Un episodio di patologia sociale di Francesco Argenta

Un episodio di patologia sociale BONIFICA. UMANA. Un episodio di patologia sociale Dieci anni in stato di automatismo ~ Un'anima ed una personalità attraverso il lavoro « Un ex recluso morto da eroe AVERSA, gennaio. Il caso dì Salvatore Vincenti, il quale, dopo quattordici anni di permanenza in questo manicomio è tornato, risanato e redento, nella stéssa città che era stata teatro della sua gesta, aprendovi un opificio dove è esempio di operosità e di rettitudine, ha, da più di due anni, il controllo ed il collaudo dell'aggregato sociale. Se egli fosse vissuto agli Stati Uniti, all'epoca della sua vita scellerata e turbinosa, la natura e l'efferatezza delle imprese che si riprometteva di compiere e delle quali riuscì a dare un saggio tristissimo, l'avrebbero collocato fra gli astri della criminalità della repubblica stellata, facendolo classificare dalla polizia e dall'opinione pubblica come il « nemico ». 1 ». Figuratevi: a Caltaglrone, dove viveva colla famiglia, il Vincenti si era associato ad un amico, di qualche anno maggiore di lui, Giuseppe Cavallo, per praticare il bene attraverso la strage: sopprimere le persone inutili alla società per accrescere il benessere di quelle utili e fattive. Per raggiungere 10 scopo, il Vincenti ed il suo compare avevano fondato una sètta, che si denominava « Sètta della Face-» ma che poteva, a seconda dei casi, denominarsi della giustizia, del bene, dell'uguaglianza, della vendetta, del sangue e della morte. Tutto era stato previsto nelle tavole statutarie; tutte le regole escogitabili per assicurare 11 funzionamento dell'organizzazione avevano trovato nei dieci articoli dello statuto una lapidaria codificazione. Perchè la denominazione della Face f « Perchè, nello studio di una questione non si deve sprecare se non il tempo che basta ad una candela lunga sette centimetri e di grossezza regolare per consumarsi. Se al consiglio dei capi — e i capi erano il Vincenti ed il Cavallo, i quali, dopo avere studiato profondamente le cause dei sofferenti, dei derelitti, insomma dei poveri, dovevano decidere e condannare^anche con la morte, i veri colpevoli — non basta questo tempo, si rimanderà tutto alla seduta successiva, la quale sarà regolata dal consumo di una candela lunga il doppio e, secondo i casi, il triplo: e basta. Dopo questo' tempo si passerà ad una seduta di tre candele lunghe ciascuna trenta centimetri ». Come nei romanzi gialli Per essere ammessi a far parte della sètta, gli aspiranti dovevano sottoscrivere col proprio sangue una pergamena e prestare il giuramento di rito; la formula, da pronunciarsi sulle armi scelte dai capi e sul Crocifisso, era la seguente: « Giuro di essere fedele ai capi di questa sètta, i quali leggono, obbediscono e stanno fedeli al regolamento affidato loro dall'Invisibile della terra, dell'aria e del mare; giuro inoltre di obbedire ciecamente agli ordini che partiranno dal Seggio e di non guardare in viso la persona che ferisco o magari uccido, sia anche mio padre ». E così di seguito, per gli altri articoli dello statuto, una sistematica successione di trovate estrose e truculente (la pena di morte per gli affiliati venuti meno al giuramento; la designazione del giustiziere affidata alla sorte; un distintivo, impresso con un timbro infuocato, per tutti gli adepti; la scrittura a specchio, così frequente ad essere usata fra taluni malati di mente, per indicare i capi della sètta) di fronte alle quali scolorirebbe la inventiva del più indiavolato tessitore di romanzi gialli. Senonchè i capi della sètta, come era del resto codificato nello statuto, non miravano a fare della letteratura. «Facendo drammi e non bozzetti, denari pioveranno e la sètta andrà avanti » era scritto all'art. 7. Ed il dramma si ebbe, poche settimane dopo la redazione delle tavole statutarie, con l'Uccisione dell'ing. Vincenzo Reale, reggente l'Esattoria di Caltagirone, il quale fu trucidato selvaggiamente mentre ai apprestava a lasciare l'ufficio e depredato delle cinquemila lire che aveva con sè e che costituivano gli incassi della giornata. Poiché il Vincenti era solito frequentare gli uffici dell'Esattoria, per abboccarsi col Cavallo, che vi lavorava come contabile, e poiché nelle ore in cui fu commesso il delitto egli era stato visto nei pressi dell'Esattoria, i primi sospetti si addensarono sopra di lui. Egli, infatti, era stato l'esecutore materiale del crimine, ma negli interrogatori che conseguirono all'arresto, seguendo in cleitccrsvrlseeMdclasI '! ■ I ciò la traccia comune a tutti ì delinquenti consci dei loro malefici e delle conseguenze a cui vanno incontro, egli si collocò in uno stato di resistenza autodifensiva, accompagnando le proteste di innocenza con, tutta una schermaglia rivolta alla ricerca di un alibi. Fu solo quando si riconobbe perduto, vale a dire quando il Cavallo, arrestato a sua volta, confessò il delitto, spiegando che « non vi era stata titubanza al pensiero della uccisione del Reale, poiché questi, essendo un paralitico, era inutile e d'impaccio alla famiglia ed all'ufficio-», che il Vincenti capitolò. Ma nel confessare, come accade d'ordinario nelle forme di delinquenza associata, egli obbedì ancora alle leggi comuni della psicologia criminale, rompendo i ponti con