Pittori piemontesi alla Quadriennale di Marziano Bernardi

Pittori piemontesi alla Quadriennale LA FINE DEL REGIONALISMO ARTISTICO Pittori piemontesi alla Quadriennale e a ROMA, febbraio. Porremo Carlo Carrà fra i pittori piemontesi anche se è nato cinquantaquattro anni fa a Quargnento presBO Alessandria ed ha scritto una monografia su Fontanesi, quel Fontanesi del quale qualcuno ha voluto ritrovare il lirismo pittorico in certi cieli tragici appunto di Carrà? Gli daremo — spiritualmente — per conterranei Felice Carena, torinese, Felice Casorati, novarese, Felice Vellan, torinesissimo (quanti felici tra: gli artisti piemontesi!), Camillo Rho, alessandrino, Giuseppe Manzone, astigiano? Fra pittori come Enrico Paulucci, Francesco Menzio, Nicola Galante i quali per lunghi anni di lavoro hanno ormai acquistato cittadinanza torinese benché il primo sia ligure, il secondo sardo, abruzzese il terzo, e un Bosia, un Boetto, un Valìnotti, un Sobrero, un Deabate che vennero al mondo ai piedi della Mole Antonelliana corrono forse dei legami stilistici che indichino una unità di programmi estetici e persino una affinità di presupposti o di scopi ideali? Il fatto è che, salvo rare eccezioni, alla.nomenclatura regionale è indispensabile sostituire oggi, in arte, una nomenclatura individuale. E ne son prova in questa stessa Quadriennale persino certe difficoltà e asprezze di collocamento contro le quali Cipriano Elìsio Oppo ha tentato di lottare per ottenere una maggior chiarezza di comprensione mediante accorti aergruppamenti, ma che alla fine qua e là ne han vinto l'animosa volontà: perchè se gli è stato relativamente agevole, avendo da sistemare Piemontesi o « piemontesizzati », porre nella stessa sala, come corona alla parete di Casorati, Francesco Menzio, Paola Levi Montalcinl, Ida Donati, Italo Cremona, Albino Galvano, Luigi Spazzapan, Nella Marchesini, Sergio Bonfantlni, Gianni Tribaudino, Dafne Maugham, e, un po' Isolato come la sua pittura voleva, Domenico Valinotti dal lato opposto di Agostino Bosia; se gli è venuto naturale metter su una riuscita saletta che s'appoggia specialmente su Camillo Rho, Giulio Boetto, Carlo Terzolo, Massimo Quaglino, Bionda, Rivera, padre Pistarino, Tina Mennyey; ecco che poi 11 chiaro e pacato Manzone ha dovuto andarsene lontano con il puntualissimo Amedeo Boschetti, con Romolo Bernardi, col Giacomo Balla passato dalle audacie futuristiche a queste salottiere Sigarette che ardono, 11 a due passi dal Poter Noster e dai ritratti di Giacomo Grosso; e sia Carena, sia Paulucci, e Sobrero e Calassi e Deabate e Morando e Carlo Levi e Levrero e Gamero con sua moglie Gamero Colonna e Rosy Sacerdote e Solavaggione e Da Milano e Simonazzi ed altri ancora, sono stati costretti, se la memoria non ci tradisce, a starsene isolati o pei particolare statura o perchè gli accostamenti sarebbero riusciti del tutto arbitrari. Questo funerale delle scuole artistiche regionali che, specie dall'immediato dopoguerra in poi, va dilungandosi di mostra in mostra è un bene od un male? Chi pensi alla compattezza, diremmo persino alla risolutezza polemica di propositi, e alla ricchezza di risultati cui codeste scuole conducevano per unità di programmi e spesso anche di tecniche, non potrà non riconoscere come allora la storia artistica contemporanea si delìneasse chiara e precisa, nitida come un libro ben stampato. Erano manipoli e schiere che agivano, si, separatamente e talvolta chiusi in particolari vedute esteticamente contrastanti; ma unica rimaneva la battaglia per il rinnovamento dell'arte, concorde restava la visione d'insieme di quest'arte. Nè si deve credere — o tendenziosamente sostenere — che tali regionalismi pittorici si confondessero con gretti campanilismi o comunque fomentassero divisioni nazionali. Chiunque conosca anche rudimentalmente