Il bene perduto

Il bene perduto Il bene perduto Stava ormai da tre mesi nella nuova città; «la città, diceva, della sua infanzia, perchè ci aveva passata l'età dai tre ai sette anni ». Era stata anzi questa idea che l'aveva spinta a tornarci ; quella è l'età in cui si assorbono con maggiore intensità e rapidità le sensazioni, le quali poi faranno strato nei nostri ricordi e coloriranno quegli anni di un colore speciale, particolare, cingendoli d'un alone quasi magico: la vita poetica dell'infanzia. S'era trovato un piccolo impiego, qualche centinaio di lire al mese; l'altro, quello che le occorreva per vivere decorosamente, glielo mandava mensilmente suo padre, e talvolta glielo portava lui stesso, trattenendosi qualche giorno, e stando con lei solo la sera, perchè l'orario le occupava quasi tutta la giornata. Dapprima era andata -id abitare in una pensione; una delle solite pensioni centrali, costosa, tenuta con un certo lusso, ma dove le vivande non avevano alcun sapore. Del resto, a lei non importava, mangiava senza badarci, più attenta al libro che teneva appoggiato alla bottiglia dell'acqua che a ciò che arrivava nel piatto. Aveva scelta questa pensione perchè era a due passi dall'ufficio, non doveva attraversare nemmeno il corso; scendeva nella Galleria con l'ascensore, passava sotto un porticato, svoltava a un angolo dove c'era un cinematografo, ed era già nell'atrio del palazzo, davanti a un altro ascensore. Quando pioveva si metteva l'impermeabile per abitudine, e perchè, con la cintura stretta alla vita, le dava un'aria più snella e leggera. Nemmeno a questo però badava troppo; erano anzi più le mattine che faceva una toletta sommaria che i giorni in cui si curava un po' di più il viso, le mani, e tutto il corpo. Avrebbe potuto fare il bagno tutte le mattine; ma la pigrizia la teneva a letto fin quasi all'ora dell'ufficio, e doveva essere puntuale. Nella pensione non aveva fatta amicizia con nessuno; aveva scambiato poche parole soltanto con una signora matura e molto dipinta che mangiava sola al tavolino accanto al suo, I primi giorni era vissuta con una certa ansia ; tornare in una città dove aveva vissuto quegli anni cari della prima infanzia le pareva che dovesse ridarle il senso, il sapore di quel tempo, risuscitarle i ricordi, farla rivivere in uno stato di scoperta e di meraviglia. Invece, prima con apprensione e poi con doloroso stupore, di tutto quel che s'aspettava non aveva provato nulla; certe strade, per dove indubbiamente era passata chi sa quante volte perchè o c'era un cinematografo o un negozio di giocattoli o una pasticceria, e in casa, quando era viva la madre, spessissimo si parlava di questi locali, che nella sua fantasia si erano rivestiti subito di uno strano fascino, certe strade non c'erano più ; vi erano sorti dei palazzi nuovi; o abbattendo le case qua e là, ne avevano fatta una piazza, e tutto era stato cambiato, persino il nome. Vecchie piazze erano state egualmente trasformate; ma anche dove tutto era rimasto come prima, alberi, negozi, un chiosco vicino a una fontana, un vecchio albergo, e lei ci tornava con la certezza di rivedersi bambina in quel tempo e in quell'aria, le pareva non di tornare a un luogo noto, ma di trovarsi in un luogo mai visto, del tutto nuovo. La cara città, le fantasticate strade, i negozi grandi e bellissimi, tutto questo non c'era, non esisteva ; era stato un sogno, una favola. Anche l'aria era un'altra; la stessa nebbin che, le pareva di ricordare, nelle giornate di novembre trasformava la città in una visione irreale, palpitante di lumi rossi, percorsa dalle campanelle tintinnanti dei tram, e pareva realmente d'essere entrati