei «triumviri » era giudicato sospetto dabuoni patrioti. La loro lenta ma continua evoluzione verso destra non era forse la prova d'un'intesa con le Tuileries? Marat, che sin dall'autunno dell'anno prima, aveva dichiarato di fidarsi poco decivismo di Barnave e dei Lamethnon ristava dall'attaccarli con la consueta violenza sulle colonne de L'ami du Peuple. Correvano già per Parigi alcune caricature molto significative sui «triumviri». Bar p pmira: un disegno popolare gli attribuiva due facce, come all'antico iddio : « l'homme du peuple - 1789» spiegava una scritta a sinistra, e un'altra a destra: « l'homme de la Cour - 1791»; sotto si leggevano questi versi: «Tantot Froid, tantot Chaud. Tantot Jllanc, tantot >Toir, A Iìroit maintenant, maiH nutrefoip a Gaucho, Je vouh dipoi* bon jonr, et je vons dis bon poir». Nella mischia Ciò non toglie che il « triumvirato » — ed è forse ciò che crea tante illusioni nei suoi componenti — domini ancora e largamente l'assemblea. Ma a che prezzo? Ce lo dice uno dei Lameth nelle sue memorie, dove scrive: Essi (i «triumviri ») erano i capi, ma a condizione che la giovinezza e la forza rendessero loro possi bile di non mancare neppure a una delle due sedute che avevano luogo ogni giorno, di far parte di varie commissioni contemporaneamente, d'impiegare il poco tempo libero in discussioni utili, di pas sare una parte della notte, e spesso per parecchie notti di seguito, a preparare o a terminare lavori seri o rapporti urgenti ». Come si vede, una vera, stremante milizia. Ora, questa milizia i « triumviri » sono disposti a renderla più faticosa e più insonne pur di salvare il trono ch'è, secondo Duport, il limite più immutabile che si possa opporre a tutte le fazioni, la garanzia della sicurezza e dell'uguaglianza. Infatti, subito dopo il ritorno da Varennes, mentre Luigi XVI e la sua famiglia 3ono guardati a vista nelle Tuileries mutate in prigione, forti degli accordi intervenuti tra la regina e Barnave, i « triumviri » si cingono i fianchi e si buttano nella mischia. E' una bella zuffa in più riprese, nella quale le più grosse artiglierie oratorie dell'assemblea fanno sentire la voce possente! Tra le pareti disadorne del Maneggio si respira già l'atmosfera eroica e bruciante che sarà più tardi quella della Convenzione. I « triumviri » si battono contro i rivoluzionari di tutte le tendenze: contro i Giacobini più arrabbiati i quali, con Robespierre alla teata, chiedono che il re sia deposto; contro i Cordeliers che invocano la Repubblica; contro Marat che reclama un tribuno militare; contro la fazione d'Orléans, capitanata da Brissot, che propone timidamente un cambiamento di dinastia. Lottano e vincono: piegano l'assemblea alla loro volontà, scagionano il re da ogni accusa, riaffermano e impongono la teoria del rapimento, danno nuovo vigore a! principio dell'inviolabilità regale e rialzano il trono di Francia che i più rite nevano caduto per sempre. E' vero ene a qualcuno sembra che quel trono così rialzato non abbia più stabilità d'una piramide capovolta, in equilibrio sul proprio vertice, ma questo non toglie nulla alla bellezza della battaglia combattuta e della vittoria riportata. Sangue al Campo di Marte D'altronde, i « triumviri » si sentono abbastanza forti per sostenere la piramide anche così bilicata. Sono nella legalità e hanno dalla loro Lafayette e la guardia nazionale. Porse non attendono che l'occasione di sferrare un colpo decisivo che intimidisca una volta per tutte gli avversari facendo capir loro che l'epoca dell'arbitrio è finita. E l'occasione si presenta il 17 luglio, quando il popolo parigino, rispondendo a un invito dei Cordeliers, si raduna al*Campo di Marte per firmare sull'Altare della Patria una petizione intesa a ottenere la deposizione di Lui gi XVI. Quel giorno, tra le sette e mezzo e le otto di sera, il sindaco di Parigi Bailly e il generale Lafayette, obbedendo all'ordine ricevuto dall'assemblea di mantenere l'ordine a ogni costo, entrano nel Campo di Marte alla testa della guardia nazionale. Bailly spiega al vento del crepuscolo la bandiera rossa della legge marziale. Lafayette vorrebbe fare le tre intimazioni regolamentari, ma è prevenuto da un colpo di pistola partito di su gli spalti che circondano la piazza, al quale risponde immediato il fuoco di fila della guardia nazionale fulminando la folla stipata intorno all'Altare della Patria. Due giorni or sono, alla tribuna dell'assemblea, Barnave, concludendo il più bel discorso della sua carriera politica, ha esclamato: « E' tempo di terminare la Rivoluzione... ». La strage del Campo di Marte è dunque un punto fermo, dopo il quale si va a capo e si ricomincia ? I « triumviri » sembrano crederlo. Cesare Giardini almclsc•mpidtlnneblsssi |s! , j ! | i ; j i I I capitoli precedenti sono apparsi su «La Stampa-» dei giorni 4, a, 11 • lo assitou Caricatura popolare contro Barnave: «L'uomo dai due volti». La strage del Campo di Marte (17 luglio 1791) disegno Lafitte (Museo Carnavalet). originale attribuito a

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