Tutti alla scuola del " vero ,, di Marziano Bernardi

Tutti alla scuola del " vero ,, LA SCULTURA ALLA QUADRIENNALE Tutti alla scuola del " vero ,, ROMA, febbraio. Due o trecento statue; forse un centinaio di scultori; il grandioso, magistrale Ercole che strozza il leone dell'accademico Romanelli, bronzeo blocco di superba decorazione, e le delicate testine di bimbi e di bimbe di Andrea Spadini, poco più che ventenne, bella promessa di un nome ormai glorioso nella nostra storia artistica; gli araldici, irti Leoni veramente, com'è stato notato in queste già viste opere, da protiro romanico, rivissuti ricordi di arcaici schemi plastici orientali, di Arturo Martini, e le argute, estrose figure di giovani come Angelo Righetti (Zingara) o Renata Cuneo (Giovanetto seduta) o Venanzio Crocetti (Fabiola, La gravida, Pescatorello) o Lelio Gelli (Danzatrice, Orsetta), nuove apparizioni nella più recente scultura italiana o riconferme di riconosciute qualità: — anche di questo panorama vasto e vario che la Quadriennale offre sarà meglio dare una visione d'insieme fissandone i caratteri essenziali, più che una topografia minuta e prolissamente descrittiva. Chi visiterà la mostra potrà trarne, caso per caso, apprezzamenti; ma chi è lontano e vuol sapere come si scolpisce oggi in Italia, abbisogna soprattutto d'alcuni punti d'orientamento. Panorama vario, s'è detto. Vario, si, ove l'aggettivo sia preso come espressione di modulazioni intime e profonde, di variazioni, appunto, d'un tema dominante che ciascuno interpreta, svolge, modifica secondo il proprio temperamento e le necessariamente di siGfmbfcscpsc,verse possibilità di reazione di fronte ; a un dato di fatto che per tutti, o quasi, sembra ormai acquisito e certo. Ma quello stacco netto e assoluto, quell'abisso che separa come mondi opposti e inconciliabili — nel campo della pittura — le intenzioni e le realizzazioni di un Dazzi o di un Romagnoli da quelle di un Severini o di un Carrà o di un De Chirico, nella scultura italiana contemporanea sono quasi annullati, quando se ne eccettuino le plastiche futuriste, che, com'è noto, fanno categoria a parte. Fra il clima estetico degli « astrattisti » del Milione e la cordiale chiarezza di un Paulucci c'è maggior salto che fra i rigori dei circoli polari e le temperature della zona equatoriale; ma, a prendere anche le antitesi più aspre e le dissonanze più stridenti, cioè ad accostare il Nievo di Arturo Martini al Giobbe di Francesco Messina, balza all'occhio l'unità della visione che, da un Guerrisi a un Marini, da un Fazzini a un Ruggeri, da un Morozzi o un Giorgia o un Raimondi o un Grisetti o un Drei o un Prini o un Maraini o un Luppi o un Minguzzi ad un Romagnoli, fa convergere gli sforzi della scultura attuale su un unico punto: la realtà — anche quando questa realtà sembra più velata, dissimulata per non dir tradita, dalle ribellioni di un soggettivismo insofferente di vincoli esteriori. Ripetiamo che infinite sono le modulazioni — e guai non lo fossero —! d'un simile Leit-Motif. Lo studio della; realtà naturale, anatomica addirittura, muscolo per muscolo, ruga per ruga, è di una intensità talvc'ta persino implacabile in Francesco Messina: venti statue, venti saggi d'un verismo che inevitabilmente richiama i nomi d'un Gemito e d'un Canonica giovane. Vita fisica, scatto di membra, movimento magnifico di corpi, superfici tutte vibrazione, una scienza consumata nel far giocare la luce sui volumi: ma il carattere, per questo giovane, consiste quasi sempre nel dato naturalistico: le vene annose delle braccia e dei piedi del Giobbe hanno per lui lo stesso valore espressivo del volto intento: ci verrebbe istintivo di dire che la sua ssnQovsrurmcge ,è una psicologia muscolare. Che cosa ; facevano di diverso , nostri veristi deI secondo Ottocento, i contemporanei