Allegra ed Emilia

Allegra ed Emilia Allegra ed Emilia « Questo la inconscia zagaglia barbara... ». Un epicedio ancor più patetico di quello dei napoleonidi potrebbe scriversi su due creature femminili la cui vita forma un brevissimo ma eloquentissimo corollario alla Poetica del romanticismo. Allegra, quella che Byron chiamava my bastarci, ed Emilia, cioè Teresa Viviani, quella che Shelley chiamò Serafino del Cielo, Gloria dell' Universo Stella sopra la Tempesta, Meraviglia, Terrore, Raggio incarnato del grande Splendore, c via dicendo, nelle litanie delYSpipsychidion. Una,- morta a cinque anni di tifo, l'altra di tisj a trentatre. Byron, almeno, non si faceva illusioni su quel demonietto della sua bastardina. «Caro il mio Pappa, » — gli scriveva la bimba dal convento di Bagnacavallo, — « Essendo tempo di Fiera desidererei tanto una visita del mio Pappa, che ho molte voglie da levarmi... ». Già, una lettera non molto lusinghiera — commentava Byron — : vuol vedere il papà perchè le compri dei dolci (to gct some internai ginger: bread). Vera figlia di suo padre, « ostinata come un mulo e ingorda come un avvoltoio », orgogliosa della sua bellezza c conscia del suo rango di figlia, sia pure illegittima, d'un pari d'Inghilterra, al punto che, al suo arrivo al convento, porse le manine alle monache perchè le baciassero, e comandava alle converse di camminarle dietro, come sue serve, Allegra, nonostante la mortificazione dell'educandato e la rapida fine, non è forse più patetica di Perla, la bimba" vezzosa e diabolica della Lettera scarlatta del Hawthorne. « Un vestitino tutto di seta e d'oro » rimase il suo suprema desiderio, e ci piace immaginarcela capricciosamente vestita appunto come Perla, a dar risalto al suo carattere fantastico e all'irregolare passione di cui era stata il' frutto. No, le pie lacrime del Panzini {Corriere della Sera del 13 settembre 1928) non ci sembrano il tributo più appropriato alla piccola Allegra. 11 libretto di Iris Origo {Allegra, Londra, Hogarth Press, 1935) è un'adeguata cronistoria, ma ci sarebbe voluto Hawthorne a darci un ritratto, naturale e insieme metafisico, di Allegra. E per Emilia Viviani ci sarebbe voluto l'autore di Villa Beatrice. Quante volte, leggendo le pagine diligenti, ma non felici di stile e, purtroppo, qua e là zoppicanti in cultura (« la povera Ixion » per « il povero Issione », «Leopardi chiamò Shelley un Titano nella forma di'un Angelo ») dedicate da Enrica Viviani della Robbia alla infelice donna di sua gente {Vita di una donna, Firenze, Sansoni, 1936), ci è capitato d'esclamare : « Ah, Bruno Cicognani, che ar-, gomento per voi ! ». Il Cicognani avrebbe saputo trovare la nota patetica giusta per la vita di questa donna che fu — dice la Viviani della Robbia — « bersaglio perpetuo di dolori e di gramaglie», con una metafora mista degna, tutt'al più,1 dello Shelley peggiore. Byron, almeno —• dicevo — non si faceva illusioni. Lo Shelley se ne faceva troppe. Per dirla con le parole di Emilia: « Senza fallo, egli non è creatura umana, non ha che l'esteriore di umano, ma l'interno è tutto divino ». Per dirla nel linguaggio dei moderni psicologi (E. Carpenter e G. Barnefield, The Psychology of the Poet Shelley, Londra, Alien e Unwin, 1925 ; Herbert Read, In Defenee of Shelley, Londra, Heinemann, 1936), lo Shelley era un narcissista. A quel « l'interno è tutto divino» si sostituisca : «all'interno idoleggiava sè stesso», come ci autorizza una dissertazione in prosa sulla natura d'amore che il poeta stese nel 1815 : «Noi oscuramente vediamo dentro la nostra natura intellettuale quasi una miniatura della nostra intera personalità, priva tuttavia di quanto condanhjinio o disprezziamo, il prototipo ideale di tutto quello che d'eccellente e d'adorabile noi siam capaci di concepire come appartenente alla natura dell'uomo. Non solo il ritratto del nostro essere esteriore, ma un agglomerato delle più minute particelle di cui si compone la nostra natura... La scoperta di codesto antitipo, l'incontro d'un'intelligenza capace di valutare chiaramente la nostra, con un'immaginazione che