Destino di una casa di Enrico Emanuelli

Destino di una casa Destino di una casa Era sorta senza tante pretese, sotto gli auspici di una architettura modesta ed elementare, per merito di un capomastro dall'aria campagnola e bonaria. Era nata casa popolare ed aveva, ancor nuova e dipinta di fresco, una sua spavalderia garibaldina. Gli inquilini erano accorsi stanando da misteriosi buchi, provenendo da luoghi ignoti. Pareva che emigrassero da terre lontane, per venire sin qui coi loro magri bagagli, coi loro mobili spaiati, coi tavoli che traballavano, con le sedie use a sopportare corpi che la stanchezza rendeva doppiamente pesanti. L'assalto era stato allegro e da allora vi rimase una eco strana che trasformò quel luogo, perennemente, in un caseggiato rumoroso. Pure di notte, in quella pace diffidente e sorniona in cui ca-' dono le cose inanimate dopo il crepuscolo, s'alzava magari un rapido e rauco grido che si allargava poi in una chiassata nervosa, ricca di mille sfumature. E dopo un po' il silenzio tornava a regnare. Ma era un silenzio relativo, rotto dal miagolare dei gatti che correvano sui tetti in cerca di luoghi deserti ed oscuri ; dai cani che si affannavano testardi ad aprir porte raspando con le zampe; dalle voci acute di sparuti uccelli, spersi nelle loro gabbie, incapaci a rassegnarsi per la perduta pace del bosco ; dal russare cavernoso degli uomini immersi in un sonno pesante, senza sogni; dal gridar di bimbi scontenti in quel buio che toglieva loro il piacere delle corse e dei giochi. L'alba giungeva in ritardo, quando gli occhi di tutti erano sempre già aperti e rimaneva sorpresa da quel muovere rapido e sereno delle donneale quali battevano un nuovo ritmo di suoni e di cantilene. Di giorno poi, assurdi rumori si rincorrevano nei lunghi corridoi, nelle trombe delle scale, senza mai un attimo di sosta. Non vi era stagione abbastanza torrida o tanto cruda che servisse a mitigare quella vita, ora sotterranea ora aperta, di suoni e di voci ; nemmeno il variare delle ore influiva; e la pace notturna, come si è visto, era sempre una imboscata. Nessuno però se ne lamentava. Tutti portavano, ben radicate, loro vecchie usanze: chi campagnole, chi cittadine; e si accordavano a meraviglia. Erano tutte famiglie numerose, con figliolanza giovane; e quei mocciosi parevano esser venuti ai mondo, uno alla volta, ma uno ogni anno, per santificare qualche grande festa. Crescevano tutti assieme, ritrovandosi nel vasto cortile, svelti di parola, abili nelle braccia e nelle gambe. Portavano graffi e sbucciature come decorazioni, vestiti che rivelavano vecchi e precedenti usi. Quei ragazzi avevano per padre carrettieri dalle gambe muscolose; guidatori di autocarri dal collo di lottatore; manovali, sterratori, tutti uomini di fatica i quali vivevano assai bene senza un pensiero in capo, anche perchè erano abituati' a confessarli ora agli amici, ora alla moglie. S'apriva, quel caseggiato fantastico, in una zona della città che dieci anni prima era periferia. Le vie perdevano i nomi illustri e diventavano, da quelle parti, o viuzze sperse nei primi campi, o polverose strade di comunicazione con altre città. Scarsa l'illuminazione e così coppie in amore, che non avevano il bene di un tetto sicuro, vi si rifugiavano timide e discrete. Sotto il disattento sguardo di questi innamorati la casa popolare velocemente deperì. Di più: le rotaie del tranvai assalivano il terreno, lo conquistavano i lampioni elettrici, alcune ville stringevano ai fianchi, minacciose ed ostili. L'asfalto cominciò a nereggiare di qua e di là, e quel che si intende_ per periferia a poco a poco s'allontanò, invadendo nuovi campi ; ed un giorno il caseggiato rumoroso si trovò al centro di una fresca zona della città. Fu un esodo tumultuoso e battagliero. Le donne e gli uomi: ni s'eran fatti vecchi, i