la storia della pittura italiana ottocentesca, mentre ammira con mentalità storica le tappe segnate dalla scuola napoletana o da quella veneta, dalla « macchia » toscana o dal nucleo operante intorno ad Antonio Fontanesi, dalle scuole di Pergentina e di Resina o dalla scuola di Rivara, sa con quanta cordialità Fontanesi era accolto a Firenze (e fin nella pratica della vita da Cristiano Banti), sa che il gruppo ligure da Rayper a De Avendano ad Issel, veniva altamente apprezzato dai Piemontesi e che i « macchiaiuoli » da Signorini a Borrani, da De Tivpli a Lega, suscitavano gli applausi dei loro colleghi torinesi. Il ferrarese Boldini, il pugliese De Nittis, il veronese Cabianca si trovavano a casa loro nel fiorentino Caffè Michelangelo, e tutti insieme formavano non la pittura toscana o piemontese o emiliana o napoletana o lombarda, ma semplicemente la pittura italiana. E non erano meno italiani Favretto o Ciardi del cenacolo veneziano, di Palizzi o Morelli del cenacolo partenopeo. D'altra parte, decadute le scuole regionali per una maggior frequenza di contatti specie attraverso le grandi esposizioni nazionali ed internazionali, e soprattutto — crediamo noi — per uno scarseggiare di fortissime personalità capaci di attirare nella propria orbita schiere di fedeli discepoli (nè con ciò si insinua che oggi si manchi di simili personalità, ma si nota che le eventuali influenze risentono meno dei caratteri locali), è indubitato che un medesimo clima estetico italiano è venuto rapidamente stabilendosi, che ha press'a poco le stesse temperature a Milano come a Napoli, a Venezia come a Torino o a Roma, con scarti quasi trascurabili dovuti, più che a predilezioni di tavolozza, a motivi d'ambiente. Esempio abbastanza recente il movimento estetico detto del « Novecento », che per il luogo di nascita fu fenomeno tipicamente milanese, ma fulmineamente impegnò la sua battaglia su un terreno Indiscutibilmente italiano, ciò che certo non avrebbe potuto avvenire al tempo della « macchia », di Resina, di Rivara. Orbene questa rapidità di percezioni, questa facilità di scambi di apporti culturali e di esperienze, possono, è vero, ingenerare non poche confusioni, favorire i continui, pericolosi mutamenti, accreditare perniciosamente mode e gusti che durano quanto una stagione; ma come ampiezza d'orizzonte artistico, come respiro di intelligenze, come liberazione da qualsiasi provincialismo, hanno certamente i loro vantaggi. Lo si osserva agevolmente in un Paulucci, il quale di tutti i Piemontesi è quello che si presenta con un complesso d'opere più compiuto. Nella sua autopresentazione del catalogo egli ricorda gli incoraggiamenti di Casorati, le impressioni ricevute a Parigi da Delacroix, Manet, Ingres, Corot, la partecipazione al gruppo dei « Sei Pittori di Torino », < la cui posizione polemica di schietta aderenza alla più solida pittura francese del secolo scorso, quale continuatrice della grande tradizio- a i a a - ne italiana, influì vivacemente nel clima dell'arte nostra », ricorda i diversi soggiorni romani, insomma quel complesso di ricerche e di saggi che lo avviarono « verso una concezione d'arte sempre più comprensiva ed umana ». Ed è infatti questa pittura — della quale, nella sala Paulucci, un bel Gallo petulante, bersaglieresco, sapientemente pittorico, sembra il blasone — una confessione di sincerità espansiva e cordiale, di un calore e di un coraggio, di un equilibrio e di una determinatezza che pongono senz'altro il giovane ligure-piemontese fra i più schietti e sereni artisti italiani. Con questi suoi paesaggi solidi, meditati che hanno per fortuna dimenticato l'avventurosa estrosità dei troppo facili guazzi di cinque o sei anni fa; con queste figure ben costruite su temi stilistici che rivelano un'intima ricerca di bel ritmo e di bel colore; con