L'Italia e l'U.I.L.

L'Italia e l'U.I.L. L'organizzazione del lavoro L'Italia e l'U.I.L. Il Duce a Milano pose, nella più solare evidenza, il contrasto insanabile fra l'ideologia di marca wilsoniana, che sta a base dell'istituto societario, e i nostri sacrosanti interessi nazionali. In verità, quell'ideologia ha ottimamente servito e serve, dietro il paravento dell'umanitarismo di maniera e del più idillico pacifismo di apparenza, ai fini egemonici di nazioni, che all'indomani della pace di Versaglia, sembrarono ed erano le più forti. Ed è precisamente ad essa che il mondo è debitore dei tentativi di mummificazione della pace, a loro esclusivo profitto; o del suo mancato aggiornamento allo sviluppo concreto della vita dei popoli. Ma le istituzioni che pretendono mummificare la storia, finiscono per imbalsamare se stesse. Valore universale Sarebbe nondimeno troppo semplicistico e nell'istesso tempo errato, affermare che le attività economiche e sociali della Società delle Nazioni — che in parte preesistevano, in parte potrebbero benissimo prescindere — debbano continuare ad essere legate al suo « cadavere vivente », e non possano, invece, conformemente alla missione umana e sociale dell'Italia fascista, uscire rafforzate da una loro tempestiva separazione da essa, cioè da un deciso colpo di spugna sul loro stesso peccato di origine. Il sindacalismo fascista, nazionale per i suoi moventi e la sua natura, persegue, grazie alla sua portata ed alle sue necessarie ripercussioni, scopi che non possono essere limitati al paese in cui è sorto, ma che avendo un valore universale, sono perseguiti anche In altri paesi, da altri movimenti, e acquistano, di conseguenza, un carattere e un'importanza di vasta efficacia internazionale. Senza le condizioni ambientali, che resero possibile in Italia la rivoluzione delle Camicie Nere, e senza il genio del Duce, il fascismo non potrebbe certamente diventare, come moto politico, un articolo di esportazione, hia è dal fascismo come moto politico e sociale, che, come ognun sa, è nata una dottrina di ricostruzione dell'economia e dei rapporti sociali, dottrina che è il corporativismo, e che nei suoi elementi essenziali non può subire costrizioni di frontiere, poiché risponde alle esigenze presenti di molte nazioni. Perfino cosi paesi aventi un regime di falsa democrazia, cioè parlamentare-maggioritaria dal punto di vista politico, atomica — sino a qualche tempo fa — come la Francia, dal punto di vista sociale, sono oggi spinti dalle circostanze ad accettare le idee essenziali del corporativismo, nell'estremo sforzo, cosciente od Incosciente, di sottrarsi alle influenze dissolventi del comunismo e dell'anarchia; e vanno quindi avviandosi verso metodi di organizzazione professionale, tendenze di disciplina collettiva degli interessi economici, che, come ad esempio, l'arbitrato obbligatorio e il contratto collettivo, o sono nettamente corporativi o si basano idealmente sull'eliminazione pratica della lotta di classe e sull'obbligo della collaborazione dei fattori della produzione. E' quanto del resto, riconosceva in un recente articolo delia Revue politique et parlamentaire del settembre un'autorità non sospetta, per le sue simpatie liberali, in materia di legislazione del lavoro: il prof. Paul Pia dell'Università di Lione.Nefaste parzialità Ora, questa influenza del corporativismo sul terreno internazionale, salutare per le Nazioni, potrebbe essere forse facilitata da una istituzióne di natura internazionale, richiamata ai suoi veri fini di collaborazione sociale nel campo internazionale, cioè da una organizzazione internazionale del lavoro riformata, secondo le proposte fatte nel recente convegno di politica estera di Milano, anche dal presidente della Confederazione dei lavoratori fascisti dell'industria, l'on. Cianetti, e da altri, fra cui l'on. Cavazzoni. Disgraziatamente, la organizza¬ zione internazionale stessa del lavoro risente troppo delle sue origini societario-parlamentaristiche. I fattori della produzione, 'vi rappresentati, vi sono organizzati in •* gruppi * inviolabili ed onnipotenti — gli Stati, gli imprenditori, i lavoratori — divisi rispettivamente dal .ponte levatoio di una distinzione, che, nei fatti, è sopra tutto l'espressione di un classismo prevalentemente politico — demoliberale-socialista — e costituisce il maggior strumento di conservazione delle posizioni marxiste tradizionali della lotta di classe, incarnate dalle vecchie e slabbrate centrali sindacali. Il funzionamento attuale dei suddetti « gruppi » è, difatti, il principale ostacolo sia ad un riconoscimento adeguato alla sua reale importanza, de] sindacalismo fascista, nel campo internazionale, sia a quello del valore stesso internazionale del corporativismo. Sorpassato dall'evoluzione sindacale e sociale, esso costituisce inoltre un pericolo per la pace sociale, nei rapporti fra le Nazioni, poiché il gruppo operaio del Consiglio di Amministrazione e della Conferenza del lavoro, esclude dal suo seno gli esponenti dei sindacalismi diversi da quelli, che godono delle sue teoriche e pratiche preferenze. Cosi diecine di milioni di lavoratori, che non appartengono alle Internazionali sindacali, predominanti al tempo in cui fu creata l'Organizzazione internazionale del lavoro, ma che non 10 sono più oggi, continuano a restare senza alcuna rappresentanza, ne] Consiglio di Amministrazione, che ne è il supremo organo direttivo. Quanto al principio della rappresentanza tripartita, è ovvio che la organizzazione internazionale del lavoro, che deve contare sulla ratifica delle convenzioni di lavoro, da parte del maggiori Stati industriali, non può considerarsi completa se nel suo Consiglio di amministrazione (che è, a cosi dire, 11 Consiglio supremo permanente della istituzione, giacché il direttore non ne è, nella vicenda del tempo, che un mandatario revocabile) essa non possiede per tutti quegli Stati, anche la rappresentanza dell'elemento « lavoro ». Se si volesse fare veramente dell'Organizzazione del lavoro una cosa seria, si dovrebbe attribuirle quella competenza nelle questioni economiche, di cui la Società delle Nazioni ha fatto così malo uso, da lasciar dormire per sedici anni, nei suoi «ingialliti registri» — per ripetere l'incisiva frase mussoliniana — una questione dell'importanza di quella della ripartizione internazionale delle materie prime... Concludendo: l'Italia fascista che è oggi la viva luce del mondo, non può restare in attitudine dimessa sulla soglia dell'Organizzazione del lavoro. Questa ha certo più bisogno di noi, che noi non ne abbiamo bisogno. Anche per essa, suonata è l'ora di rinnovarsi o di sparire. L'Ufficio internazionale del lavoro deve finalmente comprendere le responsabilità, che sta per assumere. O il contributo dell'Italia nel modo più conforme ai diritti e alla dignità dell'Italia fascista, o il suo lento e fatale tramonto. Se esso desse ancora una volta prova di mancanza di sensibilità storica e politica, non resterebbe a noi che di porgli un dilemma, che tiene nell'estrema brevità di una frase: se no, no. * * *

Persone citate: Cavazzoni, Cianetti, Duce, Paul Pia