L'ora della leggenda di Concetto Pettinato

L'ora della leggenda ROMA NEL MEDIOEVO L'ora della leggenda _ Giacché in realtà la coscienza italiana risorge a Roma, e col X secolo. Tutto è naufragato, nel sonno degli ultimi trecent'anni, e la Città Eterna giace smemorata come coloro che all'uscire dai tumulti delle guerre stentano a ritrovare il senso della persona e della vita; ma una virtù e miracolosamente sfuggita al naufragio : l'orgoglio. Transit et imperium, tnansitque sv[perbia tccum, constata non senza acredine un'apostrofe a Roma che la Patrologia del Migne pone fra i Carmina dubia di Berla. Questa platonica « superbia » sopravvissuta al crollo della potenza romana è il vacillante ramo da cui spiccherà il volo la nuova fortuna degli Italiani. La gente venuta di fuori, e Beda venne dalla lontana Albione, ride forse di essa come i viaggiatori dell'Ottocento nel visitare la Spagna rideranno della fierezza dei mendicanti drappeggiati nei loro laceri mantelli a guisa di hidalgos. Ma i contemporanei non sono mai buoni giudici dei difetti e delle qualità altrui. La dotta Italia del Rinascimento non sarà così commovente come questa ignorante Italia del X secolo, la quale, abbeverata qual'è di errori e di favole, trova nondimeno nelle inconscie alchimie del proprio cuore ferito il modo di costruire attraverso gli uni e le altre, sul vuoto lasciato dalla prima Roma e non ancora colmato dalla terza, una Roma provvisoria tutta sua, che non sarà forse la meno meravigliosa delle tre per un suo cotale aspetto da capitale fiabesca, fertile di allucinazioni e di sogni, popolata di eroi solitari gesticolanti sulle nuvole e un po' misteriosi come personaggi di una pala d'altare, sia pur di un altare davanti a cui si bruci più zolfo che non incenso. Se Boezio riapparisse ai piedi del Clivo Sacro in veste da pellegrino, i Quiriti che vi si atteggiano a ciceroni lo farebbero trasecolare additandogli imperterriti nella basilica di Costantino il palazzo di Romolo, nel tempio di Castore il palazzo di Catilina, nel portico di Ottavia il palazzo di Ottaviano, nel circo di Caligola il palazzo di Nerone, nel Colosseo il palazzo di Vespasiano; nei fori traianei il palazzo di Traiano, nella tomba adriana il palazzo, di Adriano e nella colonna di Marco Aurelio un avanzo del palazzo di Antonino. L'ingenua fantasia di una generazione setto i cui occhi le rovine dell'antichità stanno per trasformarsi in castelli feudali ha bell'e mutato gli edifici pubblici dell'Impero in case private e gli imperatori in duchi e baroni. In un'epoca nella quale la nozione del grandioso per fini collettivi non esce dall'orbita dell'architettura sacra e in cui l'apparizione dei palazzi comunali è anco ra lontana, tutto quanto supera la statura comune non fa più pensare se non al fatto di un singolo, al l'eroe. Quale miglior riprova della scomparsa dello Stato? Ma questo personalismo, che un giorno approderà alle convulsioni del feudalesimo, è pel momento alla fase idillica e si accontenta di sfogarsi in rozza poesia e in innocenti chimere. Lo stesso Boezio finirebbe col sorridere delle invenzioni dei Romani. Incapaci di meglio, costoro esagerano, divinizzano i loro malcerti antenati. O non attribuiscono un tempio anche a Scipione, anche a Cicerone? Questo bisogno di esagerare, questa superbia, direbbe Beda, è già uno sforzo per innalzarsi. Navighiamo a vele spiegate verso le iperboli della clianson de gestc. Se la Chiesa e il monopolio clericale della cultura non avessero da secoli gettato una specie d'interdetto sulle memorie di Roma pagana, basterebbe all'Italia stendere la mano per scoprirsi ricca di un patrimonio epico di ben altro volo che non quello che i Paladini stanno per fornire alla Francia o i Nibelungi alla Germania. L'età imperiale e, più, la Roma repubblicana riboccano di temi i quali non domanderebbero se non di ecclissare le iperboree storie di Orlando, di Artù, di Tristano e di Attila. Purtroppo, anche qui la presenza a Roma della Chiesa agisce negativamente, sottraendo al popolo della penisola un corredo di miti e di eroi nazionali che basterebbe a dar l'abbrivo a dieci letterature e, quel che più importa, ad additargli sin da ora una strada, un ideale. Quell'Eneide che potrebbe essere la bibbia della stirpe, se il secolo la intendesse per quel che è davvero, cioè la storia di un'invasione e di una resistenza eroica quanto sfortunata, cade al livello di un libro di magia. Il medioevo italiano non capisce Turno, invano anelante a diventare il suo Cid, mentre si eccita l'immaginazione con le arpie, le sibille, il Tartaro, Didone. I passi fondamentali del poema — la visione di Anchise, lo scudo di Enea, il giù ramento di Latino, quello squillante Tango aras che potrebbe anticipare di qualche secolo l'atmosfera di Pontida — vengono prudentemente la sciati nell'ombra da chi si è istituito custode del capolavoro virgiliano e tiene forse a farne qualcosa che sia dato confondere col romanzesco di lettoso e inoffensivo delle Metamorfosi. Il giorno che, nell'orgasmo comunale, la nazione, finalmente, sarà nata, la vedremo presentarsi al mondo adespota, a dispetto delle genea^ logie lusinghiere fabbricatele dall'età classica, come un popolo bastardo, figlio di ignoti genitori. Ma