la sètta alla quale era avvinto, e provvedendo esclusivamente alla propria sorte. Non più di quattro passi L'incubo di una lunga suggestione, operata su di lui dagli altri correi: ecco la tesi difensiva che il Vincenti prospettò dopo avere reso la confessione. Ma in questa schermaglia non durò a lungo. Il delitto, con tutte le sue vicende, aveva operato su di lui come un trauma, e la personalità del Vincenti, che si era conservata integra nelle fasi iniziali dell'istruttoria, non resse ulteriormente all'urto di tanto dinamismo ideo-emotivo e di tante logoranti situazioni psicologiche e si spezzò, sdrucciolando fatalmente nella pazzia. Furiosus ipso furore punitur: ammonivano gli antichi. E la verità di questa legge, secondo la quale la pazzia, come è causa sovente di grandi delitti, egualmente dei grandi delitti rappresenta spesso l'epilogo espiatorio imposto dalla natura, emerse nel caso del Vincenti con una drammaticità senza pari. Dieci anni durò in lui la psicopatia, a sindrome stuporosa, conseguita alla rottura dell'equilibrio psichico. Il disgraziato — e non contava allora che 18 anni — cominciò ad intorpidirsi nell'atti-vita generale dell'organismo percadere poscia nel tramonto di ogni psichica manifestazione. Ma lasciamo la parola al prof. Saporito che, studiando il singolare caso, ne fissò allora, con rigore di scienziato, gli aspetti:«Nel Vincenti non vi è più nulladì spontaneo e di volitivo, ma tut-ta la motilità è diventata stereo-tipica. Egli ha assunto un atteg-giumento fisso del corpo, che non abbandona mai, per qualsiasi motivo. Col tronco leggermente inclinato, col capo flesso in avanti ed a destra, come di persona dinoccolata, gli arti superiori rac- colti sul tronco, gli antibracci flessi, ad angolo retto, sulle braccia; le mani, conformate ad artìgli, poggianti sul petto. Egli ha bisoI gno di essere sospìnto, di chi lo svésta e lo vesta, senza di che non 'seguirebbe, neppure per passiva ! imitazione, come accade in molti ■ deboli di mente, la routine della I vita, pur ridotta alle più semplici espressioni». E la mobilità? «Ilcammino — soggiunge il prof. Saporìto — rappresenta una dcllepiù singolari caratteristiche delsoggetto. Esso si compie con unritmo costante e continuo: quat- ] i ^ -, \ I ] ! j i \ i i ' tro passi e non più, cadenzati e misurati: poi un giro della persona, sempre dal medesimo lato e via da capo, da mane a sera, senza posa, nè per stanchezza, nè per bisogno di compiere cosa diversa. Se passivamente fermato, il Vincenti resta, limitatamente alla durata dell'azione che lo ferma: cessata questa, egli ripiglia automaticamente le sue ondulazioni de«ambulutorie ». Risanato Così per dieci anni, senza soluzione di continuo, senza spiragli di luce. Una traccia drammaticamente espressiva di questo metodico e folle cammino, il Vincenti ha lasciato sul pavimento della propria cella: una specie di avvallamento, derivato dal logorìo dell'impiantito lungo la linea corrispondente alla direzione in cui egli compiva i suoi quattro passi durante le dieci o dodici ore del giorno. Dopo dieci anni, alfine, la luce! Attirate attraverso cure assidue e complesse — e l'attrezzatura ospedaliera del manicomio è perfetta — le funzioni che un gelo improvviso aveva come paralizzato o ridotto all'espressione di semplici automatismi, il Vincenti potè lasciare la cella ed essere avviato al lavoro. Ed attraverso il lavoro, il risanamento, seppure conseguito a piccole tappe, fu rapido e fu completo: non fu cioè, soltanto risanamento fisico, ma risanamento profondamente morale. All'individuo che itagli anni della prima giovinezza aveva vissuto nell'atmosfera fosca in cui si elaborano le costruzioni aberranti del pensiero, e che l'intossicazione delle cattive letture aveva fatto vivere come protagonista una sanguinante pagina di patologia sociale, ha potuto — nei quattro anni che ancora trascorse qui — essere data una nuova personalità, essere « fatta » un'anima. Da più di due anni il Vincenti è in libertà, e l'estrosità che un giorno metteva nell'elaborazione dello statuto della sètta, egli mette ora nel suo lavoro di cementista, meritandosi premi dei quali si affretta a dare notizia alla direzione di questo istituto. Il suo caso, così drammatico dal punto di vista clinico e sociale, resta fra i memorabili; associabile, almeno per qualche aspetto, a quello il cui ricordo è eternato nella colonna marmorea innalzata dalla folla dei captivi alla memoria di uno di loro, fulminato da una palla in fronte, il 30 ottobre 1918, sul Piave.« A Bernardino Federici (così è scritto sulla lapide apposta sulla base del monumento) che dall'imo della perdizione — trasse purificata la sua anima — e sul Piave — nell'ora della gloria — terse le proprie colpe -— nel sangue per la Patria versato — l'Istituto che lo rieducò — alla religione del dovere — perchè ricordi — ai compagni di sventura — che per o.ryni fallo della vita — sempre aperta ai volenterosi — è la via della redenzione ». Parole che sono di monito per la folla degli sciagurati che l'Istituto accoglie, ma che costituiscono come un presagio per l'opera che l'Istituto è chiamato ad assolvere. Francesco Argenta

Persone citate: Bernardino Federici, Giuseppe Cavallo, Salvatore Vincenti, Seggio, Vincenzo Reale

Luoghi citati: Aversa, Caltagirone, Stati Uniti