Pionieri italiani in Abissinia di Renzo Martinelli

Pionieri italiani in Abissinia Pionieri italiani in Abissinia Il racconta di un uomo che fu amico di Menelik, che vide e amò i nostri esploratori, che conobbe l'emiro che tradì e fece assassinare il conte Gian Pietro Porro II mio amore per l'Africa io lo servo e lo nutro con la stessa semplicità con cui i veri credenti servono e nutrono la propria fede. Un vecchio libro di preghiere, sempre il solito, per anni ed anni, per tutta una vita; e non sentono d'aver bisogno d'altro. Ogni volta che lo riaprono e lo rileggono par loro di ritrovarvi qualcosa di nuovo, di più vivente e di più persuasivo. Così, o press'a poco, accade a me per quest'altra fede. Io posseggo un libro dove c'è Xa storia nuda nuda del nostro pionierismo africano — tanto schematica che si direbbe scritta per far da secondo passo all'abbecedario — e tutte le volte che m'accade di ripartire verso il sud la mia ansia più grande fu rivolta a badar bene che il servidorame non si fosse dimenticato di mettermelo nella più accostante valigia. Mai feci tanto premuroso onore neanche al passaporto. Duecento pagine, quattordici vite. Da Guglielmo Massaia a Ugo Ferrandi. Tutta la fede, tutta la poesia, tutto l'eroismo, tutto il martirio, delle avanguardie che l'Italia (l'Italiarazza, non l'Italia-governo) mandò negli ultimi cent'anni per le contrade abissine a ricercarvi una strada che resta ancora pressoché interamente da battere, hanno in queste pagine una documetitazione che vorrei chiamare francescana. Nomi, date, qualche brano di lettera o di diario, e il ritratto dei protagonisti. Nient'altro. Un incontro Una sera, a Gibuti, nella Somalia francese, la mia fedeltà al vecchio breviario del martirologio italiano in Abissinia ricevette inaspettatamente un premio nel quale, davvero, non mi sarei mai sognato di potere sperare. Nessim miglior viatico avrebbe potuto toccarmi per il cammino che m'aspettava. La bella avventura andò così. Sotto l'arcata esterna del Grand Hotel Continental, in piazza Menelik, stavo godendomi la prima clemenza del sole 'vespertino, quando mi si venne a sedere accanto un vecchio signore, grasso grasso e bianco bianco, dalla mascella potente, i baffi squadrati a un ben riconoscibile modo tedesco, qualcosa, infine, come un Hindenburg senza eccessive pretese, il quale mi disse molto amichevolmente « addio! » e ai mise a dormire. Era la prima volta che lo vedevo, o cho, almeno, lo notavo. Ma un « addio! » detto con tanta spontanea amicizia, sia pure da uno sconosciuto, è cosa che fa sempre piacere. — Buonasera! E poiché egli aveva chiuso gli occhi proprio in modo da non potermi osservare neanche da uno spiraglio di pàlpebra, mi misi a studiarlo con qualche attenzione. Indubbiamente si doveva trattare di persona in antichissima amistà col sole africano. Soltanto in capo a tante e tante cotture, la pelle umana riesce a prendere, sotto il sole dei tropici, quel color bianco avorio che col pallore dell'anemia non ha proprio nulla a che fare.' Dopo il volto, gli guardo le mani. Piccole, tozze, dure, con certe vene che paiono spaghi annodati sotto la pelle per tener ferme le ossa. In Italia avrei detto: mani da usuraio di gran classe. Ma siamo in Africa, e non vorrei cadere in troppo deplorevoli errori. Certo, mani che debbono aver menato forte, ai loro bei tempi, in qualche modo. Ho davanti il mio solito libro. Lo apro e mi metto a leggere in una pagina qualunque. Conte