Odore di pane nostro di Renzo Martinelli

Odore di pane nostro Ore di sosta sul fronte tigrino Odore di pane nostro (da uno dei nostri inviati) Fra GASC e SETIT, gennaio. Il pane che tni mangiai quella sera, buono bianco odoroso croccante, era stato sfornato da un termitaio. Tutti certo sapete cosa sono i termitai, e chi li fa e dove si trovano. Sono i monoliti della steppa, i monumenti della boscaglia, i piedistalli sui quali i grandi carnivori e i grandi rapaci, dove il terreno è scoperto, si compiacciono talvolta, specie quando il sole tramonta e tutta la terra visibile assume colori e sensi di grandezza èpica (è impossibile, in quell'ora e in quei luoghi, sentirsi uomini e bestie qualunque) si compiacciono, dicevo, di statuarsi da sè. Una sera, infatti, ci ho visto anche un uomo; un uomo nudo con lancia. E un'altra volta una donna con un figlio per mano < uno al petto. Ma i leoni e gli avvoltoi ci riescono molto meglio. Una trovata geniale I termitai nascono, è noto, dalla specialissima virtù divoratrice e digestiva delle termiti. E' dalla loro perfetta funzionalità fisiologica che, nel giro di pochi mesi, vengon su questi torrioncini, queste cujìolette, questi ermetici tucul da pigmei, duri come il sasso e che per le fermiti costituiscono appunto quel che il tucul è per gli indigeni, l'alveare per le api, la ca sa per noi. Col vantaggio per loro (per le termiti) di essere, all'occorrenza, una dimora commestibile. La rimangiano, la ridigeriscono, e la casa rinasce come prima, meglio di prima. O portentose ingiustizie della Provvidenza! Per gli indigeni dei paesi delle termiti, i termitai servirono sempre a molti usi, oltre quello che ho detto, In terra di ladri, Etiopia e suoi immediati dintorni, furono luoghi di scolta contro i razziatori; in paese pagano are per i sacrifici; e segni terminali di campi lavorati, e «uffici telegrafici» dove e quando soltanto al fuoco e al fumo può essere affidata la trasmissione di una notizia o di un appello da un villaggio ad un altro, lontani da loro magari diecine e diecine di miglia. Ho conosciuto Meschinità, antico funzionario di questa amministrazione; compito esperto e severo come potrebb'esserlo uno dei nostri più apprezzati direttori provinciali delle PP. e TT. Ma il pane, in un termitaio, non ce lo aveva ancora mai fatto nessuno. I primi sono stati i nostri combattenti che han dovuto cercarsi la vita tra Gasc e Setit, in una improvvisata necessità di nomadismo che non permise loro di portarsi sempre dietro tutte quelle provvidenze logistiche che fanno dell'Esercito italiano uno dei più razionali e confortevoli eserciti della terra, Mi propongo di venire a sapere chi fu precisamente, nome e cognome, quel nostro contadino o artigiano o operaio in mutandine casco e fucile, il quale ebbe per primo la genialissìma in tuizione paesana che da un termitaio si sarebbe potuto fare un forno perfetto. Ormai quest'uso s così generalizzato in tutto il bassopiano dell'ovest, e non so se anche in quello dell'est, da rendere alquanto difficile la ricerca. Ma insisterò. Cose da « cervello bianco » Uopo averlo mangiato, tal pane l'ho visto fare. E ho visto pure come avviene il trapasso da termitaio a forno. Una cosa semplicissima. L'uovo di Colombo. Solo che bisogna averci saputo pensa re la prima volta. Basta aprire a colpi di daga o di piccone una larga breccia nel corpo della co struzione pullulante di termiti sempre indaffarate, e svuotare l'interno più che si può o secondo la capacità che al forno si vuole attribuire. La parte inferiore, pinna; la superiore còncava, tot due canaletti, uno su e uno giù, per il tiraggio. Nient'altro. In quanto alle termiti sarà inutile dire che dopo la prima fiammata, per esse, non è rimasta altra alternativa fuorché quella di scapparsene altrove o di resture lì a far tutt'una cosa morta con la loro perduta dimora e dispensa. I nativi, ormai, ci hanno fatto l'abitudine; e già in qualche villaggio si son provati a fare altrettanto. Ma bisognava vederli, mi dicono, le prime volte. Si toccavano con un dito la fronte e avevano l'aria di dire: « Cose da cervello bianco! ». Perchè- tutti i neri son persuasi (salvo gli abissini) di avere il cervello nerissimo. E quando, la sera, si riaccingevano acrdbacedcmvstrdrcgrctczAcdatqbnmvddumrnvrfupnmcadecesshitflcs a farsi con la dura il solito pane col vecchio sistema del sasso arroventato rinchiuso in una palla di pasta da buttarsi poi sui carboni ardenti, avevano (accie così avvilite da far pena. Ora, però, anche tra i nativi le cose vanno mutando. Tra Barentù e Biaghelu ho incontrato almeno dieci termitai odorosi e fumanti con intorno prosperosi gruppi di massaie nude. La civiltà cammina. Fumava e odorava, tra massaie vestite, anche quello di Padre Anselmo, di là del Gasc, in una contrada tra le più perdute della terra cunama, dove, per credere che, davvero, a un certo punto, apparirà un paese