Serata quasi di gala

Serata quasi di galaQUINTE 33 RIBALTE IDI MOSCA Serata quasi di gala (Dal nostro Inviato speciale) MOSCA, aprile. Qui è d'obbligo, in ogni comunità, il giornale murale. Ogni numero ha la vita d'un mese: ampii tabelloni, con scritte di propaganda, ritratti del baffuto Stalin, « vita interna » dell'ente o stabilimento che sia. Siamo alla fine di marzo. Stasscra la più giovane segretaria dell'albergo è rientrata con un tubo di carta velina, d'un bel rosso fiamma, qua e là venato di chiazze gialline. Carta da poco prezzo, da giornale murale. S'è posta a un tavolinetto, nell'atrio, a ritagliare i suoi fogli crocchiatiti. Ci siamo avvicinati, curiosi di quel giochetto un po' froebeliano; e poco dopo eravamo intenti ad aiutarla, ritagliando tante striscioline d'un centimetro ciascuna. La povera figliola ogni tanto sbuffava. Era toccato a lei, questa volta, di preparare il « materiale »; gli « articoli », invece, li stava facendo la segretaria piti anziana; e li scriveva a mano, perchè la macchina da scrivere era impegnata per allestire i conti ai clienti in partenza. Domani quelle striscioline, a festoni e a ghirlande, incollate alle pareti di un angolo buio, appariranno nel lungo corridoio, sotto a un cartellone che ti invita a visitare la Crimea, col turchino d'un mare in tricromia da far schiattar di bile la più borghese fra le agenzie di viaggio; di fianco a un altro cartellone che t'annuncia i viaggi organizzati in Siberia, per la caccia all'orso, tutto previsto, slitte, battute, colazione nei « padiglioni di caccia » — centocinquanta rubli per ogni orso in più, da sparacchiare; e fra la Siberia e la Crimea, quelle striscioline incollate in fretta e di malavoglia disegneranno i loro tralicci un po' infantili attorno al cipiglio del compagno Stalin, sotto a scritte quasi cubitali e molto inneggiatiti — che per trenta giorni dovrebbero essere il viatico per camerieri, capi-camet-ieri e facchini. (Alla fine d'ogni mese, anche 'sta seccatura — pareva pensare la buona figliola, mentre sgridava i più malde stri di noi, che le ritagliavano strisele un po' sghembe. Io me la sono cavata così così; potete quindi ormai liberamente accusarmi d'aver collaborato a un giornale comunista). M. # # E questa è anche la sera di uno dei tanti giorni numero cinque. Qui la solita settimana è stata abolita. Ogni giorno ha un numero. Si lavora per cinque giorni, il sesto si fa vacanza; e lo si chiama, con una discreta perifrasi, e con alquanto sussiego, «il nostro giorno di riposo ». Negli uffici, negli alberghi, stantio però in mostra certi calendarioni tedeschi o inglesi, con i loro bravi giorni della settimana, ognuno con il suo Santo; e a quelli rivolgono gli occhi fidenti, molte volta ogni giorno, tavarisci e non tavarisci. La sera della vigilia del nostro giorno di riposo (noi diremmo più semplicemente sabato sera, ma compatiamoci, siamo borghesi) è quasi d'obbligo l'andare a teatro. Chi h-a quattrini da spendere, da tempo s'è prenotato un posto all'opera, o al balletto, o in una delle cinquanta sale di prosa; gli altri s'accontentano dei teatrini dei Club operai. Ma per i protetti 'deZJ'Inturist è sempre libera, anche all'ultimo momento, la prima fila d'un palco di prim'ordine. Un ingenuo s'avvia a indossare la marsina, almeno lo smoking; l'interprete gli sussurra Compunto « Come vuole, non è certo d'obbligo » e dopo la pausa d'un silenzio: « Forse non sarebbe opportuno ». Insomma, bisogna salvare almeno le apparenze, andarci in giacchetta. Siamo in quattro. Uno in grigio chiaro, un altro in marrincino, il terzo in un bel violetto, il quarto, poi, in un verde pisello stanco, con un maglione