L'isola strana e il suo dono prezioso

L'isola strana e il suo dono prezioso LR MISSIONE DAINELLI AL TfiNfi L'isola strana e il suo dono prezioso GONDAR, maggio. Anche da Zara Enda Micaèl, il solito sguinzaglìamento dei miei gre. gari; due, Nistri e Minucci, li ho addirittura mandati nuovamente a Bahar Dar, perchè di lì compiessero nuove escursioni nella parte meridionale del bacino del Tana: l'uno nell'Acefèr, l'infamato Acefèr del brigante Babìl, e l'altro nel Densa, che ormai dovrebbe aver sentito la saldezza piena della nostra conquista. Pichi, Cipriani e Grottanelli hanno lavorato nel Deraà con minore raggio d'azione, lo, pur troppo sono stato troppo spesso costretto a non allontanarmi dalle tende. Ma da Zara Enda Micaèl — se anche ho dovuto far qualche rinunzia- — ho potuto scorazzare abbastanza liberamente. Ai piedi del Deraà Una giornata, specialmente, ha rappresentato la più bella e la più degna chiusa ch'io potessi desiderare al mio periplo del Tana. Lunga corsa attraverso le dolci ondulazioni del Deraà, tra campi e macchie d'alberi e grandi distese di alte erbe. Cagnasmàc Eggiugù, con la sua gente, m} seguiva fedelmente. Il mio passaggio era preannunciato: da ogni casa, vicina o lontana che fosse dal sentiero, i paesani erano accorsi, e mi facevano offerte, le solite offerte di polli e d'uova; poi si accodavano al mio seguito. La compagnia andava, cosi crescendo lungo il cammino, anche se taluno, dopo avermi seguito per un certo tratto della via, quasi di corsa, per tenere dietro al passo veloce del muletto, poi si fermava, salutava col braccio levato, e riprendeva il cammino vei'so la sua capanna. Sii e giù, senza un orizzonte veramente lontano, se non qualche vista fugace sopra il Tana quando il sentiero si affacciava a taluna delle brevi vallette calanti verso il lago. Ma, finalmente, si è raggiunto il margine settentrionale del Deraà, dì dove allora la vista spaziava sull'immensità della piana del Fogherà, sino alla parete precipitosa del Beghemedèr ed ai poggi che si levano alle spalle di Ifàg. Ma la stessa immensità uniforme della piana non permetteva dì distinguervi dettagli: se non, nella parte più vicina, qua e là, piccole macchie in mezzo al giallo chiaro delle erbe, piccole- macchie che — a ben guardarle — si vedevano scomporsi e ricomporsi come un brulichìo di microscopici insetti. Erano, invece, le mandrie del Fogherà. E siamo scesi nella piana, ed attraverso ad essa ci siamo diretti verso Occidente — vale a dire verso il Tana — divagando tra il margine del Deraà collinoso ed il corso serpeggiante del Gumarò, ampio, ben affossato e insospettatornente ricco d'acque. E' stata interessante, questa corsa in mezzo alla pianura: più radi, qui, i campi di tièf e di dagussa, e ben più estesi i pascoli di alte erbe. A il l Ancora il lago Tutta la fascia marginale della pianura ai piedi delle colline del Deraà era disseminata di piccoli nuclei di capanne, che avevano caratteri speciali. Decisamente diverse dalle altre capanne, diffuse nella regione. Queste hanno pareti cilindriche fatte di tronchetti d'alberi e di ramaglie, e tetto conico, pure di ramaglie, ricoperte di paglia, terminante con una cuspide ben appuntita. Diametro di parecchi metri, porta rettangolare, struttura interna ben definita e fissa, suppellettile domestica varia ed abbondante. Ma le capanna, — » goggiò; — cfe'io l'idi e visitai lungo il mio cammino nella fascia marginale della piana, erano nettamente differenti: fatte di paglia sopra un tenue scheletro di rametti, emisferiche di forma, con piccola porta arrotondata in alte, con diametro di circa duo imetri e mezzo e altezza ancor minore, senza una evidente struttura interna e con suppellettile domestica incredibilmente scarsa. Tutto, in esse, dimostra la dimora provvisoria, quasi improvvisata. Quando le pioggie, infatti, sono terminate e 2'uolecà comincia a prosciugarsi, dalle prossime colline del Deraà scendono paesani, — non le famiglie intere, — con lo mandrie: e costruiscono i goggiò. Ritornano le pioggie della stagione successiva: paesani e mandrie si spostano verso le colline, abbandonando i goggiò, che la violenza delle acque e l'ardore del sole rapidamente distruggono. E alla prossima stagione asciutta hanno da essere ricostruiti nuovamente. Passavamo lungo i piccoli nuclei di goggiò: donne a macinare dagussa o tièf, reti ad asciugare al sole, — che il Tana è ormai vicino ed anche il Gumarò ha pesce abbondante — pelli di vaccine pronte per essere