in una città sotterranea, avvolta di veli impalpabili e immensi, la stessa nebbia aveva un sapore che non era affatto quello che le era rimasto nel fondo della memoria ; era una nebbia acre, maligna, che penetrava nelle ossa e la faceva rabbrividire di freddo e quasi di paura, come se respirasse un'aria infetta. Ed ecco che quell'unica ragione che l'aveva spinta in segreto a scegliere questa città allorché s'era decisa a lasciare la casa paterna, e a rompere quell'odioso fidanzamento a cui l'aveva costretta la madre, si era rivelato un inganno della sua fantasia. Questo aveva accresciuta la sua solitudine, l'aveva fatta rivolta re contro cotesto inganno, come se avesse subito un tradimento. Aveva creduto di possedere un luogo caro, un rifugio, dove ogni cosa, in virtù di quel miraggio, le sarebbe parso lieto, dove avrebbe accettato con piacere anche il peso e la fatica d'un impiego qualunque; e invece si ritrovava in un paese estraneo, diverso, del tutto indifferente alla sua ansia, al suo desiderio. In poco tempo, caduta ogni speranza di ritrovare il filo disperso della sua infan: zia, la città le parve brutta, volgare nel suo chiasso, ancor più volgare la gente che passava sorridente o soddisfatta per i marciapiedi; e se pri ma aveva accettato più d'una volta la proposta di una compagna d'utficio, di andare insieme in una pasticceria o in un cinematografo, adesso la sera non usciva più. Aveva anche lasciata la pensione; s'era trovata, sempre vicino all'ufficio, una camera mobiliata, che dava su un cortile interno malinconico ma silenzioso; a mezzogiorno andava a mangiare in piedi in un bar vicino, la sera si faceva cucinare dalla padrona di casa, alla quale rivolgeva si e no qualche parola, e passava le domeniche chiusa nella stanza, sdraiata a leggere, o a guardare in un'inerzia vuo ta di pensieri il soffitto rivestito di carta sbiadita e stampigliata di omini fiorami. Non avvertiva nemmeno il tanfo di rinchiuso e di vecchi muri, sebbene a volte si sentisse soffocare; ma meglio quel tanfo, ove s'erano intrisi e impastati odori di cucina, che l'acre polverone delle strade, il fracasso dei veicoli in corsa e l'odiosa gente allegra e indaffarata. Un pomeriggio di domenica, mentre, stanca di leggere, s'era sdraiata sul letto e ascoltava l'acqua di una grondaia che piombava su un lastrone di zinco del cortile e faceva un rumore come di tamburo, la padrona di casa bussò, e le disse che una signorina la cercava. E prima che lei facesse in tempo a scendere dal letto, questa signorina apparve alia porta, e la chiamò per nome, facendo qualche passo verso di lei, con un sorriso pieno d'amicizia. Anna la guardò con stupore e sorpresa, non capì nemmeno bene quello che le diceva. Udì le parole : « Suo padre ha scritto a papà, son venuta a prenderla, si ricorda, Giselda, la sua compagna di scuola ». E le tese la mano affettuosamente, e fece anche il gesto d'abbracciarla. Anna si ritrasse con un moto istintivo che arrestò l'altra; la guardò ancora, capì, disse freddamente : « piacere, grazie ». Si guardarono un attimo in silenzio; allo slancio di prima era subentrato nel viso della ragazza un impaccio, e quasi un inatteso disappunto. Ma un sorriso cancellò quell'impaccio, suscitò nel viso di Anna un sorriso più marcato ; si guardarono con una rapida e reciproca intensità, si tesero la mano contemporaneamente. Con un improvviso moto di tenerezza Anna pensò a suo padre ; si morse le labbra, disse ancora, ma con una voce più calda : « grazie, le sono molto grata ». Arrossì, guardò di nuovo la ragazza ; « già, pensò, è Giselda, la mia compagna di scuola ». L'altra parve capire questo pensiero, e aggiunse: « si