d'un bellissi pio cilestrino; e con queste vesti, in omaggio alle usanze che avremmo do vuto trovare, ci siamo affacciati a quella che di Mosca fu l'Opera Imperiale. *** Le prime a salutarci furono le muse, appese al soffitto, svolazzante ognuna dentro la sua fetta di torta dorata, Tutto il teatro è stato accuratamente rimesso a nuovo, esattamente come ai tempi degli splendori dei Romanoff; rinnovati stucchi e dorature, rispettate le aquile che qua e là sorreggono con il becco pesanti festoni d'alloro; sol tanto sui palchi del centro e di prò scenio, un martello e una falce, pie coli tanto efie quasi non si vedono. Il nostro grìgio-marroncino-violetto verde pisello desta non poche occhiate e non pochi sussurri. Venti rubli le poltrone, quindici le poltroncine, dodici i numerati, e così via via, fino ai due rubli per il loggione; e 'sii figli di tavarisci, in poltrona, se ne stanno tutti impalati in funebri abiti neri. Certi so lini alti un palmo, proprio di quelli che servono a render più ridicoli gli odiati borghesi d'un tempo, quando qui appaiano in un film; certi volti lustri e paonazzi per le raspate del rasoio; sguardi un po' spenti, già assonnati, ancor prima che si schiuda il velario; e un sussiego, e un cipiglio, per quei poveretti dei numerati e del loggione. Le signore ostentano le prime scollature, timide e parche, ma che devo¬ nginlmlgpsTsnsscvtctèrsbptfvi no non poco impensierirle, come quei gioielli venuti chissà di dove, e messi in mostra con un orgoglio tanto ingenuo da non tentare nemmeno di celarsi. Qualcuna ha sulle spalle una mantiglia di lana all'uncinetto; ora la lascia, lentamente cadere, con sorvegliata negligetiza, come se fosse una pelliccia, Il vero spettacolo non è sul palcoscenico, dove « La dama di picche » di Tchaikowski intesse i suoi ritmi, fra scenografie discretamente convenzionali, anche se il regista Dimitrieff, al secondo atto, abbia inclinate un po' di sghembo le. colonne del gran palazzo, certo già, pronte a crollare alla prima ventata rivoluzionaria, che molto più tardi dovrà pur venire; il vero spettacolo non. è nei do di petto del pasciuto tenore é del pasciutìssimo soprano; non è fra le ballerine del ' terz'atto, pove- re tavariscie che hanno lasciato le loro stanche galoscie per infilarsi le babbucce di raso sbiadito; o fra le comparse che sono poi quelle di tutti i eatri d'opera del mondo, le spalle infarinate, le mani rosse dai geloni; il vero spettacolo comincia dalla ribalta n qua. E' questo pubblico che biascica ca¬ ramelle, o va iti estasi alla romanza o dorme convinto — e una moglie, tenta invano ogni tanto un colpetto di gomito al dolce russare del marito; è in questa divisione di posti che corrisponde a una divisione se non di caste certo di salari e di stipendi, che già lascia riaffiorare sintomi di varie classi, e alle quali ora il Governo im¬ parzialmente si rivolge invitandole a sottoscrivere l'ultimo prestito nazionale al sette per cento; è l'antica negazione della famiglia che ora, a pochi anni di distanza, li ha portati a questo più che legittimo intrecciarsi di mani nella penombra-, a questi abbandoni della dolce testolina sulla spalla del consorte — rigido e impettito come un caperai maggiore dinanzi al fotografo; è quel direttore d'orchestra che se rie sta democraticamente seduto, ma in marsina, è con uno sparato che quando si volge a ringraziare è più abbagliante d'un riflettore; è in questi a cento'scelti professori», qualcuno con una lunga casacca di velluto, uno con una giubba da sciatore, un altro in pantofole, e quando non gli tocca di suonare legge sbadi gliando un giornale — ma tutti gli altri in nero, e con certe cordicelle