NOMI

NOMI NOMI La novità mi faceva apparire quei monti che ci chiudevano uniformi e monotoni. Nessun segno di vita umana da principio fermava il nostro sguardo piuttosto in un luogo che in un altro e mi riusciva persino difficile orientarmi. Questo era per me importantissimo e mi aveva dato sempre autorità presso la mamma, da quando il babbo m'aveva insegnato a conoscere i punti cardinali una volta che era venuto in licenza. Li avevo imparati per sempre. Ma in quella valle era altra cosa. Le montagne formavano una conca aperta a sud-ovest, dov'era una gran porta di rocce attraverso la quale si vedeva uno spicchio di pianura color del mare, alta nella lontananza come un orizzonte marino. Per orientarmi sul nord dovevo fare uno sforzo di ragionamento forse troppo grande per un ragazzo della mia età. E poi non da tutti i punti della profonda valle era dato vedere quella porta stretta in basso e larga in alto aperta sul cielo. Il cielo, limitato dalle montagne, era come avrebbe potuto vederlo una formica dal fondo di una barca. Le montagne erano coperte di fitti boschi di querce, la cui compatta coltre si apriva sui canaloni pietrosi, che dalla nostra casa sembravano fenditure profonde nei fianchi del monte. Ma col passare dei giorni, a mano a mano che i nostri occhi s'avvezzavano a quella uniformità, distinguevamo in quella distesa d'alberi, su cui la solitudine pendeva come una nuvola, gli aspetti diversi del paese. "Un giorno la mamma disse : « Chi sa perohè non c'-è un villaggio qui ». I babbo che s'era già messo il fucile a tracolla e s'infilava le cartucce nella cintura, la guardò pieno di meraviglia, come se avesse detto una cosa assurda. A me invece non parve strano che potessero esservi abifazioni, in quella valle, anche perchè era ricca d'acque. <t Basterebbe l'acqua di questo torrente per un - villaggio? », chiese un altro giorno la mamma. Il babbo rise e lasciò persino spegnere lo zolfanello co) quale stava accendendo la pipa, e noi ridemmo con lui al pensie ro degli abitanti di quel villaggio immaginario chini come capre 6ulla riva con le ginocchia sui larghi ciottoli neri e le mani nell'acqua ; ma ridendo pensavamo anche che antichi uomini avrebbero potuto costruire capanne e poi case, tante piccole case accanto alla nostra, tutto un paese, come San Silvano o Pontario, e che se quel paese fosse sorto fin dagli antichi tempi tra le montagne, ogni picco, ogni balza, ogni sorgente avrebbe avuto un nome. Infatti il babbo, quando ci parlava di caccia (cosa che del resto avveniva assai di rado) diceva semplicemente, per indicare le varie località, una valle, un torrente, una (/rotta, e noi avevamo finito per credere che quei luoghi, come quelli immaginari delle favole, fossero senza nomi. Questo fatto ci tormentava: ci riusciva impossibile vivere, sia pure per breve tempo, in un paese senza nomi; e ci provammo d'inventarne per le rocce e le radure intorno. Ci abbandonavamo a queste fantasie seduti sulla soglia di casa, ma non appena ci allontanavamo di là anche per un breve tratto, le rocce e le cime che sbucavano improvvisamente dal folto degli alberi avevano già mutato aspetto e s'eran fatte irriconoscibili; e quando tornavamo a casa dopo qualche ora e le riconoscevamo, avevamo dimenticato i nomi inventati e finivamo per dare alla stessa cima nomi diversi. Una sera uno dei caprari che sentivamo fischiare ogni mattina e di sera quando gli ultimi raggi avevano abbandonato all'ombra le cime, sbucò da un sentiero e si fermò a guardare mio padre, che preparava le cartucce seduto sulla porta di casa. L'uomo si sedette sui calcagni e stette lì un pezzo senza dir nulla; poi chiese di che calibro fossero le cartucce. Mio padre glielo disse: allora egli s'alzò e il babbo gli porse sei o sette di quelle cartucce, che egli 6Ì mise goffamente nei taschini del panciotto, e si allontanò senza un cenno di saluto. La mamma mi fece notare la rozzezza di quel contegno, ma il babbo sorrise dei nostri discorsi ; e quando il giorno dopo il capraro, alla stessa ora, tornò e posò sullo scalino due lepri sventrate, che lasciarono sulla pietra un'impronta di sangue nero, capii la lunga familiarità che mio padre aveva con quei luoghi e con quella gente. Pensai che quei pochi pastori dispersi nella valle erano anche essi un popolo, distinti dagli altri per i loro costumi, di cui mio padre conosceva