di Adriano Cecioni? Quando si accusava Duprè di fare il calco dei modelli vivi non ci si armava di una critica che, per quanto empirica, potrebbe ora applicarsi al caso del successore di Wildt sulla cattedra di Brera? Benedetti que sto scrupolo di verità, questa probità di mestiere, benedetto specialmente questo costruir nel bronzo dopo tanto facile dilettarsi in terrecotte espressio- nistiche. Ma se questa sala del nostro Siciliano sarà delle più discusse anche per la polemica che porta con sè, non ci si venga a dire che questo, si, è verismo, ma in un certo senso, non verismo proprio « ma una cosa alla quale non si sa trovare altro nome », come la peste del Manzoni: frottole, o se preferite eufemismi: con questo Giobbe, con questo Ragazzo al mare, con questo Pescatorello (ahi, che persino i titoli richiamano i modelli), noi Siam saltati di cinquanta e più anni indietro, al D'Orsi della Testa di marinaio, all'Alberti dell'Ilota ubriaco, all'Abele del Duprè, al Caino del Trentacoste, all'Acquaiolo del Gemito; e se manca ancora « l'episodio » alla Monteverde od alla Costantino Barbetta, può darsi che presto ci si arrivi. Riserve, allarmi, rimproveri? Tutt'altro: semplicemente desiderio di dissipare i prevedibili equivoci. « La mia arte s'informa a sana semplicità schiva d'ogni intellettualismo » dichiara il Messina. Dichiaravano press'a poco la stessa cosa i « veristi » dell'Ottocento quando si scagliavano contro gli « idealisti ». Quando si pensa alle Biennali dell'immediato dopo guerra, trionfo delle mteste grosse come mele su spalle di due I metri d'ampiezza, trionfo dei piedi ti-!npo scafandro o delle braccia tipo manichino non ancora imbottito, con quei torsi da quadrumani su gambe da nani; quando si pensa che s'andò in visibilio per le sculture negroidi di Modigliani, e che tutto ciò che non era almeno di schema assiro od egizio veniva giudicato roba da « pompiere », francamente sembra oggi, in questa Quadriennale che pure è cosi vasta ed eclettica, d'esser trasportati dopo soli due o tre lustri in un altro mondo. Giovanni Romagnoli per la deliziosa testina di Zoraide che grida alto il nome di Renoir come la sua Acrobata grida quello di Degas, è ammirato e lodato al pari di Quirino Ruggeri che, cinquantenne, scolpisce da soli tredici anni, ed anche lui s'è convinto che « la scultura poteva tendere ad un'altra semplicità basata su d'una osservazione più diretta e profonda delle cose ». Questo osservar diretto e profondo gli oggetti — e quindi anche i corpi ed i volti umani — ha condotto, pare, lo scultore ad una pacatezza che conferisce a ciascuno di questi venti saggi un equilibrio ed una serenità singolari. Ai ritratti, soprattutto. Se siano somiglianti non sapremmo dire. Certo è ch'essi danno l'impressione di essere già lontani nel tempo, ritratti d'anime, e perciò tipi, più che di visi. Cosi contenuta e meditata, è forse una scultura un poco opaca, un poco monotona, alla quale si richiederebbe maggior scatto, un estro più vivo e pungente; ma questa tranquillità medesima, questa volontà continua di allontanarsi dal contingente (e dal particolare) per mirare all'insieme, al blocco, le conferiscono una monumentalità senza sforzo, un carattere architettonico che difficilmente si ritrova in altra scultura. E' l'opposto di quella del Marini il quale, pur nervoso e, come al solito, spirituale, con pezzi di uno stilismo raffinatissimo ed altri che riconfermano tutta l'acutezza della sua intelligenza plastica, riesce però sempre un poco frammentario; legittima, anzi, la supposizione che appunto il frammento — il frammento squisito e fine a se stesso — sia la sua prediletta ricerca, quasi la vera e proprio statua gli appaia un che di troppo compiuto e definitivo. L'Innocenti, il Gelli e gli altri che uscirono dalla scuola andreottiana