seccate, tese sul terreno, dopo avere subito quella primitiva concia locale, che non è precisamente profumata d'incenso: è fatta con l'orina delle vuc^ che. Accoglienze festose dei paesani, che ad ogni gruppo di capanne mi davano sempre qualche nuovo seguace. E, via, per la pianura, sempre uguale, sempre livellata, sempre gialla: soltanto dinanzi a noi è apparsa, e si è venuta- poi rapidamente avvicinando, una specie di grande siepe di verde vivo; e sul dinanzi di essa, anche il suolo verdeggiava; e gran, di stormi di anatre volteggiavano basse, per poi prendere terreno, Erano gli indizi del Tana ormai vicino. Ma il Tana, invisibile ancora, fino all'ultimo momento. Vi è, infatti, un grande dicco di basalto che — perfettamente verticale — forma sponda al lago: lo continua, da una parte, un folto di papiri. Questo dicco è la muraglia — vera muraglia naturale — che ci ha nascosto il Tana, finché, raggiuntolo, non vi siamo saliti sopra-, e l'abbiamo veduto lambito direttamente— dall'altra parte — dalle onde spumacchiose del lago, mosse da un- venticello fresco che veniva da Zeghiè. Vi era, esattamente fronteggiante la sponda alla quale ero arrivato, una isola stranissima: lunga lunga, diritta come se fosse stata disegnata con la squadra, e che, tra gli alberi che la ricoprivano, mostrava di essere costituita da una parete rocciosa verticale, dalla riva sino alla linea uniforme della sua allungata sommità. Un solo immenso dicco, infatti, la formava: parallelo a quello lungo la sponda della terra ferma. E alla sua estremità verso Settentrione una alta siepe di papiri e di canneti sembrava collegarla alla pianura presso la foce del Gumarò, si da averne la impressione di una penisola soltanto. Ma la realtà appariva, pur che si osservasse attentamente come i papiri ed i canneti mollemente ondeggiassero secondo il- moto dell'acqua, che fino ad essi si propagava con onde sempre più attenuate. Ne ho avuto rinnovato il ricordo dei maravigliosi « giardini galleggianti » dei laghi del Cashmir. Tana Chircòs La gita all'isola, — Tana Chircòs, una delle più venerate dell'intero lago, — rimarrà indimenticabile nel ricordo. Appena saliti sopra al dicco che fa sponda e sembra debba quasi contener le acque, ci apparve un brulichìo d'uomini sulle rocce bagnate dal rompersi delle onde; e una fila di tanque, ormeggiate pei: la prora acuminata, ondeggiava anch'essa con movimento ritmico e simultaneo. I pochi Ueitò della zona erano stati mobilitati; ma anche numerosi Amhara erano pronti, con la lunga canna, per la voga. Ed imbarcammo, Tre quarti d'ora di navigazione, e Tana Chircòs fu raggiunta alla base del suo gran dicco di basalto. Ripido sentierucolo quasi inciso nella roccia, ed in vetta la chiesa. Una chiesa piccola, in pietose condizioni, di quelle rettangolari ed allungate: la sola forma e le sole dimensioni che la sommità dell'isola può aver permesso. Salimmo, infatti, oltre la chiesa, sulla cresta più elevata, e di lì, soltanto, potemmo constatare la singolarità veramente eccezionale dell'isola di Tana. Il grande diCco; solamente, la costituisce. E' una rupe stretta e lunghissima, che si allunga dritta, regolare, senza deviazioni, senza cambiamenti di spessore, elevata forse cinquanta metri, e che ai due lati precipita sopra il lago. Sulla sua sommità si è quasi costretti a camminare in fila indiana, se si vuole diminuito il pericolo di cadere, con un solo salto, nel Tana. Eppure, tra le fessure della- roccia ha trovato modo di abbarbicarsi la solita vegetazione folta e rigogliosa, senta la quale non potremmo nemmeno ìmaginare la presenza di una chiesa. Dalla cresta- più elevata, però, — ch'è di roccia nuda, la vista spazia dominatrice sopra un orizzonte vastissimo: da una parte, il contrasto tra la vivezza dei dettagli del primo piano, — la bella ingolfatura con la sua cintura di papiri, la estrema frangia verdeggiante della piana, la foce del Gumarò coi suoi meandri incassati e serpeggianti, — e la incertezza dei piani più lontani, — la pianura quasi senza fine del Fogherà, livellata, uniformemente gialla, ed in fondo la parete dell'altipiano del Beghemedèr coi suoi strani spuntoni inverosimili; dall'altra parte, il Tana, immenso, ma del quale si distingue il piccolo cono dell'isola dì Daga, e la grande terrazza, piatta e bassa, dell'isola di Deck, e la tozza piramide di Zeghiè, tutta cupa pel suo denso bosco. Un vaso sacro Sul dinanzi della chiesa mi aspettava il superiore, coi suoi cosci e il seguito dei