Caramba e il suo teatro

Caramba e il suo teatro Caramba e il suo teatro Dal giornalismo bohemien al palcoscenico - Una discussione provocatrice - Operetta, prosa, opera - Quel che gli deve la « Scala » - L'ultimo dispiacere Ad un anno dalla morte, per rievocare degnamente Caramba, vorrei che miracolosamente s'aprisse un velario su una delle tante visioni d'armonie e di colori che ci trasportavano — anche in realtà — nel regno incantato delle meraviglie. Egli ben sapeva che la sua scomparsa avrebbe cancellato tutto questo. Pochi giorni prima che la morte ce lo pcrtasse via, passeggiando e chiacchierando, come si soleva a tarda ora, sotto i platani di via Venti Settembre a Milano, dov'era la sua casa, mi diceva — non senza un velo di malinconia: — Io ho sempre lavorato sulla sabbia. Un colpo di vento, e tutto è spazzato. Non ti par che sia triste ? E sorrideva di quel suo sorriso mesto, in fondo al quale era un non so che di infantile dolcezza. Ma forse, soltanto la sua eccessiva modestia gli faceva dir questo. Che, effettivamente, nemmeno il più violento cataclisma credo che possa- distruggere la feconda opera sua, e sono certo che il suo nome, oggi, domani e sempre, sarà legato alla storia del Teatro Italiano. Una vita di battaglia Noi, è vero, saremo privi del suo futuro, continuamente più giovine del suo presente, ma questo moderno che invecchiava rinnovandosi e modernizzandosi ogni giorno di più, ha lasciato un solco profondo, magistrale, incanceltebile. Noi non vedremo più sui manifesti di suo nome. Ma sotto quel qualsiasi nome che si sostituirà al suo, troveremo ovunque la traccia del suo insegnamento, della sua dottrina, la visione insomma, ammonitrice, della sua passione. Per questa passione, Caramba ha lottato, battagliato, patito, lavorato e vinto, dando ogni pensièro, ogni ora, sacrificando ogni interesse e ogni fatica, offrendo il meglio della sua anima, del suo cuore, del suo cervello al pubblico che lo ripagava con una adorazione calda, con una ammirazione infrenabile. E quando la sua svelta e giovanile figuretta appariva alla ribalta in veste di fatica, per l'insistente applauso, l'ovazione diventava unanime e il suo nome di battaglia, rapido e breve come un'esclamazione, era gridato da migliaia di voci acclamanti. Il Teatro lo ricambiava con lo stesso amore che egli per il Teatro nutriva. Eppure, dal Teatro, Luigi Sapelli, era nato ben lontano. Egli veniva da una famiglia di soldati del vecchio Piemonte Reale. Il padre l'aveva avviato agli studi classici che, alla morte di lui, avevano condotto il giovanissimo Gigi, per vivere, alla partita doppia d'un macinator di farine. Ma quando, ben presto, s'accorse che quella farina per lui non era che vilissima crusca, si buttò di colpo al giornalismo che è, quasi sempre, il primo gradino della scala dell'arte. Erano quelli i tempi scapigliati del Pasquino, del Fischietto e della Luna. Popolati d'una tribù di balenghi, come diceva lui. Erano l tempi dell'ultima gioiosa Bohème, ohe nessuno visse completamente più di lui, tanto che ne portò per tutta la vita le caratteristiche estetiche, come chi conserva gelosamente, ostinatamente un ricordo: cappello a larghe tese, e cravatta svolazzante. Per quale strano destino e per quali strane vicende questo disegnatore caricaturale ed arguto sia asceso dalla fissità grafica del giornale umoristico al grande quadro vivente della scena, ora vedremo. Ma, certo, fino da allora la sua aspirazione segreta e la sua vocazione ardente era questa. E nemmeno ò a dire che egli arrivasse « per aspera ad astra » che, se gli astri eran quelli di poi, allora le asperità si chiamavano chiassosa