Gian Pietro Porro, 18S6. « La regione d'Harrar era in quel tomo di'tempo in preda al fanatismo più perfido, e l'Emiro Abdallah ben Mohamed sottoponeva'tutti i f rengi (i bianchi) che capitavano nel suo territorio alle più crudeli vessazioni. Il conte Porro... ». La pagina che ora percorro reca nel mezzo un grande medaglione del martire di Artù: una bella faccia dolente e sorridente, da uomo nato apposta per regalare tutta una vita a un sogno. L'uomo che vide sorgere Gibuti Lo sto fissando, studiando, nelle leggere rughe degli occhi, nel sorriso intelligente e buono che affiora senza fatica dai grossi baffi d'ordinanza, inutilmente severi, che ci ricordano l'ufficiale di Cavalleria di mezzo secolo fa, allorchè una voce subitanea, prepotente, ini fa sussultare. — Cos'è questo... ? — e una delle pesanti mani di pelle e di pietra sulle quali poco prima ho fatto le riflessioni che sapete viene a posarsi, intera, come se volesse prenderne possesso, sulla immagine dell'esploratore. — Cos'è questo? — E' un italiano. E' Gian Pietro Porro. Perchè ? — Mio amico! Mio amico! Io visto.,, io detto: « non andare... ». Lui andato. Morto! E, in così dire, il vecchio che non conosco scuopre pian piano la immagine del caduto, e vi accosta due grandi occhi lagninosi. — Ma voi, scusate... Non risponde nulla. Si porta il libro alla bocca, lo bacia. Per qualche minuto, il suo volto mi rimane completamente invisibile. — Posso domandarvi come vi chiamate f — Rhìgas Attanasio Bhigas Vedi? E mi fa notare una etichetta d'albergo appiccicata proprio sopra le nostre teste. « Grand Hotel Continental (Rhìgas) ». — Ah, voi siete dunque il mio padrone di casa? — Padrone. Servo. — Francese? — Greco. Ma francese e italiano con tutto cuore. Tutti europei venuti trenta, quaranta anni, passati per andare Abissinia, miei amici. — Allora avete veduto nascere Gibuti ? — Gibuti nato mie mani. Qui non stava nulla. Deserto e dàncali selvaggi. Io mozzato gazzella lì, là, costì... Anche nel punto dove son seduto io. Bhigas ha il mio libro sotto il braccio, e tutte le.volte che fo istintivamente il gesto di prenderglielo mi guarda male e s'impettìsce tutto per aumentare la distanza fra lui e me. — Ma il conte Porro dove lo avete conosciuto ? — Conte Porro conosciuto Zella... Zella vuol dire Zèila. Spero non vi dispiaccia se vi servo, insieme alla sostanza del racconto che Bhigas mi fa, anche qualche saporito chicco della sua linguistica personale. — Zella conosciuto. Venuto e detto: « Come stai? ». « Bene, e te? ». Poi domandato dove diretto. Lui risposto diretto Abissinia per Erer (per Harrar). « Non andare » io detto « Emiro stare cattivo uomo, tu non fidare... ». Conte Porro detto: « Io italiano, io non cattive intenzioni...». Allora io detto: «.Chiedi permesso ». Lui chiesto, Abdallah dato, conte partito, conte morto, e morti tutti bianchi e tutti neri suoi uomini! ». Gli tremano le labbra, e cerca di tenersele ferme coi denti. — Conte Porro... Conte Porro... — dice, pianissimo, sillabando, con gli occhi fissi sulla incisione. — O voi — gli chiedo — che ci facevate a Zèila? Bièccoci al difficile. Ci pensa. — Commerciante? Marinaio? No. Semplicemente: giovane di buo na volontà « tuttofare ». A Tagiura aveva conosciuto Mohamed Abu-Baker, figlio del Governatore egiziano di Zèila, e tra loro era nata subito una grande amicizia. Abu-Baker Io aveva invitato ad andare con lui nell'interno somalo e harrarino, e Attanasio c'era