Il '700 piemontese e i suoi Ministri di Filippo Burzio

Il '700 piemontese e i suoi Ministri Il '700 piemontese e i suoi Ministri E' nota la tendenza storica contemporanea di spostare all'indietro le frontiere del Risorgimento italiano, che, fissate un tempo abitualmente alla Restaurazione del 1815, taluno oggi vuol far coincindere addirittura con la costituzione del Regno di Sardegna, avvenuta esattamente un secolo prima ; applicando così, con ampia latitudine, il criterio adombrato già da Cesare Balbo, il quale suggeriva di far risalire all'ultimo quarto del secolo XVIII le origini del gran movimento ; mentre altri, come il Lemmi, seguendo una linea intermedia, gli fa prender le mosse dalla pace di Aquisgrana del 1748. La giustificazione di questa tendenza sta evidentemente nel fatto che, durante l'intero Settecento italiano, e più particolarmente piemontese, la progressiva presa di coscienza «italiana > da parto dei maggiori uomini dell'epoca, e i conseguenti conati per la ricostituzione, non 6olo spirituale ma (sotto l'una o l'altra forma) politica della Penisola, si vanno facendo vieppiù frequenti, espliciti e sistematici. Sicché ben a ragione, e con suggestiva e simbolica sintesi, Carlo Calcatemi ha potuto porre come titolo di un suo recente o bellissimo libro sull'argomento, una frase tipica (e tanto più tipica, come indizio di una coscienza ormai già diffusa, in quanto pronunciata da un personaggio di secondo piano): «Con Ta frase til nostro imminente risorgimento », il conte Benvenuto Robbio di San Raffaele annunciava nel 1769 l'aprirsi di un'era nuova per il Piemonte e per l'Italia. Noi.— prosegue il Calcaterra, a spiegar l'assunto del suo volume — ci proponiamo di studiare le opere compiute dagli scrittori subalpini in quell'età che, al dire del gentiluomo piemontese, avrebbe dovuto segnare nella storia d'Italia un nuovo avviamento spirituale ». Il compito così opportunamente propostosi, ed egregiamente assolto, dal Calcaterra per la parte culturale, mi ha fatto pensare che analoga impresa sarebbe per avventura possibile e tempestiva, anche per quanto riguarda la parte più propriamente «politica» dei conati per l'«imminente risorgimento»: vale a dire lo studio, condotto secondo questi nuovi criteri e punti di vista, di ciò che nell'opera dei sovrani e ministri sabaudi dell'epoca possa interpretarsi come un contributo, conscio o inconscio, positivo o negativo, ai fini della indipendenza ed unificazione italiana: quanto, cioè, e fino a che punto, la politica dinastica d'ingrandimento territoriale e di conservazione dell'equilibrio sia da ritenersi elemento costruttivo del Risorgimento. Un esempio, tolto da uno dei grandi fatti dell'epoca, varrà a chiarire questo, del regto semplice ed ovvio, concetto. Nell'inverno del 1744, in pieno fervore della guerra di successione d'Austria, si apre fra le Corti di Torino e Parigi un memorabile negoziato ohe sembra, nelle sue grandi linee, e per la grandiosità dei concetti che vi si prospettano, richiamare l'altro famoso di circa un secolo e mezzo prima fra Enrico IV e Carlo Emanuele I, che avrebbe forse portato (se non era l'intervento del pugnale dà Ravaillac), insieme al definitivo abbassamento di casa d'Austria, a vantaggio della casa di Francia, a una più o meno completa indipendenza federativa italiana, sotto la direzione sabauda. Il nuovo dirigente la politica estera di Luigi XV, il marchese di Argenson, appena assunto al potere, riprende, nelle mutate condizioni, l'antico disegno di Enrico IV, e si affretta a proporre a Torino, come prezzo del distacco dall'alleanza con Maria Teresa, condizioni che si riassumono nell'acquisto, da parte del Piemonte, di quasi tutti i possedimenti austriaci in Italia, fino al confine veneto ; nonché nella formazione, una volta cacciati i tedeschi dall'Italia, di una federazione dei principi italiani sotto la guida militare del re di Sardegna. Il negoziato, avviato col marchese d'Ormea, e interrotto dalla morte di questi, è ripreso dai suoi minori successori, il marchese- di Gorzegno e il conte di Mongardino, fino all'intervento del Bogino: dopo alti e bassi drammatici, in definitiva la proposta francese è respinta. « Taluni moderni storici e pubblicisti — nota il Carutti al riguardo — meravigliando si dolsero che Carlo Emanuele III non abbia con tutti gli spiriti adoperato ad effettuare cosi magnifici concetti ; e i più corrivi imputarono lui ed i ministri suoi di timidi e gretti pensieri, e quasi di peccato contro la nazionalità italiana. .. Nel che giova rammemo; rare che, ragionando .dei tempi andati con le idee dei tempi pregenti, non si bada ai mutamenti sostanziali avvenuti in Europa da sessant'anni in qua (il Carutti scriveva nel 1859), e si guasta il criterio storico... Cacciare i Tedeschi d'Italia, questo è il problema della politica nazionale dei tempi nostri... ma