ricorda? Nelle scuole di via Ruffini, facemmo la prima e la seconda elementare, stavamo allo stesso banco; si ricorda la maestra? la signora Lavezzari, insegna ancora, sa; noi abitiamo ancora in via Mascheroni, e lei, si ricorda dove abitava lei-?, dietro il piazzale Magenta, adesso è tutto nuovo in quei paraggi, certo sarà andata a vedere ». Parlava in fretta, ma ogni parola scavava un solco, con qualcosa di doloroso, nell'animo di Anna. Non disse che c'era stata e che quei paraggi non le avevano detto nulla, che non aveva ricordato nulla, come se fosse andata a visitare un quartiere sconosciuto di una città nuova. E non disse della delusione che ne aveva provata, degli sforzi vani che aveva fatto per risuscitare in sè qualcosa di quel tempo; e di come !a città le fosse apparsa prima nemica, poi indifferente; e la sua solitudine di ora, l'inerzia in cui si sentiva caduta, senza alcuna speranza di rialzarsi. Non disse nulla. Ma intanto pensava : « tutto que sto l'ha capito mio padre; come? se io non gli ho detto mai nulla... ». Sentiva stringersi da un nodo più vivo di tenerezza; quella lontana chiaroveggenza di lui le parve miracolosa ; sì, egli aveva intuito la sua sofferenza, la sua tristezza. Chiese che cosa avesse scritto al padre di Giselda; questa le mostrò la lettera; erano poche parole, pregava il signor Gaddi di mandare la sua figliola a cercar di lei, ma nessun accenno ni perchè sua figlia si trovasse sola in quella città. Prima che Anna finisse di leggere, Giselda le disse con quanto piacere fosse venuta, e che sua madre la salutava, e la invitava a casa per quel pomeriggio. Anna sorrise riconoscente; «ma, disse, dobbiamo prima andare a veder la scuola ». « Certo, ci passiamo con l'autobus, possiamo scendere anche prima ; di lì a casa son due passi. È' ancora tale e quale ». Uscirono, s'avviarono a piedi. Un sole insolitamente tiepido brillava sulle strade, squagliava l'ultima neve sui tetti, in certe strade l'acqua cadeva dalle grondaie con schiocchi allegri. Costeggiarono un lato del Duomo, vi avevano allineate delle bancarelle, vendevano coriandoli, stelle filanti, trombe di cartone dalle lunghe code variopinte di cartavelina ; una folla di ragazzi e ragazze, ma anche uomini e donne d'età, vi si pigiava. Le due ragazze camminavano in fretta, cercando d'evitare il più possibile la folla assiepata, ma divertite di quel chiasso, e arrossendo degli scherzi di qualche giovanotto. Ogni tanto Anna dava un'occhiata sorridente alla compagna ; questa gliela ricambiava; e le parole che si dicevano avevano già il tono d'una amicizia nascente. Anna sentiva come se qualcosa le si sgelasse nel petto; il cuore le si apriva a una fiducia nuova, con un che di leggero e vivace. L'immagine di suo padre le stava fissa in mente, col sentimento di una nuova riconoscenza. Capì che quel suo sorriso stanco che gli tre mava spesso alle labbra, come pei una pena segreta ch'egli dovesse costantemente superare, era dovuto a lei, ne era lei la cagione. Ma a questo senso di colpa s'abbinava la fidu eia d'essere tutelata così, guardata da quel sorriso doloroso e buono, an che se lontano. Sì, era stato suo pa dre a ridarle, con una compagna ch'era già quasi un'amica, il bene dell'infanzia. Si strinse alla compagna, questa le prese il braccio, le disse affettuosa : « compriamo anche noi una trombetta ». S'avvicinarono a un panchetto, provarono quelle col suono più squillante; sorrisero, risert allegre; e le strade, il sole, i palazzi, la gente, tutto era divertente, bello, chiaro, pieno di vita, come quand'e rano bambine e uscivano insieme dalla scuola. G. Titta Rota

Persone citate: Gaddi, Lavezzari, Titta Rota