Ai piedi del Circeo

Ai piedi del Circeo Ai piedi del Circeo Terracina albeggia di buona architettura ottocentesca, verdeggia di palme, fiorisce di oleandri. Traversata la città da parte a parte, arriviamo a porta Napoli. Questo arco commemora il taglio preciso che Traiano fece praticare al Fisco Montano affinchè l'Appia non più scavalcasse l'ultimo degli Ausoni), ma tranquilla costeggiasse il litorale. E la porta d'oro per eccellenza. Comincia di là un mondo nuovo. La promessa diventa realtà. Anche la morte da questa parte, non è se non una fra le tante operazioni della vita. Il meridione che negli stretti riguardi _ dell'Italia costituisce un fatto in sè, per singolarità di clima, per autoctonia di dialetti, per originalità di tipi e di costumi — per inconfondibile carattere di cucina (la civiltà alimentare è uno degli elementi più sicuri nello studio comparativo Ira civiltà e civiltà) ; il meridione sì dilata all'Italia intera, colora tutta quanta la penisola di sè, quando si passa a considerare con occhio europeo la storia e le vicissitudini della cultura e della civiltà, i loro drammi, le loro crisi dinastiche, le loro alleanze e collaborazioni forse, ma piuttosto l'antagonismo che le divide, la diversità che le oppone. Oggi, questa comparazione è quanto mai di attualità. Io mi convinco sempre più che l'esegesi del dramma politico si faciliterà sommamente, trasferendola dal piano puramente politico a' quello culturale: della cultura intesa non come somma di cognizioni e magari di scienza tradizionale passata nella pratica comune della vita, sì come espressione dell'anima di un popolo, delle sue qualità buone o cattive, delle sue attitudini e delle sue inettitudini (attitudine romantica e inettitudine plastica del russo, attitudine plastica e inettitudine romantica dell'italiano), delle sue possibilità e delle sue impossibilita, del suo lato positivo e del suo lato negativo. Nel film tratto dalla vita di Pasteur, vediamo trenta mugichi che all'oscura e lontanissima voce di una cura antirabbica, muovono dal fondo della Russia e vengono a Parigi a of frirsi in esperimento. Questa testimonianza di cieca fede nella scienza, spiega in parte l'adesione del russo al comunismo, con siderato questo non come fatto economico, ma come espressione suprema del laicismo e dell'enciclopedismo, portati entrambi alle loro conseguenze estreme di idolatria della scien za. La scienza per noi è pura necessità razionale, per il russo diventa fiaba e leggenda. Era il tocco di una giornata d'agosto. Tornavamo l'amico Minotti e io dall'aver esplorato ai piedi del Circeo la grotta del la maga. La terra fumava, il mare era una nappa di metallo in fusione. Traversata porta Napoli, fatto il nostro ingresso nel regno di Pan (solo di qua da porta Napoli si «scopre» che Pan significa Tutto) ci fermammo per dare cibo al corpo Abituati al pranzo serale, alla tavola scintillante di cristalli < d'argento sotto la luce artificiale — qui il pranzo torna alla schiettezza e all'ora giusta del praudium, e prende luce dal cuore stesso del giorno. Una baracca su palafitte sorge dal mare, prolunga singolarmente l'età lacustre. Là saremo al riparo da uomini e belve. Questa baracca alimentare reg ge con disinvoltura un nome pieno di responsabilità: lo Sco gito incantato. C'inerpichiamo sulla torretta che, ritta su quattro pali più alti, domina la costruzione preistorica. Siamo tri toni a banchetto. Il vento che compone intorno a noi una ruota ineffabile, ci rivela i più riposti segreti eolii, le più miste riose essenze dell'aria. E' un vento che di tanto in tanto si lascia vedere, brilla con brevi lampi d'argento. Qui siamo al di la di ogni determinazione di temperatura : caldo e freddo so no voci senza significato. Sotto di noi, lontano, due piccoli anfibi umani, poi quattro, dieci, innumerabili (li produce il mare spontaneamente e la luce) giocano nell'acqua, si