nulla hanno aggiunto alla loro personalità quale ci era apparsa a Venezia l'anno scorso; i due bassorilievi del Fazzini, l'uno, La danza, scolpito a gran colpi in tronchi di legno giustapposti, l'altro, Tempesta, cavato dalla pietra, sono condotti su ricordi, più che di sculture, di affreschi dei nostri maggiori, e malgrado il loro vigore più con preoccupazioni pittoriche che non plastiche; Guerrisi, con la Fanciulla del lago, riprende in atteggiamento diverso il tema stilistico della sua Nuotatrice; Arturo Dazzi, con una sola figura di Adolescente, crea una casta e musicale immagine di indimenticabile Prezza; dal Raimondi al Lazzaro si notano dIffuse le reminiscenze martiniane; ed Arturo Martini, dopo la « scommessa » formalistica del Tobiolo, ci riporta risolutamente ai tempi della Pisana e della Lupa. Ciò che c'è di sempre attuale, da esposizione a esposizione, in quest'artista geniale, è la sorpresa e la volontà, davvero demoniaca, di sconcertare. Ci avevan detto che avrebbe esposto marmi, e dopo le ultime terrecotte, dopo i gres ed infine quello stupendo bronzo patinato di Venezia che rievocava la potenza vitale di un Gemito, grande era l'attesa per la tecnica di Martini marmorario. Eccoli i marmi: La sete, Il sonno. Occorre scrutarli a lungo, palparli con cura per convincersi della natura della materia, dissimulata da una tecnica che suggerisce l'idea della pietra. Partito preso? Ci si può domandare che cosa diverrebbero queste figure prone quando fossero trattate a marmo liscio; non si può negare la sorprendente efficacia espressiva, l'intensità sentimentale delle due sculture. Martini è sempre l'uomo che sa magicamente fissare la forma nell'informe; gli basta un'indicazione, quasi una parola bisbigliata; e quanto voleva rappresentare sorge come realtà poetica, con tutta la potenza d'una suggestione ossessionante. La zingara, in terracotta lucidata, con quei seni caprini eretti, gli aggeggi della cabala tra le mani e sulle braccia, il ghigno indefinibile soffuso tra bocca ed occhi, urta ed irrita come un bluff: resta indimenticabile, allucinante come un incubo, si teme di sognarla la notte. Anche William Blake aveva di queste potenze sataniche. Realismo? Per Martini, quando se ne eccettui archeologia (i Leoni) e facoltà di far viva la più fredda cultura storica (Tomba di gio^ vinetta), non c'è schema che valga a imprigionarlo. Ma se il trevigiano resta a parte, indipendente, gli altri, più o meno, seguono la corrente dominante: vedete Falcone, Mastroianni, Gregori, Strazzabosco, Marghini, Boaro, De Lisi, De Martino, Prini, Quintino Martini, Pavesi, Filippo Tallone, Torresini, Cleto Tomba, Ivo Soli, Oscar Gallo, Girelli, Biancini, Volterrani, ecc. Alla quale corrente, in questa mostra, stan nel mezzo il Messina ed il Ruggeri, a indirizzare la barca della scultura verso una sempre maggiore aderenza al « vero » naturale. Nudi e ritratti, ritratti e nudi. Sembra che il massimo studio sia rivolto a riconquistare, pla sticamente, la forma umana. In questo, la Quadriennale segna certo un punto d'arrivo: oseremmo dire che segna un limite da non varcarsi. Questi cento e cento osanna al « mestiere » non saremo noi certo a deplorarli; non conviene nemmeno che il mestiere, presupposto indispensabile ad ogni espressione artistica, anzi, ad ogni manifestazione di lavoro umano, divenga — meglio, torni a divenire — una religione. Nè un Donatello nè un Bernini fecero mai questione di mestiere: lo possedevano impareggiabilmente, e basta. Dal mestiere converrà ora salire a quel tanto di umanità che, attraverso l'arte, resta eterno. » Marziano Bernardi n Francesco Messina: GIOBBE Angelo Righetti: ZINGARA Mario Raimondi: ANNUNCIAZIONE Michele Guerrisi: LA FANCIULLA DEL LAGO Arturo Dazzi: ADOLESCENTE

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