Le basi industrialidi un problema sportivo di Giuseppe Ambrosini

Le basi industrialidi un problema sportivo IL GIUOCO DI SQUADRA HELIE CORSE CICLISTICHE Le basi industrialidi un problema sportivo La Federazione ciclistica si è accorta due mesi fa di un fatto che durava da vent'anni: cioè che le nostre corse sono avvelenate dal « gerarchismo » — detto, con bella parola, giuoco di squadra — e ha deciso di vietarlo in avvenire. Attorno a questa levata ufficiale di scudi, decisa nella forma ma tuttora nebulosa nella sostanza s'è subito fatto un gran rumore'di discussioni e d'interviste, che, alla fine, non mi pare abbia diminuito la confusione d'idee in proposito. Eppure non dovrebbe essere molto difficile veder chiaro in questa faccenda, almeno da parte di chi sa e ha la franchezza di dire che cosa sono, a chi e a che cosa servono le grandi corse ciclistiche; se, cioè, non si dimenticano le ragioni commerciali che innervano e insanguano l'attività ciclistica. Procediamo, dunque, dalla base, per costruzione logica. A) Le grandi corse vivono solo in quanto c'è un'industria che, considerandole il miylior mezzo pubblicitario per i proprii prodotti, paga i corridori e ne fa le spese. Dal rapporto fra l'interessamento dell'industria alle corse e il successo, anzi, la vita di queste — dimostrabile in ogni epoca e In ogni Paese — discende il rapporto fra l'interesse e le vedute degli industriali e la natura delle corse, e, più precisamente, la dipendenza di questa da quelle. Cioè, dato che non esiste l'industriale che spende dei capitali per corse regolate da principii contrari al suo interesse, le corse sono quello che le Case intendono che siano. Sarci desideroso mi si dimostrasse, a fatti, non a chiacchiere, che sono in errore. Dato, dunque, che le grandi corse sono fatte, in sostanza, dagli industriali e per gli industriali, bisogna riconoscere che: B) / criteri industriali prevalgono e non possono non prevalere a determinare la quantità e la qualità delle corse. Lasciamo, per il momento, la prima, che non è in uiscussione, e vediamo la seconda. Chi ha vissuto il decennio ciclistico prebellico può dire che allora, tolto, forse, il Giro d'Italia, non esisteva gerarchismo nè giuoco di squadra. Ed eràn tempi in cui l'industria si faceva, ancora più che oggi, rappresentare in campo agonistico. Ciò significa che, quando non ci sono, ragioni che li obblighino, gli industriali non hanno preconcetti contro la corsa individuale. Perchè poi le cose cambiarono? Precisare i fatti che produssero questo cambiamento vuol dire, a mio avviso, individuare le origini e le cause del male e poter indicare i mezzi per guarirlo. Il fatto principale è stato: C) Lia nuova formula di campionato in sette prove, introdotta nel 1919, ha parificato, agli effetti della condotta di gara, della formazione e del funzionamento delle squadre, la competizione per il titolo — che assorbiva allora i 7/0 e oggi assorbe i 5/7 delle prove in liìiea — a una corsa a tappe. Dal giorno In cui, per un criterio sportivo teoricamente bellissimo, la maglia tricolore, mèta suprema del corridore e dell'industriale, si disputa in più prove, questi paga fior di biglietti da mille il suo miglior corridore perchè tende a vincere con esso il campionato. E, per vincerlo, bisogna che egli accumuli più punti possibili in ogni prova. E' logico, quindi, che il direttore sportivo, in principio d'anno, anzi, al momento di formare la squadra, fissi sull'uomo prescelto le sue preferenze, nella quasi sicurezza che quello sarà l'uomo il quale, alla somma delle prove, difenderà meglio 1 suol colori, e metta gli altri a servirlo. Non si ammette, forse questo ragionamento per il Giro d'Italia? Perchè non si dovrebbe ammettere per il campionato... a tappe? Si può pretendere che una Casa lasci libertà al suo più modesto corridore di compromettere con colpi di testa nelle prime prove di campionato le probabilità dell'uomo ritenuto migliore per tutto il complesso di prove? O, in seguito, quando quest'uomo sarà fra i meglio classificati? E se, contrariamente alle previsioni, un altro sarà il migliore, cambierà il capo, ma ce ne sarà sempre uno. E come potrebbe un direttore sportivo