baldoria. E alla sua città e alle sue antiche amicizie egli rimase sempre fedele tanto che quando — tra una fatica e l'altra e tra l'uno e l'altro allestimento scenico — poteva dire: « domani faccio una corsa a Torino » L suoi occhi si illuminavano di gioia, come se prendesse la rincorsa verso la sua giovinezza lontana. Un viaggio in Russia Ma una volta, anche da quella bohème senti il bisogno di emigrare. E in quattro e quattr'otto parti per la Russia promettendo a un giornale torinese una serie di impressioni e di articoli. Allora, partire così, era molto di moda. E quella moda l'aveva inaugurata un poeta: Cesare Pascarella. Il quale, un giorno, allontanandosi improvvisamente da Roma, aveva inchiodato, per gli amici, sull'uscio dello studio, un cartello sul quale era scritto: * Vado un momento in India e torno .subito »! Caramba non tornò subito, ma, in compenso, nemmeno mandò degli artìcoli. Se li tenne tutti appuntati in tasca, con schizzi da sviluppare, e ne iniziò la pubblicazione al suo arrivo. Fu un grande successo. Ma quel viaggio con contorno di reportage grafico avanti lettera — che, a quei tempi, il redattore viaggiante aveva ancora da nascere — forse segnò il preludio alla vera vocazione di Caramba. Certo, aprendosi con le sue mani questa finestra sul mondo, aveva potuto constatare quanto noi fossimo lontani da quel rivoluzionario movimento russo d'avanguardia del teatro in genere e d'ogni forma di arte in ispecie. E mentre, laggiù, già questo movimento fioriva per dilagare più tardi, attraverso i secessionisti germanici, dappertutto, noi eravamo ancora alla miseria d'una volgare messinscena realistica che s'ornava, per suprema eleganza, d'una palma verdeggiante su un tripode, negli angoli d'un lussuoso salone. L'apostolato di Caramba si sfogava, dopo teatro, al Moìinari o negli altri caffè torinesi, ritrovo notturno di artisti d'ogni genere. E si sfogava con tale impetuoso furore iconoclastico che una sera, Ciro Scognamiglio, napoletanissijmo proprietario di una Compagnia d'operette che aveva iniziato una stagione al Balbo, gli si improvvisò volutamente da contraddittore per vedere dove le idee rivoluzionarie del feroce avversario andavano a finire. Era, in questa discussione che minacciava di far volare in aria tazze e bicchieri, una trappola abilmente tesa dall'astutissimo Don Ciro, speculatore teatrale al cospetto di Dio; sfruttare, 11 per 11, nella città che gli credeva e l'adorava, la vantata abilità di Caramba. Una sera al Molinari. lo Sicché, ad un certo punto, scaltro capocomico esclamò: — Si fa presto a dire. Il difficile è fare. — Dammi da fare, ribattè urlando Caramba, e mi vedrai realizzare quel/che dico. E cosi avvenne. Don Ciro gli affidò su due piedi tutta la messinscena di un'operetta che doveva lanciare, ed era il Rolandino dl Valente, già acclamato autore de I Granatieri. Il ghiaccio era rotto. La strada segnata. Che — durante quelle prove — Caramba, traboccante di silenziosa ma profonda preparazione — cominciò a prendere in mano le redini dello spettacolo, ' occupandosi di tutto e di tutti, insegnando a muoversi, a recitare, a ballare, a cantare, a tirar di scherma, a portare i costumi che non solo aveva disegnato ma fatto eseguire sotto i suoi occhi vigili e attenti. Nasceva in quella sera memorabile il più completo uomo dl teatro che 10 abbia mal conosciuto. Ciro Scognamiglio, da quella sera famosa, prese sottobraccio Caramba e non lo lasciò più per la vita. Da quella fusione fraterna derivarono D'Artaynan e la Gheisa; La Cicala e la formica e 11 Sire di Vergy; Il Duellino e Ma dama Angot e infiniti altri capo-lavori di gusto, di colore