di gente viva è necessario non dico aver fiducia negli uomini, ma addirittura credere in loro come in Dio. Ammetto che, nel mio caso, la cosa era notevolmente più agevole in quanto chi m'aveva dato quell'assicurazione era un altro /rute. « Padre Anselmo? Quel grasso? Ah, lei lo conosce? Sta bene. E' qui, guardi... ». E il cappuccino di Barentù aveva messo il dito sopra una carta dell'Eritrea, in un punto nel quale la località più notevole, in base ai ben noti segni convenzionali, era quella lasciatavi da una mosca. « E in automobile ci si va?». «Credo di sì». Fra credenti, non c'era stato bisogno d'altro. Il « ridottino » S'attraversa il Gasc, si va per un'ora tonda su e giù per sentieri malcerti, un po' nella brussa (pare che si possa dire cosi) e un po' nella boscaglia di dumm, finche, verso sera, mentre s'intravede tra rami la sempre più viva chia rita d'una radura, ecco un gridio festoso venirci incottilo, insieme a un'ondata d'odor di forno. Odor di pan buono, di pane nostro, di pane del mio paese, di pane della mia balia. L'autista ferma di bòtto. Più che l'odore ho l'impressione che lo abbiano colpito le grida. Mi guarda senza parlare. Vuol chiedermi, evidentemente, dove siamo e se convenga ancora andare avanti La cartografia non è il suo forte, e questo continuo ridursi dello spazio tra noi e la linea punteggiata dove, di là, c'è scritto Abis sinia — assottigliamento ch'egli ha seguito, sulla punta del mio indice, coti occhi sempre più attenti e sempre più larghi — ha finito per metterlo in un certo allarme. Gli ritrovo nello sguardo il rimprovero che m'ha fatto a Barentù di non aver messo in macchina almeno un paio di fucili. — Va' là — gli dico — E' casa nostra. Non senti? E fo così col naso. Lo fa anche lui. Ride. S'intenerisce. Anche al suo paese, quando si sforna il pane, se ne accorgono tutti, per un buon mezzo miglio di distanza sottovento. La spiegazione della bella rassicurante sorpresa è a pochi passi di distanza, dietro l'ultimo velame di fronde. Il non creduto paese di Padre Anselmo è qui, lì, sul pendìo d'un gran mucchio di sassi clic vorrebbe darsi arie da collina. Tra i quindici o venti tucul che fanno branco sulla cruda pietraia assediata da sterpi e da pruni più alti d'un uomo, ce n'è uno con una croce in cima, tutta da una parte e con un braccio più corto. Un segno infallibile per riconoscere il « ridoftiiio » della missione cattolica verso la frontiera d'Etiopia. Quello, è l'odor del pane. Oggi, come poi so, i cunama sono in festa perchè la siccità è definitivamente arrivata e sino alle prossime pioggie non c'è più nulla da fare. Si entra nella piena stagione dell'ozio, che è anche quella in cui di solito » cunama si scelgono la sposa e cercano d'ingraziarsela con gesta di varia natura. Una volta, la gesta più lodevole era quella di ammazzare un uomo. O a ci si contenta di abbattere un bue pigliandolo per le corna, come Ursus. Appunto in questo pomeriggio si è fatta la corrida dell'amore, e le urla che ci hanno fermato erano quelle rivolte ad esaltare il valore dei promossi e a schernire i bocciati. Dieci anni Padre Anselmo mi viene incontro, m'abbraccia, m'informa per sommi capi di quel che è successo, m'invita alla sua mensa. Passando davanti al forno si fa dare una pagnotta a bollore e me la offre, quasi come un sacramento. Mi i h ll è if nata fuor d'orario, eccezionalissima. I cunama son diventati ghiottissimi del nostro pane, e Padre Anselmo ne regalerà una pagnottella per ciascuno a festa finita. Cena nel tucul. Padre Anselmo ha una barba che gli fa da tovagliolo. Mi ricorda il nostro primo ncontro d'Africa, otto anni fa, novizi tutti e due. Allora, egli credeva d'esser troppo corpulento per la vita missionaria, e diceva: « Chissà se Dio mi farà la grazia d'esser capace di reggere dieci anni laggiù! ». Ormai, a dieci, glie ne mancano due soli, e non vidi mai uomo, laico o religioso che fosse, servire il Signore con più letizia di Ini. Si parla di pace, di guerra, di religione. Di pace, ad onta di tutto, ce n'è tanta. La guerra passa vicinissima, ma in pantofole, a passo di scimmia. Invisibile, astu Ut, zitta, c'è e non c'è, sempre e mai, secondo comanda la legge debosco. La religione va avanti co-, me può. Qui intorno, per esempiù di cinquecentopio, ci sono convertiti. Notte piena, luna tonda. Gli indìgeni hanno avuto il pane e ssono ritirati nelle loro capanne agustarselo gelosamente. Le jeneurlano tutt'intorno o, se meglio vpiace, ridono. E si va a letto così, in braccioa tanto mondo misterioso, a uscioapcrto, innocenti, sicuri come incasa nostra. II Setti — teoricamente il ncmico - non e più che apockedice ne di chilometri di distanzadal nostro giaciglio. Ma chi ci petisa nemmeno. Sappiamo benissimoche anche gli alberi della riva hanno imparato a sentire e a vedere. Renzo Martinelli.

Persone citate: Abis, Padre Anselmo

Luoghi citati: Africa, Eritrea, Etiopia