le gustose e liete nature morte Enrico Paulucci dichiara anzitutto un gusto pittorico personale che potrà e dovrà avere sviluppi, tanto per intenderci, di contenuto, ma che fin da oggi — ed oggi per la prima volta in lui — ci parla della raggiunta padronanza di un linguaggio espressivo. Troppo pochi mesi son passati dall'ultima Biennale per riprendere qui il discorso sul classicismo di Carena, seni pre più manifesto nel bellissimo paese che fa da sfondo al grande Meriggio estivo dove l'accademico d'Italia varia e modula un tema a lui caro. Lo stesso, schemi classici a parte, si può dire di Carrà, di Casorati il cui Ritratto di famiglia, acquistato dalla Galleria d'arte moderna di Roma, fonde un' acuta intenzione psicologica con quel maggior calore coloristico, con quello sminuito rigore costruttivo da tutti notati nel pittore novarese da un paio d'anni in qua e perciò denunziati fino a sazietà dalla critica. Maestro di raffinatezze . nei suol allievi, anche qui Casorati so| stiene benissimo la sua parte di creatore di temperamenti pittorici: e basti osservare le tre pitture della moglie Dafne Maugham e della giovane Paola ;Levl Montalcinl, affermazioni, l'una e j l'altra, di un'espressione stilistica or|mal matura. Menzio, specialmente con la intensissima Figura, padroneggia la sua tendenza all'arabesco e ci dà alcune delle sue cose più convincenti, mentre Carlo Levi (accostiamo volutamente i due nomi) è tutto preso da squisitezze coloristiche fors'anche troppo eleganti; Sobrero piega verso un romanticismo, vorremmo dire tonale, cui già accennammo; e Cremona e Galvano insistono sui noti motivi, con un . progresso verso una maggior « puli1 zia » di tavolozza nel secondo. Gli altri, da Terzolo a Deabate, da Morando I alla Mennyey, dalla Marchesini a Bonfantlni e alla Donati, da Galante a Bionda, non ci paiono aggiunger nulla alle loro maggiori o minori conquiste; e Luigi Spazzapan — accolto alla Quadriennale con molto interesse — resta per noi, anche nei grandi quadri dalle tondeggianti figure, uno dei più intelligenti illustratori italiani, che quindi dà meglio la misura del suo talento nei guazzi e nei disegni. | Clima internazionale, anche più che nazionale, ad ogni modo. Un clima più , propriamente piemontese è possibile identificarlo? Forse, con molta buona | volontà, quando ai franchi e robusti paesi di un Valinotti inaspettato che adesso dipinge con un nuovo calore impressionistico, si avvicinino le reminiscenze, meglio che fontanesiane, bistolfìane (Bistolfi pittore, s'intende) di Bosia, la grazia sempre delicata e primaverile di Rho, la chiarezza narrativa di Manzone, di Quaglino, di Boetto, di Vellan, di Levrero, di Tribaudino. Un'aria di famiglia par circolare fra questi temperamenti diversissimi. C'è in loro, in fondo, un certo attaccamento alla tradizione, una cotal diffidenza delle avventure troppo azzardate, un senso di nostalgia della vita agreste, una moderazione anche nel coraggio, una fedeltà ai vecchi maestri, propri del carattere piemontese. Da Pittara a Delleani certi orizzonti non limitarono invano le visioni pittoriche; cosi ora senti che questi orizzonti noti e cari, questo « odor di terra », questa tenacia di affetti, pure in tempi cosi profondamente diversi, sopravvivono — e forse più nei cuori che sulle tele. Ma nel tramonto del regionalismo artistico, questo è nulla, un accenno, una parvenza: come di chi riveda un attimo una immagine dolce del passato, sosti un istante nel ricordo, e poi — come la realtà impone — nuovamente si immerga nella vita — quella che è ormai la sua vita. Marziano Bernardi. a laprchhampocogngscnludoduinsekdcmlamLpnnsatainseplasasuelidcafisupinsigpvpcapchdNèdpl'szfpdsdacsvgtienngpscdgvnsmal'kvqrntrtcprvpuEstatqsqlcbmpdai ENRICO PAULUCCI — «Il golfo ». VAL! NOTTI DOMENICO — « Barca tu 'fu.vtt ».