di cravuttitie a farfalla che chissà che co sa darebbero pur d'affacciarsi su ri svolti di raso; è, soprattutto, in questo torpore un po' greve, da immenso politeama di provincia la sera della do menica, in questa' compiacenza palese di gente arrivata ai posti più cari, in questa lunga siesta musical-coreografica che ancóra una volta fa pensare con gratitudine agli spacci riservati che danno i loro generi soltanto ai funzionari del governo, ai membri del partito; è in questa parata, mondana alla sua maniera, d'una classe dirigente che è poi la nuova borghesia che affiora, in questi volti un po' stanchi, e un po' trónfii, sempre pronti a indurirsi quando ti debbano proclamare il loro « domani faremo il comunismo », e Trotzky ne deve ormai sapere qualcosa; sempre tutti d'accordo, sino alla noia, soltanto nel dirti che ora qui debbon subire la dittatura del proletariato perché il Paese si possa organizzare economicamente; poi si avrà il vero socialismo, che darà il benessere a chi se lo sarà meritato; e quando tutto il mondo si sarà collettivizzato, soltanto allora si avrà il comunismo integrale, E ti dicono quel « soltanto allora » con un sorrisino che, di fede, proprio non si direbbe. Negli intervalli, la rituale jtasseggiata per i ridotti. Camminano a due a due, lenti e gravi, ordinatissimi. Se s'arrestano, è ditianzi al buffet; dove si rimpinzano a quattro palmenti. (Ogni intervallo, qui, per la birra e i panini imbottiti, è come il più lungo intervallo nei teatri tedeschi). E allo squillare dei campanelli le schiere ordinatamente, solennemente, tornano alle scalee che conducono ai palchi o scendono alle poltrone. Se trafelato giunge qualcuno con il casacchino d'operaio, sceso a bere- qualcosa in una bettola vicina, a una tariffa assai meno cara di quelle del governativo teatro, eccolo, dinanzi alla sfilata, arrestarsi reverente, quasi timoroso: e attendere che sia finita, prima di permettersi d'inerpicarsi verso il suo loggione. La grande sala, tepida e dorata, torna a immergersi nella penombra, naviga sulle onde della musica e fra le tenebre della notte — serra quasi di lusso di nuovi ricchi che per ora vivono un loro cronico 'novecentodiciannove. Scivolano sul lucernario le raffiche tempestose dell'ultimo marzo, che un'altra volta ricaccia lontana la primavera, dopo aver solcato i deserti delle steppe, dove un'isbà è un isolotto sperduto, il tetto e le scarpe del contadino sono ancóra di paglia marcita, giunge al villaggio l'ululare di un lupo affamuto; e pochi rubli sono custoditi con quella venerazione forse un tempo rivolta a una icona, che oggi sarebbe troppo pericoloso adorare. Mario Cromo o non poco impensierirle, come quei ioielli venuti chissà di dove, e messi n mostra con un orgoglio tanto ingeuo da non tentare nemmeno di cearsi. Qualcuna ha sulle spalle una mantiglia di lana all'uncinetto; ora la ascia, lentamente cadere, con sorvegliata negligetiza, come se fosse una pelliccia, Il vero spettacolo non è sul palcocenico, dove « La dama di picche » di Tchaikowski intesse i suoi ritmi, fra cenografie discretamente convenzioali, anche se il regista Dimitrieff, al econdo atto, abbia inclinate un po' di ghembo le. colonne del gran palazzo, erto già, pronte a crollare alla prima entata rivoluzionaria, che molto più ardi dovrà pur venire; il vero spettaolo non. è nei do di petto del pasciuto enore é del pasciutìssimo soprano; non fra le ballerine del ' terz'atto, pove- t'V.v. ' ■ '•;Vr:'s:;v- - >'.*V-*: . 1 ALLIEVE DELLA SCUOLA DI BALLO DELL'OPERA DI MOSCA UNA SCENA DEL «PRINCIPE IGOR».

Persone citate: Mario Cromo, Principe Igor, Romanoff, Stalin

Luoghi citati: Crimea, Mosca, Siberia