e di fan- tasia, anche quando Marchetti prese la successione dl Don Ciro che, arricchito, si ritirava in riposo nella sua villa di Posillipo. Ormai su Caramba s'era posata l'attenzione di tutti, mentre la attenzione di lui già si staccava dall'operetta per rivolgersi al Teatro di prosa. Da questo sguardo fecondo, nacque, al vecchio Gerbino, il Teatro d'arte di Torino, al quale preste dettero con Caramba, Bistolfi, Pastonohi, Calandra, con attori come Giacinta Pezzana, De Sanctis, Dondini. Ma dallo sguardo degli altri, Caramba fu rapito alla sua città e trasportato a Milano. Era il 1906 La Suvini-Zerboni gli aveva allestito la sua prima grande sartoria teatrale. E aveva contemporaneamente creato due mirabili compagnie di operetta: la Città di Milano e la Città di Genova: me raviglie. Caramba aveva trovato definitivamente il suo vasto campo d'azione. Unica sua preoccupazione era dare al pubblico il massimo e superar questo massimo durante lo spettacolo stesso. La sua messin scena si basava su un crescendo di effetti, o di gags come si direb be oggi, che non davano tregua. Egli, che già era chiamato il Mago, agiva sulla scena con la sveltezza di mano dell'illusionista che trae dal cappello le più im pensate sorprese Ecco nastri, ecco piume e fru-scio di sete, morbidezze di velluti, spumeggiare di trine, evanescenze fluttuanti di veli, scintillio di lu-strini. Ecco composizioni che si scom-ponevano e ricomponevano a vi- sta, per rinnovare i colori e glief-fetti del Quadro • - E non era ancora cessato l'intontimento dello spettatore che, di nuovo, la nuova trovata sbalordiva, come se una profusione incessante di bellezza avesse dato infrenabile ala alla sua fantasia per un volo sempre più alto verso l'irraggiungibile. E allora — quando la turbinosa girandola che aveva creato un fi-naie di scoppi e di rami che s'a-privano a ventaglio in cascate splendenti e da ciascuna di queste cascate altre multicolori si sprigionavano, il massimo dei massimi era raggiunto, e il Mago — tra l'urlo delirante del pubblico — appariva beato e ridente al proscenio roteando a saluto il berrettino basco che si intonava al suo nome: Caramba! Il manto blu della Duse Furono quelli gli anni decisa-mente affermativi della carriera di Caramba. Ma prima, durantee dopo quegli anni, tutto 11 teatro nostro era fortunatamente in ma-no sua. Non ci fu spettacolo im- portante e grandioso che non fos-se creato da lui. 'Era l'epoca incul Virginia Relter portava in Ita- lia per la prima volta Madame Sans-Gène, e Andrea Maggi il Ci-rano di Bergerac. Era l'epoca in cui Tina di Lorenzo, dava Romanticismo e La Samaritana, e Ruggeri / Romanzeschi ed Eleonora Duse Francesca e Monna Vanna, e appunto per Monna Vanno chiedeva un manto di un colore che lui solo poteva capire, « il blu dd Lago Maggiore alle quattro del pomeriggio ». Caramba, con la sua infinita pazienza, trovava anche quel blu e lo fissava in quadri di una precisione storica e di una armonia insuperabili. Dopo l'operetta e la prosa e non abbandonandole mai, Caramba si avviava verso la lirica che costituiva la più alta e completa espressione della sua arte. Veramente, alla Scala era arrivato anche, prima di prendervi, con l'Ente Autonomo, fissa di- mora Molti anni fa, vi aveva debutta-1to con un ballo del Pratesi. Porf-|i.™i,o„, ir^ „.,„„..„ J„„.,w bonheur. Ed ho ancora davanti agli occhi il suo originalissimo ìquadro dei porta-fortuna, fatto di ciondoli e di scongiuri in minia-.tura. iMa il massimo teatro nostro volle Caramba interamente suo, Iouando s'iniziò miei nerinrin Hi ri-!tormacKveva òortàreVimes- =?