ragazzi erano cresciuti e tornavano la notte, nelle ore libere, a vedere la loro casa antica rasa al suolo con tanta furia come se la maledizione divina fosse piombata su quel tetto. Giovani ed impomatati architetti elevarono un palazzo lussuoso e freddo, dall aria burbera e servile nello stesso temposotto la sorveglianza di un astuto proprietario che sapeva la de lizia e la tirannia delle moderne comodità. Crebbero velocemente quei muri, come funghi imman dopo la pioggia, e si adornarono di marmi, di scale, di tappezzerie costose, di legni rari, di mobili falsamente antichi o bastardamente moderni, di telefoni e di ascensori. Le camere si popolarono pigramente, sempre dopo lunghe contrattazioni, di donne profumate, di uomini elegantidi cagnolini educati e silenziosi1 ga. ì se " parvero e così gìucccell. ' «unsero soltanto pochpesci sssi e malinconici, in s.rette vasche dall'acqua opacaDa allora la notte cominciò a calare soffocante, piena di stanchezza, ed in tanto sepolcrale silenzio, rotto appena dal trillo di remoti campanelli e dall'accorrere di cameriere spettinate, i nuovi inquilini non sapevano trovare il sonno. Blande luci, azzurre o rosse, vegliavano tutta notte c si spegnevano all'alba sopraffatte dal sole. Panciuti affaristi si alzavano tardi, disperati per il riposo mancato, scendevano frettolosi e taciturni nella strada, fuggivano su lucide auto che già da un pezzo erano in attesa ; le donne languivano ancora nei letti sino al mezzogiorno, mentre le cameriere battevano larghi tappeti dai colori sgargianti come se tentassero una nuova ginnastica domestica. I pochi ragazzi che vi abitavano giacevano chiusi, segregati e ben difesi nelle loro camere, spiavano ii cortile come un'oasi di delizie, non potevano alzare la voce, non correre, non saltare, non giocare alla guerra, legati da strani ordini e da assurde regole. Erano anemici e fragili come gli stucchi che adornavano i soffitti. Tra di loro gli inquilini altezzosamente si ignoravano, come se vivessero in pianeti diversi, e soltanto l'angoscioso pulsare dell'ascensore rivelava misteriosi arrivi ed improvvise partenze. Tutti temevano il più sottile rumore, ognuno desiava una pace irreale, da cimitero. Ricorsero ad ogni sorta di accorgimento tecnico ed inumano pur d'avere silenzio e con il silenzio un po' di pace. Ma oramai tra quelle mura erano donne dall'emicrania facile e signori dal tempo misurato, dai pensieri segreti. Per ridere o per piangere si rifugiavano in camere isolate, e le porte, le finestre si aprivano con cautela. Per la prima volta in quella zona nuove persone vennero : dottori famosi a curare malati immaginari, garzoni dei fornitori a portare sopraffini alimenti, giovani ciclisti con telegrammi urgenti. Il portiere smistava quella gente con l'aria grave del prete che benedice, e conosceva soltanto il sorriso venale. Tutti entravano ed uscivano in silenzio, quasi sulla punta dei piedi, tiranneggiati dai cartelli che ordinavano silenzio, silenzio, silenzio. Ma con tutto ciò pareva che un triste destino guidasse oramai la vita del nuovo palazzo : e nessuno là dentro riusciva a godere un'ora di sonno. Qualcosa di maligno gravava su quelle mura, uno spietato castigo, uno spirito insoddisfatto, qualcosa di segreto che gli specialisti, gli architetti, i dottori non riuscivano a scongiurare.Poi, una notte d'estate, davanti al portone ben chiuso ed inchiavardato, un gruppo di giovani sostò canticchiando. Cantavano, in una loro canzone dalla rima bislacca, la morte gloriosa della vecchia casa che li aveva visti bambini e buffonescamente le (lavano, per sempre, sepoltura. Dapprima le donne profumate, gli uomini gravi, i bimbi pallidi si rivoltarono nei loro letti borbottando; ma alfine, cullati da quelle voci ardenti e libere, per la prima voltatutti riuscirono ad addormentarsi. Enrico Emanuelli