non anticipiamo! Agli albori del X secolo, il fermento fantastico jji cui ]«. fumose teste italiane son ppm piene, ancorché non debba giungere prima di tre o quattrocent'anni a concretarsi in una letteratura né in una politica, ci è ugualmente caro pei germi di avvenire che cova e che potrebbero fiorirvi, per le possibilità illimitate che vi dormono e che potrebbero destarsi. E' l'ora in cui ogni pietra della distrutta Roma sembra pregna di suggestioni poetiche. Eatto nuovo, il prestigio della cosa laica ripiglia ad affermarsi accanto a tinello della cosa ecclesiastica e la potenza terrena accaparra le fantasie in gara con quella celeste. La stessa nomenclatura imposta dal popolo alle vestigia dell'antichità è sintomo di i/ì travaglio dell'immaginativa che non chiederebbe se non una spinta per diventare epos. Tutto brilla e fiammeggia su questo scenario di terrose rovine, sin ieri aduggiate dal preconcetto confessionale. La Porta Aurclia è diventata Porta Aurea, il Circo Flaminio si chiama Castello Aureo, il Velabro ha preso il nome di Velo Aureo. La smania dei Romani di veder l'oro dappertutto fa pensare alla candida vanità della vecchia Mosca, dove pure una certa impotenza all'agire cercava scampo nelle soddisfazioni gratuite delle nomenclature vistose. La loro è una Roma d'oro, e intorno a questa immaginaria Esperia partorita dal rialbeggiante spirito nazionale tutto un edificio di prospettive mirifiche viene a comporsi, al di sopra o al di là del deprimente panorama della Roma cristiana. Nemmeno le guide compilate a intenzione dei pellegrini sanno prescindere dalle ingenue polluzioni della superbia indigena, segno che anche la Chiesa sente di non poter più rifiutare qualche concessione all'avversario. h'Itinerario di Einsiedeln, ['Itinerario salisburghese, il Catalogo di Zaccaria, la Descriptio regionali^ urbis Romae, VOrdo romamis, la Grafitici aurate urbis Romac, le Mirabilia Romae, giù giù fino alla relazione di Beniamino di Tudela concorri ino tutte, quale più quale meno, alla creazione di un'Urbe irreale, che diresti sospesa su un arcobalenìi come un Walhalla latino. C'è davvero al mondo, a datare dal X secolo, una Roma la quale non sta sulle fangose rive del Tevere ma nelle eteree lontananze dell'empireo, preludendo ai futuri miracoli dei palazzi di Alcina. Nel collazionare le descrizioni degli oscuri .continuatori di Publius Victor per cavarne tracce attendibili delle successive evoluzioni dell'Urbe, gli eruditi dell'età moderna si urleranno al muro di una fantasia implacabile, circondante la vera Roma con le fiamme accese da Wolan circondavano la Valchiria addormentala. Ad orila delle molteplici esperienze personali di pellegrini d'ogni par¬ te d'Europa, la sua stessa posizione geografica sembra tenere del problematico. La saga di Ragnar, alla metà del IX secolo, non parla forse di un vegliardo il quale per recarsi da Roma a Luni aveva consumato due paia di calzari di ferro? Una città che può rinculare così nello spazio non si rifiuta a nessun genere di prodigi. E' questo il tempo in cui Milano si vanta figlia di un nipote di Giapclo e Firenze si proclama fondata da Giove, rampollo di Cam, giunto sull'Arno con la consorte Elettra e l'astrologo Apollo. Il meno che Roma possa fare, per mantener le distanze, è risalire Fino a Noè, eccellente trovata per mettere i Quiriti a posto anche col Vecchio Testamento. Allorché i figli di Noè ebbero alzata la torre di Babele, narrerà la Grathia, l'annoso patriarca venne con loro in Italia e fondò una città non lungi dall'attuale luogo di R'o-ma. Poscia suo figlio Giano col figlio e col nipote Giapclo, nonché un'indigena, per nome Camese, assunse il regno ed eresse sul Palatino la città di Gianicolo, dove stabilì la capitale e dove risiedettero dipoi felicemente oinncs itnpcratorcs et cesarcs. Ncmbrotte, altrimenti detto Saturno, che fu fatto eunuco dal figlio Giove, innalzò quindi sul Campidoglio la città di Saturnia. Italo, sbarcato con un manipolo di Siracusani — gcnics | venere Sicanae, aveva detto Virgilio — fondò a sua volta sul fiume Alluda un'altra città, che intitolò al medesimo, mentre dava al fiume il nome di Tevere : dopo di che, Forcole, giunto con gli Argivi, eresse Valenza sotto il Campidoglio, e il re degli Aborigeni, anch'cgli, vedi caso, per nome Tevere — asperque immani corporc Thybris — fu ucciso in battaglia da Italo. Di lì a poco, Evandro, re di Arcadia, fabbricò una fortezza sul Palatino — Tutti rcx Eitandrits, rumarne conditor arcis — e un'altra città eresse Glauco, figlio minore del figlio di Giove, ai quali succedette la figlia di Enea, sbarcata con un esercito di Troiani, e poscia Silvio Aventino, re degli Albani, che si costrussc un palazzo e un mausoleo sul monte da lui nominato. E finalmente, nell'anno 433 dalla distruzione di Troia, Romolo, nato dal sangue di Priamo, cinse, in età d'anni ventidue, le anzidette città con un muro r: dette loro il nome di Roma, dove accorsero a stabilirsi Etruschi, Sabini, Albani, Tuscolani, Lucani, Itali, Farisei, Gianicolcsi, Camcrincsi, l'eleni, Capenati, Politani, Ficani — l'amanuense voleva forse scrivere Sicani — ed altri nobili del mondo intero... Roma sogna di Roma. L'aurora non può esser lontana. Concetto Pettinato