permettere il bel gesto di indipendenza col quale il gregario, vinta o no la corsa, ha tatto ►.ridere il titolo al capo ? E chi, in coscienza, può rimproverare all'industriale di non mandar alla rovina la sua azienda per il gusto di voler fare dello sport puro? A questo punto mi si rinfaccerà: « Ma lei, che è sempre stato contrario al servilismo e favorevole alla libertà d'azione del corridore, ora viene a dar ragione agli industriali, che sono di parere opposto! ». Gli è che gli industriali fanno quello che l'ordinamento ciclistico attuale impone loro di fare. La colpa non sta dalla parte degli industriali (non parlo di quelli, simpaticissimi e benemeriti, i quali, con poco, mettono su una squadretta senza pretese, che fa sufficiente pubblicità anche col solo comportamento sbarazzino, salvo azzeccare... qualche colpo grosso di sorpresa); la colpa — l'ho detto altre volte e non mi stancherò di ripeterlo — sta nel fatto incontrovertibile che il campionato è una vera e propria corsa a tappe. Ragione per cui: D) Occorre anzitutto ritornare al campionato in prova unica. Questo ritorno all'antico ordinamento favorirà indubbiamente il ritorno all'antico spirito degli industriali e dei corridori. Ma — dato che il divismo è stato facilitato anche dalla presenza dalla valorizzazione e dalla esaltazione esagerata di uomini d'eccezione che si sono succeduti sulla scena ciclistica — occorre anche: E) Una profonda riforma spirituale in quanti concorrono a determinare l'atmosfera delle corse. L'industriale deve convincersi che è miglior dimostrazione della bontà dei suoi prodotti il vincere con uomini diversi che sempre con 10 stesso, e il creare più che lo sfruttare i campioni. La stampa deve appoggiare questa tesi ed essere concorde nel suscitare simpatie verso i più generosi combattenti e, lungi dall'eliminare l'elemento intelligenza dal campo agonistico, non deve esaltare il freddo, abituale calcolo sfruttatore come esempio di tattica, né adottare la teoria, distruttrice dell'essenza dello sport, che quello che solo conta, è vincere. La folla deve guarire dal tifo per 11 campionismo e apprezzare più l'ardimento di chi vuole il suo posto al sole che l'egoismo e la manovra sfruttatrice di chi vuol mantenerlo a spese altrui. Insomma, tutti devono pensare che il corridore ideale — quello che nello stesso tempo meglio difende i colori della sua marca, che più valorizza la propria opera e meglio serve la causa dello sport — è quello che corre per sé e da sé. Per ottenere ciò, se non si vuol distogliere l'industria dalle corse (il che sarebbe la loro morte) occorre coordinare gli interessi industriali con le idealità sportive, oggi in contrasto, purificando contemporaneamente ed elevando la concezione dell'agonistica ciclistica, oggi corrotta da un ventennio di divismo e servilismo. E' inutile indagare che cosa è il giuoco di squadra; è inutile cercare di differenziare ciò che in esso è sportivo e ciò che non lo è, ciò che si può proibire e ciò che non si può. Solo il giorno in cui all'industriale italiano sarà indifferente — come lo è all'industriale francese — vincere una corsa in linea con questo o con quel corridore; in cui nei contratti (e, In regime corporativo, ciò non è difficile ottenere, come ha dimostrato Pavesi nel suo tanto buono quanto poco conosciuto progetto) non ci sarà logica e necessità di gerarchia, obbligo di schiavitù e privilegio di comando; in cui sarà permesso a tutti 1 corridori di avere una loro personalità; in cui, insomma, sarà avvenuta questa riforma di regolamento e di spirito, di stampa e di folla, si potrà sperare di guarire il male che altligge il ciclismo italiano. Per quest'anno, dunque, a confermata formula di campionato e a contratti fatti, si può al massimo attendere che la buona volontà. della Federazione riesca a far scomparire le formo più sfacciate ed antipatiche del deprecato servilismo. Intanto, purtroppo, all'apertura della stagione, organizzatori, industriali, corridori, giornalisti, cioè attori e spettatori, interessati e giudici, si trovano di fronte a un divieto di massima che non sanno come applicare. Giuseppe Ambrosini

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