nella prima meta del secolo scorso il concetto di nazionalità non era ancor nato, i popoli italiani non odiavano e non avevano fondata ragion^ di odiare la signorìa germanica; e i principi e gli statisti, gelosi allora come adesso della propria^ indipendenza, temevano bensì la preponderanza straniera, ma non nei soli Tedeschi ne vedevano la paventevole immagine. - Recente era la memoria della dominazione spagnola, per due secoli mortifera all'Italia; presente, instante, minacciosa era la superiorità franco-ispana... L'italica eonfederazione congegnata <U Luigi XV e dal d'Argenson a che si nduceva? Toglieva d'Italia le insegne germaniche e vi surrogava 1 autorità e il predominio di casa Borbone. L'unico Stato che avesse vita propria, il Piemonte, veniva annichilato fra le spire di Snella. Potenza che lo sequestrava ai grandi Stati d'Europa. Chi potea contrastare a Luigi XV e a Filippo V, imperanti a Napoli e a Parma, come a Versagia e a Madrid? ». Alle quali argomentazioni, altri storici hanno opposto che la Francia di Luigi XV non era più quella del Re Sole, e meno ancora era minacciosa la Spagna, prossima ormai all'estremo della decadenza; e che il re 9ardo e i suoi ministri, ossessionati dai fantasmi di un paseatp defunto, e scarsi ancora di sensibilità « italica », avevano lasciato sfuggire un'occasione preziosa. Checché sia di ciò, la circostanza che ho richiamato mi sembra esemplare per chiarire l'interesse di una ricerca che mirasse a precisare il significato e il valore « italiani » degli atti politici del tempo; e che, al di là della diplomazia e della politica, culminasse poi nella psicologia: vale a dire cercasse quali erano, nell'intimo pensiero dei re sabaudi e dei loro maggiori ministri settecenteschi, i germi ed i fermenti propriamente «italiani»; e come evolvessero e si precisassero a poco a poco, sotto la influenza indiretta, e spesso spregiata, del movimento culturale ed ideologico, a partire dalle prime antiche intuizioni di Emanuele Filiberto, di Carlo Emanuele I e di Vittorio Amedeo II. Nei due Balbo, ad esempio, e specialmente in Prospero, che fu, più a lungo di Cesare, nella vita attiva, l'influenza determinante della cultura sull'attività politica è chiara : ma prima? Nelle celebrazioni ufficiali degli illustri Piemontesi, avvenute nel 1935, Ormea e Bogino non furono compresi: né, che io sappia, esistono monografie recenti e aggiornate su questi due insigni ministri in cui si riassume, dopo Vittorio Amedeo II, e in sua continuazione, il più alto valore politico del Settecento piemontese. E sì che la loro traccia nella stessa tradizione orale, non è ancora del tutto scomparsa, e il ricordo di .talune loro gesta è popolare ancor oggi : con essi, e sopratutto con l'Ormea, elementi drammatici e romanzeschi (abbastanza rari nella storia del Piemonte) affiorano, che hanno lungamente colpito le fantasie. L'arresto e la dura prigionia di Vittorio Amedeo, che all'esitante Carlo, Emanuele è imposto dall'inesorabile Ormea; la tragica vicenda del Giannone ; i famosi trucchi e fortunati infingimenti per cui andò famosa l'ambascerìa dell'Ormea presso la Corte di Roma; e, in più marziale e spirabile aere, la miracolosa liberazione di Asti e di Alessandria, dal Bogino predisposta e dal Leutrum eseguita — ce n'è abbastanza per «romanzare» veridicamente due Vite/ Ormea e Bogino sono stati i due primi «ministri», nel senso moderno della parola, che abbia avuto il Piemonte : prima di loro, direi che si tratti piuttosto di favoriti e fedeli del Principe, al modo feudale, o di aempiici «commessi» ed esecutori: con loro invece, la Nazione piemontese, che nel Settecento è finalmente formata e non è più una semplice invenzione della Dinastia, offre i suoi primi frutti allo Stato; mentre con la mirabile e contemporanea fioritura culturale, che fa capo ad Alfieri ed a Lagrange, partecipa, ormai in primissima linea, alla vita spirituale d'Italia, sì da far dare a Torino l'incredibile titolo di Atene italiana. Esiste un pregevole schizzo in punta di penna, dovuto al Carutti, che sembra dovrebbe invogliare più d'uno a trasformarlo in ampio ritratto : «Carlo Vincenzo Ferrerò marchese d'Ormea fu per avventura l'uomo di Stato più eminente di cui si onori il Piemonte; servì due regni, esecutore e consigliere sotto vittorio Amedeo II, principal reggitore e quasi arbitro dello Stato sotto Carlo Emanuele III. Non ebbe interezza di virtù pari alla potenza della mente... era vano di sé ed altero, o la tradizione ricorda durezze di modi da lui esercitati nel governo... Gli stranieri chiamarohlo a titolo d'onore il Richelieu del Piemonte, pure... l'ermellino del Gran Cancelliere piemontese non rosseggia del sangue onde é grommata la porpora del gran cardinale francese. Che se ogni encomio non è dovuto all'uomo, non sapresti qual lode negare allo statista... ». Filippo Burzio