PONTE SUL MAREB di Enrico Emanuelli

PONTE SUL MAREB PONTE SUL MAREB Qualcuno vide negli ultimi giorni di settembre da quelle parti, in cui l'antico confine era segnato dalle acque schiumose e dal greto di sabbia del Mareb, gli armati abissini aggirarsi con un andirivieni famelico e sospettoso. Nella sfibrante calura del pomeriggio comparivano sulla riva opposta, tra le macchie di verde che le pioggie da poco terminate avevano fatto lucido e vibrante, spiavano come cacciatori alla posta, nell'ombra silenziosa dei primi boschetti d'acacie spinose, dai tronchi magri e contorti; di notlc invece, restavano invisibili, celando con cura i fuochi di bivacco, e soltanto un'eco infingarda tramandava, ad intervalli, qualcosa delle loro danze e delle loro canzoni di guerra. Il filo telegrafico, che dall'Asinara andava sino ad Adua, teso come simbolo sopra una regione quasi deserta e di pochi traffici, in quei giorni era stato tagliato: non si sapeva dove, ma si sapeva da chi. Oramai quegli esili pali che sostenevano quell'unico ed inutile filo sembravano dire che non altro contatto, se non quello del combattimento, era possibile con coloro che stavano dall'altra parte. Ma quello scorrazzare subdolo, silenzioso del nemico, e le comunicazioni interrotte non mettevano termine al lungo e paziente indugio. I soldati e gli operai, incanalati attraverso Adi Tigri ed Adi Quala al confine della vecchia colonia, discutevano tutte le sere, alla luce friggente dei />ctromax, per ore ed ore di Ginevra, del Duce, di Adua e di Toselli. Però non sapevano mai giungere ad una conclusione, schivi dal fare nuovi progetti strategici, dopo i molti già fatti e tramontati. Un tempo la strada terminava alle ultime casette di Adi Quala ; dopo diveniva un sentiero per capre e per muli, esposto dapprima allo staffile del sole, zigzagante poi tra funebri euforbie e solenni sicomori, che dall'altipiano scendeva a ripidi sbalzi verso la pianura. Quel sentiero aveva da poco preso aspetto di strada, che avevano tagliato le piante, battuto il fondo, raddolcito le pendenze, costruito le curve; ma, come un binario morto, quella strada campestre finiva davanti al Mareb: e dall'altra parte si vedeva ancora riprendere l'antico sentiero. Che si potesse passare a guado il Mareb, non era nemmeno da pensarci. Quell'acqua che dura tre mesi all'anno pareva si sfogasse del poco tempo con una vivace corrente che avrebbe trascinato uomini e muli chi sa dove ; se anche avessero poi resistito a quella, la sabbia, che faceva cedevole il fondo, li avrebbe impantanati nel mezzo. Per questo, i più dicevano essere ancora lontano il giorno in cui sarebbe cominciata l'avventura: l'Africa si dimostrava su! serio la terra della pazienza. Invece, il due di ottobre, sfolgorante come un pensiero che sorge improvviso dopo giorni e giorni d'inutili arzigogolamenti, dal Comando venne l'ordine. II solito, disadorno foglietto; ma in alto, questa volta, era scritto : « Oggetto : offensiva ». Calò quell'ultima notte d'attesa soffice e fredda, dopo una giornata afosa che aveva sommerso i pochi chilometri della nuova strada sotto una stagnante cortina di polvere nera che s'appiccicava alla pelle trasfigurando i volti. Per tutto il pomeriggio, quei luoghi avevano visto sfilare soldati ed ascari : la vallata andava riempiendosi di un inusitato brusìo, di rumori cari alle orecchie dei soldati e di improvvisi rombi di macchine che duravano a lungo, come se l'aria non li avesse voluti disperdere. Le acque del Mareb scendevano da ignote montagne per andare a sconosciute foci, celate forse in remoti pantani di terre marcie e d'erbe fradice. Ma un aspetto solo aveva il fiume, e quello solamente i soldati volevano conoscere, quasi non avesse dovuto — più a monte e pù a valle di quel tratto che formava l'imbocco del guado — averne altri. Il buio della vicina notte disegnava immani sagome di boschi che parevano adagiati in un antico letargo, vivificato appena dal respiro delle acque scorrenti ; e quel respiro a poco a poco, quasi diventasse enorme ed assordante, invadeva tutta la piana. Non altro segno di vita: anche le jene.e gli sciacalli, già divenuti familiari compagni notturni, nemmeno più odiosi, erano stati sviati da quell'improvviso irrompere d'uomini e di macchine. Appena fu notte, la strada venne lasciata sgombra ; i reparti si erano buttati sui due lati, sotto i sicomori infreddoliti anch'essi da quella leggera nebbia che il terreno pareva esalasse come un sudore maligno. Passarono allora, in quel buiore percorso da una continua vibrazione di