penetri e colga le sottili e delicate peculiarità che ci siam dilettati ad accarezzare e a sciorinare in segreto, con una complessione i cui nervi, come le corde di due squisite cétere, accordate ad accompagnare un'unica deliziosa voce, vibrino con le vibrazioni nostre... : questo è l'invisibile e inattingibile segno a cui tende Amore ». Tutto ciò sarà Plato-;, ne, ma è più ancora Narciso ; chi sente a questo modo non riesce a oggettivare il proprio affetto, ad amare un'altra persona come una diversa individualità e non solo in quanto sia il duplicato d'un proprio idoleggiato fantasma. Codesto fondamentale narcissismo dello' Shelley è confermato dalle varie- manife¬ stazioni secondarie (allucinazioni, ossessione dell'incesto, indugiarsi su aspetti di bellezza insidiala e contaminata, amore astratto, universale, ecc.) che ne sono i consueti concomitanti. Epipsychidion: nel greco fantasioso dello Shelley doveva significare appunto quel congiungimento dell'anima con l'ideale sè stessa, quella sovrapposizione e concrezione spirituale. Il canonico Francesco Pacchiani era soprannominato « il diavolo di Pisa » pel suo aspetto (alto, magro, tutto angoloso, scuro in faccia come un moro, con occhi penetranti come succhielli), per la sua linguaccia, e per l'irregolarità dei costumi ; ma certo la sua gesta più diabolica fu di presentare a Sheley — tale Mefistofc-le in atto di mostrare a Faust l'immagine di Gretchcn nello specchio — il commovente caso della marchesina Teresa Viviani « imprigionata » nel Convento di S. Anna. « Sembra » — scrisse lo Shelley una volta — «che io sia destinato a diventare parte attiva di qualunque caso altrui, appena mi ci accosti ». Sia che si baloccasse.con idee, sia che s'impicciasse dei casi d'esseri umani, questo enfant terriblc taceva malestri. Le educande passan tutte per una fase d'amore astratto, esaltato. Il linguaggio d'amor platonico di Shelley era una sublimazione proprio di codesto erotismo conventuale. Shelley e Teresa s'incontrarono: tra l'esaltazione della collegiale e l'esaltazione del narcissista che finalmente ha trovato u'no specchio d'un nitore puri» simo, si stabilisce un unisone che sembra perfetto. Le lettere d'Emily (nome sororale dato dal poeta a Teresa) riboccano di tenerezza, di riconoscenza, di proteste d'amore fraterno, di lamenti sulla propria infelicità, ingenue nella loro esuberanza virginale e nella brama di com¬ patire e di farsi compatire; lettere tutte latte e miele ed eteree rugiade, in cui una frase finalmente concreta («A te do l'incombenza di rimetterti dal tuo raffreddore ») acquista la sonorità d'uno starnuto solenne co me un colpo di cannone. A tali banalità d'educanda, Shelley risponde colle sublimi banalità dell''Epipsychidion, il poema che s'immagina scritto da un gentiluomo che sarebbe morto mentre s'accingeva a salpare pei « la più selvaggia delle Sporadi ». dove aveva edificato «un castello in stile saraceno» prov visto di ogni conforto «con semplice eleganza ». Una fuga alla più .selvaggia delle Sporatti era un imbarco per Citerà destinato a montar la testa d'una collegiale. Ma Shelley, se parlava come una collegiale anche lui, era un uomo ammogliato, ed Emilia, se poteva essere invocata come un « Raggio incarnato del grande .Splendore » era fatta di carne, della carne d'una donna normale. Lo Shelley, sfogato il suo orgasmo nei versi, subì l'inevitabile reazione. « In quanto a carne e sangue voi sapete che io non traffico in questi generi ». Emilia invece — son parole di Mary Shelley — dette prova « degli sregolati sentimenti propri del suo paese ». lui lasciata al suo destino, e allo Shelley parve d'essersi tolto un gran peso di dosso quando la disgraziata, in luogo nell'ineffettuabile evasione alle selvagge Sporadi, cercò la consueta evasione delle ragazze sue pari, un prosaico matrimonio. Ma se Shelley era Ariele, Luigi Biondi delle Pomarancc era Caliban. « Che ci sia dato d'incontrarci in uno stesso Elisio o in uno stesso sudario !» — fu l'estremo saluto del poeta a cui la carne e il sangue facevan ribrezzo. Inconscia zagaglia barbara ! Mario Praz