tuffano, ci chiamano; e loro voci piccolissime, puntute, ci trafiggono come spilli. Del vino profumato di meriggio e di donna, bevuto sulla torretta dello Scoglio incantato, scoprimmo appena fuori di Terracina la pianta generatrice. I vigneti di questo illustre moscato sono stesi sul mite pendio della riva, toccano il mare quasi, onde appena una leggera siepe di rompivento li separa. Vigneti salati. Ero per dire « salaci »... La vicinanza del mare, come per la carne dei normanni pré-salés, è forse cagione diretta della spiccata sapidità di questo vino, della sua « intelligenza », del suo atticismo? Il mare è perduto, ma indi a poco troviamo un lago : il lag.o di Fondi. Uno degli « occhi della terra » più belli che io conosca, più limpidi e azzurri. Se continuiamo questo viaggio per la sua china naturale, arriver-emo nella terra ove « l'infinito è morto ». Non l'infinito « chiuso » degli dèi e nostro, ma l'infinito artificiale e delle gram¬ cdsBSntgniilrmdLirrmdsmmteL matiche, che usano gli uomini lunari di là dalle Alpi fino al circolo polare. L'infinito, che tanto danno ha procurato e procura all'umanità (anche il socialismo è una delle Inule forine d'infinito, e cosi pure l'impressionismo) le popolazioni della Basilicata, della Calabria, della Sicilia, della Puglia non solo !o negano come idea, ma lo rifiutano come forma del linguaggio. A Catanzaro gli sostituiscono una preposizione secondaria introdotta da mu, a Reggio da ini. Dicono: Annu raggiuni mu li chiamami ciuccili : « 1 Tanno ragione che ti chiamano ciuco ■•>. Al nome di Fondi, brilla in me il nome di uno dei figli più degni di questa terra: il poeta Libero de Libero, il mio amico in forma di agnellino bruno, ricciuto e miope. Quanti modi ri sono di amare la patria? Non dimentichiamo quello espresso da Giraudoux in Siegfried et le limousini l'amore mercè dei grandi morti. E' notte : sulla terra dormono le cose vive, e nei cimiteri Pasteur e Debussy, Proust e Claude Monet... Questo modo di amare la patria anche per i grandi uomini più vicini a noi e che abbiamo conosciuti in vita, io lo sento più che mai da quando nella terra d'Agrigento riposa la spoglia di Luigi Pirandello. D'aver letto sopra una tomba di San Miniato il nome del « povero » Leoncavallo, quale incrementò ne venne alla mia idea « Italia » ? Lenti pedali d'organo, rullo prolungalo di tamburi, squilli che si rispondono. Tra le fessure amo udire nella mia terra un canto più segreto di poesia, la voce d'un cuore inquieto, un'anima che pronuncia parole chiuse. Mancavano poeti che portassero anche a noi le voci dei cicli più lontani. De Libero è una rli queste voci nuove. Araldo di un paradiso celato. Annunciatore della divina ambiguità della poesia. 11 suo canto è una pianta, è il fiore di questa terra meridiana : E nn rivedo antichi i numi, lunghe città rli pplve, prenci rli vÌKnr?; e mille luci d'arancio vi Tanno piorno. Per bocca di lui, le silvestri divinità locali lanciano il richia¬ mo a coloro che, uomini o donne, hanno, come l'Arianna di Nietzsche, orecchio piccolo e udito fine : « L'estate succhia alle radici il miele. I paesaggi sono caduti dal cielo. Come uccelli dormono i frutti. L'eco si intrica al richiamo marino. E' caduta la stagione lunare. Nel mio guanciale la lua voce ha fallo il nido ». Un Rimbaud nostro e che il dèmone ha lasciato in pace. Ma eguale a lui per dolcezza di nostalgie, per alte meditazioni, per lunghezza di sguardo. C'era in Rimbaud come uno stridore di ambizioni metallurgiche, il vento della retorica socialista. 11 suo animo stava in ballottaggio tra Apollo e il dèmone dell'Industria, Nel nostro poeta meridiano, nella poesia di De Libero i contrasti « fine secolo » si sono placati. La vanità del progresso e passata. Traccia non è rimasta se non di spume, di onde, di alghe. La poesia si è slaccala dal dramma quotidiano, ha ritrovato la « sua » immortalità. Alberto Savinio d