sguardi eccitati, i pontieri del Genio trascinando strani ordigni^ lunghe travi squadrate, bulloni ciclopici, in un frastuono di ferraglia e di scarpe chiodate. — Mettono il ponte. — Avanzeremo fra poche ore. — trt se l'acqua non lo porta vlsFvlltssbtlttctidPqmrrlltlqblmtfctaviatstttscclnLGl0ndnpctèbplcnlqnpcdbsgvncsdadg1 I via prima che sia attraccato su l'altra riva. — Ce la faranno-. Li ho visti sul Ticino, una volta. I soldati dcll'840 e del 70° Fanteria, che proteggono i lavori del Genio, parlano tra di loro a bassa voce, ravvolti nelle mantelline, curiosi ed attenti. La riva opposta è deserta, silenziosa : nemmeno l'eco, questa sera, porta l'annuncio dei balli e dei canti di guerra. Ora. tra lo sciacquìo contro le due alle e sabbiose sponde, si odono i tonfi dei pali ed i colpi dei martelli ; poi un nuovo sciabordare, come un improvviso mutamento di suono, che ogni ostacolo infisso nella melma del fiume devia e contorce la- corrente. Pare d'essere in un cantiere, tra quell'apparentemente confuso, ma metodico correre dei lavoranti. I bulloni stridono nel serrarsi contro il ferro e contro il legno; le corde si tendono, sollevando spruzzi d'acqua, nel trattenere la prima debole intelaiatura di travi. Di quando in quando, un fascio di luce rimbalza sull'acqua, ora fatta gialla e sporca, illumina fuggevolmente lo scenario irreale e caotico, assente e lontano da quel febbrile lavoro che in esso si compie; ritornano poi quelle tenebre caliginose della notlc africana, che sembrano dare voce misteriosa ad ogni cosa inanimata. I soldati del Genio avanzano metro per metro, attaccati come ragni alle travi che si sporgono sempre più in avanti, aggrappati ai sostegni ed alle traverse come ladri alla scalata d'un muragliene. I tonfi si susseguono, eccitano al riso, la corrente trascina qualche palo con sè, lo sbatte contro la riva, lo inghiottc là dove scompare nella cupola di verde e di nero. La mezzanotte non è lontana. Nessuno può e vuoi dormire. Gli eritrei attorno ai loro piccoli fuochi, a gruppetti di quattro 0 cinque, si narrano storie che non hanno mai fine; gli uomini della « Gavinana » commentano quel nascere del ponte, impazienti come davanti ad un curioso esperimento. Poi, inattesa, corre la voce che il ponte è terminato. Infatti tacciono i battiti dei martelli, non s'ode più lo scricchiolìo delle travi ; la notte sembra dominare ancora ogni cosa. Gli uomini, presi dalla smania di vedere, ondeggiano nell'aria fredda ed immobile. Ora quei trcnlacinque metri, che sono tra l'ima e l'altra riva, si possono percorrere di corsa, con pochi passi. Una delle bande dell'altipiano, quella del «Serac», si è già raccolta all'imbocco del guado. Gli ascari stanno fermi, davanti al ponte, guardano l'acqua che scorro via, che fa gorghi veloci attorno ai pali. Hanno tolto lo straccctlo di tela che nei giorni passati riparava il caricatore dalla polvere, hanno i fucili sulla spalla ed il tarbusc calcato bene sulla testa dai capelli corti e riccioluti. Avanzano. Nell'aria si espande una loro canzone di guerra, dal ritornello semplice e monotono, insidioso come un pensiero fisso. Il riflettore accende barbagli sulle canne dei fucili e li accompagna sulla riva opposta, li guida in quei primi intricati boschi di acacie. Poi, di colpo, con un rombo assordante, si muovono i carri veloci. Scendono a scatti, tritando la terra, giù per l'impraticabile china ; sostano un attimo davanti all'imbocco del ponte, passano, ed i cingoli di ferro sul legno delle travi, sollevano un'eco che si propaga da bosco a bosco come dentro una lunga ed oscura galleria. E già si preparavano i fanti della « Gavinana » quando sopraggiunse l'alba; una di quelle albe dell'altipiano, scendente dai monti pigra ed incerta, fredda ed umida. #*# Di quel ponte, nato nella prima notte, ben poco oggi è rimasto. Qualche trave si è piegata, qualche altra è stata sradicata. Le funi che trattenevano l'intelaiatura non ci sono più. E' diventato già una rovina che si ammira in silenzio. Afa a pochi metri, verso la montagna, poggiato sopra due maestosi piloni di cemento, ora è un altro ponte, dalla solida armatura di ferro, dipinta in rosso minio, che fa una macchia gaia nel verde bruciato che è d'attorno. Lo hanno portato dall'Italia, pezzo per pezzo, smontato, come un gigantesco giocattolo ; e lo hanno ricostruito qui, serrando ed inchiavardando i bulloni1 con la fiamma ossidrica e con i magli. E' bello; ma è un ponte « qualunque ». Enrico Emanuelli

Persone citate: Duce, Toselli

Luoghi citati: Adua, Africa, Ginevra, Italia