andato. Questo è tutto. Che male c'è? Quel che sarebbe interessante di conoscere a questo punto è il genere di lavoro a cui l'intraprendente figlio del Governatore egizio specialmente si dedicava. Ma Bhigas non si ricorda. Son passati tant'anni, e nella sua memoria vagano molti veli di nebbia. Uno dei quali, neanche a farlo apposta, nasconde proprio il punto che più c'interessa. Non può darsi che il bravo Abu-Baker si occupasse anche un tantino dell'allora prosperosissimo commercio dei «montoni a due gambe?»; ovverosia degli schiavi? E' un'ipotesi come un'altra. Mezzo secolo fa, Zèila spediva in Arabia, più o meno clandestinamente, qualcosa come tre o quattromila schiavi all'anno; tutta « merce » proveniente dai mercati d'Etiopia. Bhigas, però, non può dire nulla. Quel che, invece, sa bene è che, una volta, viaggiando appunto col bravo giovane, si buscò un colpo di lancia nel costato, e dovette ringraziare l'alzatura della sella se la lama- non lo passò da parte a parte. La vecchia sella di Porro. S'alza, si scuopre il dorso, mi fa vedere la cicatrice. — Avete detto la sella di Porro? — Sì. La sella di conte Porro venuta mie mani in Errer. Pagata sette talleri. Io non sapere che quella stata sella conte Porro, ma uno mio schiavo un giorno venuto dire che sotto sella era una scrittura. Bovesciata, visto, letto nome conte Porro. Non so come venuta Errer. Credo portata, non so, soldati Menelik che venuto Errer dare punizione assassini. Abdallah Mohamed prigione Ancòber. Io salvato da morte!— Male, amico mio. — No male. Bene! Il capitano Ferrandi E mi racconta che, trovandosi in Ancòber, alla Beggia di Menelik, sentì, un giorno, nel mentre passava vicino alla finestra d'un tucul custodito da molti soldati, una voce che implorava « Abiet! Abiet! ». Pietà, pietà. Entrò (era diventato il beniamino del Be e poteva entrare dappertutto quando voleva) e vide per terra, legato a catenacon certi grossi e stretti anelli che gltenevano unite le caviglie in modo da non permettergli nemmeno di fare un passo, un povero scheletro nero su cusciamavano miliardi di mosche. « Chsei?» gli domandò. «.Abdallah ben Mohamed... Abiet! Abiet! » « Ah, figlio d'un cane! TI Be non ti ha ancora fatto impiccare?». «No. Domani. AbietAbiet! ». ittanasio die, dopotutto, doveva essere davvero un gran buon figliolo, si chetò .e incominciò a intenerirsi. « Sei Un porco» gli disse ancora «perchè tu dato permesso conte Porro venire tuo paese, eppoi ammazzato. Ma noi bianchi abbiamo cuore bianco, e voi neri di fuori e di dentro. Parlerò Menelik... ». Va, parla, insiste, subisce la collera del Be, la smonta pian piano, e finisce per vincere. Menelik è parso toccato, soprattutto, da questo argomento: che un Be forte non deve aver paura di nessuno; e, perciò, non deve ammazzare nessuno. Solo deve far sapere che sulla stia generosità si può fare assegnamento una volta sola. L'ex Emiro di Harrar, riceve la grazia, e vien rispedito al suo paese con in dote un campo, trenta schiavi, e sei metri dì corda. Al primo rumore, al primo atto meno che lodevole, non ci sarà nemmeno bisogno di domandare istruzioni ad Ancòber. — E la sella di Porro l'avete ancora con voi? — No. Io data a capitan Ferrandi... Dunque, anche Ferrandi ha conosciuto: il più recente dei pionieri e degli eroi dell'Africa nostra, lo strenuo difensore di Lugli, morto a Novara,.sua città natale, il 26 ottobre 1928. In una delle sue soste a Zèila, Ugo Ferrandi fu ospite della casa di