^™r=™i^^ sinseena scaligere di fulguioesem-i, .fronto non era, dati il grande af-jfetto e la grande, ammirazione ;che, fin dall'epoca lcntana della prima torinese della Bohème, il Maestro aveva per lui. Era avve-pio insuperabile a tutti i teatri del mondo. Non dimenticherò mai il dolore che ne eobe. quando seppe che Puccini aveva affidato ad altri la futura Turandot. Non disse nulla, ma considerò come un affronto quello che effettivamente un af- nuto semplicemente questo: Puccini, essendosi l'anno prima, a Parigi, incontrato per combinazione con Brunelleschi, gli aveva parlato del lavoro che stava ultimando. E Brunelleschi, rinomato creatore di stilizzazioni di maschere veneziane, s'era entusiasticamente offerto a disegnargli i figurini. LI per li, Puccini non aveva saputo dirgli di no, e quelle chiacchiere di caffè erano poi diventate un vero e proprio impegno. Ciò crucciava Caramba che, pur sapendo come s'era svolta la faccenda, e quanto il maestro ne fesse pentito, la Turandot scaligera sognava dl farla lui. E poiché anche la Scala, e Toscanini, e Forzano, e il figlio di Puccini, e Ricordi, e Simoni ed io — soprattutto — come autori del libretto si sognava lo stesso sogno di Caramba, fu unanimemente deciso — senza distruggere il vincolo con Brunelleschi, — che la prima edizione fosse affidata completamente a lui. A mezzanotte di Capodanno Ma la sua opera insostituibile non si limitava a creare migliala e migliaia di figurini. Ce n'era un'altra, ben più vasta, delicata, complessa, personalissima, e ap-nunto Derciò -inafferrabile e inimi-lami^ Òue7^ ..u.A- _.?ue5_5Ff-a,-0n!!""a!asubito, non appena la stagione scaligera si chiudeva e già si concretava il cartellone per il prossimo anno. Ogni singolo spettacolo era da lui studiato dall'Insieme al particolare: dalla sua atmosfera alla sua realizzazione spirituale ed estetica. Il vero grande lavora dl Caramba, era questo, che maturava In lui, e pochi sapevano. E allora, dallo scenario all'ai trezzo, dalla parrucca al gioiello. ogni collaboratore "rande o pie-jcoio, pittore o calzolaio, aveva da luì \* istruzione, guida. am-desse più tardi in armonia di spet-tacolo. Nè il pubblico poteva pen- I m0nimenWVerchè" tutto Ti fon-1 ?._pJt,1,c_h?.™!*?. 2 1°" jsare che quando sul manifesto'era scritto «Direttore dell'allestimen-.tcs scenico» auella aualifica d^si- lv.Tkw i. liSSS»lgnava to blocco le sfinite corde ner eolmre nel- tese al suo arco per colpire nel¬ l'infallibile effetto. Una sua strana superstizione era questa: cominciare l'anno 1 ritrovi dove nascevano da discus lstoni e polemiche tante idee e tan |ti progetti. Ma dovunque egli si .......... . nuovo disegnando un figurino se-duto al tavolo d'un caffè. Forse in ricordo dei tempi lontani quan- do la vita artistica; cominciava do-vita artistica c om ine lavapo la mezzanotte in quei notturni trovasse, qualunque invito a riunioni augurali avesse accettato, non arrivava che dieci minuti dopo lo scoccare della mezzanotte, perchè dieci minuti prima stava disegnando il figurino della fortuna, primo degli infiniti della nuova annata feconda di intensità di lavoro. E lavorando fino all'ul-timo per la sua Scala, adorata, in , ... . menti gloria egli doveva morire. 1 Se può esserci un conforto a tanta perdita è questo: che passò idal lavoro alla pace eterna, senza ; conoscere mai decadenza. Dissi ' Caramba diventava ar-,dianzi che Caramba tisicamente d'anno in anno più | giovane perchè il suo presente si , rinnovava dl continuo verso l'av venire. Tutto il suo sforzo infatti fu di camminare sempre coi tem1 pi che egli, tante volte, a gran ; passi aveva preceduto. Giuseppe Adami Caramba e Rovescalli all'epoca della «Città di Milano» (1910).