diaconi, nei pa^ ramenti multicolori delle grandi cerimonie, con croci processionali che sembravano gran ricami d'argento, e con l'annesso immancabile corredo di ombrelli e scacciamosoche. Inchini, omaggi, preghiere propiziatorie; quindi, esposizione della intera suppellettile sacra. Mi sfilarono dinanzi oggetti, per i quali la mia passione e il desiderio di raccoglitore provavano come dei sussulti violenti ed improvvisti. v r o Uno, sopra tutti, perchè mai visto prima e perchè di valore, — non dico intrinseco, — certamente raro: era un recipiente cilindrico, di bronzo, per circa un terzo rotto e mancante, ma che presso l'orlo superiore mostrava una iscrizione in rilievo, in caratteri ignoti alla mia, in verità modesta, conoscenza in materia. Ne domandai: mi fu risposto con una lunga storia confusa, nella quale si passava da Israele fino a Tatari. Vedere, — pur troppo, — e non toccare...; ma- quell'oggetto frammentario mi è rimasto fitto nella mente: mentre scendevo, con un corteggio di cosci, per il senticruolo inciso nella roccia, mentre i vogatori arrancavano in gara rasentando papiri e attraversando campi di ninfee, mentre percorrevo la pianura, dispersa di goggiò e di mandrie e riattraversavo la zona collinosa del Deraà verso il nostro campo. Tanto mi era rimasto fitto nella mente, che poi, il giorno seguente, a Zara Enda- Micaèl, incaricai il Capitano Busi- di parlarne, in veste di diplomatico, con l'amico Cagnasmàc: gli dicesse ch'io desideravo avere, nell'interesse stesso della chiesa e dei casci di Tana Chircòs, quel recipiente vecchio e rotto, senza nessun valore, o, per lo meno, desideravo fame un calco in gesso. Da non pensarsi nemmeno, — rispose il Cagnasmàc, — perchè i cosci di Tana Chircòs a nessun altro oggetto della chiesa erano attaccati come a quello; anzi, era già stata una prova- di devoto omaggio l'avermelo mostrato. Le trattative continuarono: ben inteso, premettendo sempre che, dono che fosse oppure prestito per esame, dovesse comunque essere con la piena volontà dei cascì e non per forza imposta. Il Cagnasmàc sapesse, che non vi era fretta assoluta per soddisfare il mio desiderio di avere, per ragione di studio, il vecchio vaso bronzeo: s'egli per caso fosse riuscito a convincere i cosci anche dopo la mia partenza, avrebbe ben avuto modo di mandarmelo a Gondar. Il giorno della partenza, infatti, si era avvicinato. Ogni tanto mi recavo nel bosco della chiesa vicina per ammirare quel folto rigoglioso di vegetazioni, o, con desiderio ben maggiore, sopra una piccola altura non lontana per rivedere il Tana. Da quell'altura il Deraà declina rapidamente verso il lago, con piccole valli ben incise e interamente imboschite; l'alternare delle piccole valli e dei brevi crestoni sfrangia la riva bellamente; «e, vicine, sono isolette, esse pure boscose, in corteggio pittoresco; poi, la distesa d'acqua, con Dek e Daga lontane, e con Zeghiè appena riconoscibile nel fondo. Specialmente quando tutto s'indora sotto il sole levante o sotto il sole occiduo, visione meraviglìosa veramente, l'ultima che il Tana mi doveva offrire: quella che rimarrà più salda nel ricordo. Gentili quei case! Nel ritorno, infatti, sapevo già di rivedere il Tana solo fugacemente: per le vallette di Mitralià Mariàm, dalle collino dell'ArnòGarnò, poi dalle terrazze alte sulla via di Gondar. Ma visioni solo fugaci: il mio addio al Tana l'ho dato da Zara Enda Macaèl. Sono qui a Gondar, con tre soli dei miei giovani seguaci: gli altri, dispersi intorno al lago. Qui è cominciata l'ultima e grave mia fatica: ordinare ed incassare tutti i materiali raccolti. Ho una immensa tenda come laboratorio, nella quale dirigo da mattina a sera una piccola squadra di lavoratori, nazionali e indigeni. E' tremendo, però, doversene star qui rinchiuso senza rifiato, — anche senza ristoro, perchè sotto la tenda il caldo, spesso, diviene soffocante, — e vedere, pur che mi affacci fuori, le mura pittoresche degli antichi castelli portoghesi ed i ciuffi, d'alberi attorno alle antiche chiese, e sapere che vi sono, attorno a Gondar, le genti più diverse, — Amhara e Falascia, Gamanti e Gioberti, Una ricompensa, però, l'ho avuta. Ero qui appena da tre giorni, quando mi è stato annunciato un visitatore indigeno. Era l'amico Cagnasmàc di Zara, flerissimo di portarmi il vecchio recipiente dei mici desideri, con una lettera- del superiore di Tana Chircòs, che me ne faceva solenne dono. Dono del Tana. \ Giotto Dainelli UN ASPETTO DEI CASTELLI DI GONDAR