Bhigas, e veduta appesa al muro la sella gloriosa, proprio quella stessa su cui il corpo dell'esploratore si era rovesciato esanìme, non osò apertamente chiederla in vendita o in dono; ma la guardò con tali occhi che valevano più di qualunque preghiera. Bhigas capì, e disse; « Tu italiano come conte Porro. Giusto che sella sia tua ». E glie la regalò. Il vecchio Attanasio è diventato pallido pallido. Forse, ora, si sente un po' pentito di quella generosità. Nel suo spirito ribolle, visibilmente, tutto intero, il rimpianto dei lontani vent'anni. Con un baffo in bocca, a testa bassa, sfoglia il mio libro e non fa che scuoter la testa. — Altre conoscenze, sigtior Bhigas ? — e gli sfoglio il libro sotto gli occhi, soffermandomi ad ogni figura. Mi dice di sì, di sì, di si, desolatamente. Ecco Antinori, ecco Buspoli, ecco Antonélli, e, infine, la gagliarda faccia ridente di Ugo Ferrandi, con l'ampia fronte ombrata da un bel ciuffo spavaldo. E quanti ne mancano! Salimbeni, Ragazzi, Nerazzini, Cappucci, Traversi... Un invito di Menelik — Perchè non dare a me questo libro?... — dice, a un tratto, senz'avere il coraggio dì guardarmi. — E' vostro. M'afferra una mano e me la tiene stretta per qualche minuto. — Non avete nessun cimelio da mostrarmi?... — gli domando, con qualche speranza speculativa. Si dà un colpo in fronte. Possedeva, sì, molte lettere di tutti gli itaZiani, esploratori e diplomatici, coi quali eb be la fortuna di venire a contatto ad Ancòber, a Entotto, a Let Marefià, e in cento altri luoghi. Ma dove sono andate a finire? Ne ha percorsi di miglia e di paesi! Tutto perduto. S'alza, va alla cassaforte che è die tro il banco, mi porta un foglio ingiallito sul quale vedo la firma del dottor Traversi: l'ultimo ospite e lo storiografo pi?*t completo della stazione italiana di Let Marefià. Poche righe amichevoli, con la raccomandazione di voler sorvegliare l'arrivo di non so che roba diretta al « piccolo posto » italia no in terra etiopica. — Nient'altro? Allarga le braccia. No. Nulla. Solo, in più, l'invito che Menelik gli fece pervenire per la cerimonia della sua incoronazione. — Volete vederlo? — Sì. Va e torna. Mi svolge sotto gli oc chi una grande pagina di pelle di ca pretto tutta piena di ricami amarici, e me ne fa rapidamente la traduzione «Il Leone Vincitore della Tribù di Giuda ha vinto ancora una volta. Menelik eletto Signore- e Be dei Be d'Etiopia. Che la presente pervenga al signor Atanasis Bhigas, « barambaras » d'onore. Che la pace sia con te. Ascoltami bene. Per la volontà e la forza del mio Creatore e per l'amore del mio Popolo, io sarò consacrato Be dei Be d'Etiopia il 25 tekenit 1882 (k novem bre 1890) alle ore 7 del mattino, nella Chiesa di Santa Maria. Al ritorno dalla Chiesa avrà luogo un gueber (festino) e sarò contento se tu pure sarai presente al mio tavolo. Scritto in Entotto il 22 tekenit 1882, anno di grazia ». — Sono persuaso — gli dico sorridendo — che non vi passa nemmeno a un miglio dalla testa l'idea di rega Ianni questo documento... Bhigas mi guarda fisso per un mo mento, e mi lascia cadere una mano sopra una spalla; come può fare un babbo verso un figliolo che abbia dato una rara prova d'intelligenza. Renzo Martinelli. LA TORRE che segna il confine fra la Costa Francese dei Somali e il Somaliland britannico, a circa cento chilometri da Gibuti ATTANASIO RHÌGAS racconta un pionieri italiani che po' della sua storia e di quella dei conobbe mezzo secolo fa