il segreto, e per il loro linguaggio. Invano mi sforzavo di afferrare il senso delle parole che quell'uomo diceva a mio padre, seduto davanti a lui sui calcagni, raccontava forse della caccia, oppure di un incendio, non so bene, accompagnando le parole con cenni delle sue mani color di sughero, le cui dita, come rami d'albero, restavano fìsse in un gesto che forse faceva parte del racconto ; ma in quel racconto di suoni e di gesti incomprensibili, io e la mamma scoprivamo ogni tanto alcune parole chiare, che subito, benché non le avessimo mai udite prima d'allora, si rendevano familiari, e ce le ripetevamo, felici di averle finalmente trovate: erano i nomi di quelle cime mute misteriose per le quali noi avevamo inventato strani nomi. Ed ecco che quelle cime, quei colli, quelle fenditure profonde della montagna avevano nomi. Come prima le loro forme erano emerse appena distinte dalla mo¬ qcoselaumfarccaccemtplnLedagmrsldsrNinzRrPNdroIpgmfpcndnfslscNdnm«drpopcdmrdslrpss notonia dei boschi, così ora emergeva, anch'essa ancora indistinta, una realtà diversa, sovrapponendosi a quella, come ramo a ramo e foglia a. foglia. Ogni soffio di vento, ogni fischio, ogni grido ci faceva ora sentire intorno a noi quel paese silenzioso immobile e composito. Ripensando a una certa ora di sera, rivedo ancora oggi una stella, una delle prime, Drillare su una sella di monte che si chiamava Lugheria. Io e mia madre fantasticammo a lungo sul mistero di quel nome. La mamma diceva che i nomi di molti paesi, che apparentemente non hanno alcun significato, si possono riaccostare alla radice di parole greche, latine o puniche; alcuni di essi si ritrovano nella Bibbia ; ma questi nomi di cime sperdute, di luoghi in cui cinque o sei pastori passano alcuni mesi all'anno, e meraviglioso come siano giunti fino a noi, ripetuti non da un intero popolo, ma da pochi uomini che se li passarono da mano a mano come un oggetto. .E resta tuttavia inviolato il mistero della loro nascita. Non si può pensare che siano stati inventati da pastori simili n quello che ci portò le lepri ; perchègli abitatori di quella valle de-vono essere sempre stati molto si-mili a lui, irsuti allo stesso mo-do e odoranti di lana e di gras-so. In qualunque tempo sia na-to, il nome di Lugheria dev'essersi acceso nella fantasia di un uomo come la luce di quella stella che a quell'ora sovrasta il monte, che non si può mai dire quando abbia cominciato a brillare ; in quella stessa, ora, e da quel momento fu come la stella, che era sempre stata, anche se l'uomo la vedeva allora per la prima volta. Rivedo dietro la sella di Lugheria, così ampia e dolce, il cielo, puro come è solo nelle plaghe più alte sull'orizzonte, nelle quali il nostro occhio non si ferma mai, avendo bisogno, come un uccello, di spaziare, quasi per sfuggire lo sgomento dell'immensità; o se si ferma è senza sguardo. Nel cielo sopra Lugheria ritrovo anche ora la stessa purezza sconosciuta. La curva del mon te, nuda d'alberi in quel punto le dolce nell» sua ampiezza, era 1 quasi un appoggio allo sguardo, jcjie si riposava in quel seno di cielo. Immaginavamo che quei cielo, che si faceva di attimo in attimo profonda cupezza intorno alla ste.Ua sospesa, dietro alla quale altre, rade e appena percettibili, rivelavano irrangiungibili spazi, quasi una prospettiva metafisica, si distendesse una pianura vastissima antica come quella dei racconti della Bibbia. E anche ora, tutte le volte che vedo un astro pendere così su una altura, sempre mi ritorna quelietro un monte. senso di vastità di A quell'ora mio padre finiva di far le cartucce e accendevamo il lume a carburo. Era una operazione che io e la mamma avevamo imparato a fare con molta cura ed esattezza. Asciti-pvamo il lume con un panno elo mettevamo sul davanzale del-la finestra. Da prima era unafiamma azzurra, simile a una pie-cola farfalla dalle ali chiuse ; poi.quando la vedevo hr.i-.e avviata jgli ' bianca e ferma, correvo al tor-rente a lavami; le mani, e li, nelbuio, mettendomi in bocca le di ta bagnate, cercavo di fischiare come i caprari, e stavo occupato in quei vani tentativi, fino a che mio padre mi chiamava col solito fischio che pareva chiedere: dove sei? «Veugooo!», rispondevo io. a gran voce. Ila ancora m'indugiavo, senza riuscire astaccarmi da quell'acqua fresca ecupa che scorreva t?a i cespi,nella notte. Giuseppe Dessi