Il romanzo di Isadora Duncan la più avventurosa danzatrice di tutti i tempi

Il romanzo di Isadora Duncan la più avventurosa danzatrice di tutti i tempi Arte bellezza gloria e morte Il romanzo di Isadora Duncan la più avventurosa danzatrice di tutti i tempi Dove non si parla ancora della celebre artista ma si entra nel cuore di un grosso pigro e polveroso sobborgo, un sobborgo senza città: Atene intorno nel 1900... Grande privilegio essere nati all'ombra del Partenone: questo scheletro di marmo che non butta ombra. Si riceve in eredità una generatrice di luce interna e un paio di occhi trasformatori. Questo il privilegio toccato a Nivasio Dolcemare. Anche al milione di creature dunque che popolano l'Atene d'oggi? No. L'indigeno non ha diritto a questi doni, il suo naso è refrattario al profumo degli dèi; ma il singolo soltanto, l'isolato, colui che, nato in Grecia, greco non è. Come Nivasio Dolcemare appunto, venuto al mondo in Atene, dall'unione di una tritonessa ligure con un centauro toscano. In ciò si riconosce la mano del Destino, la sua volontà di scelta. Dice il Destino al privilegiato: « Prendi questa luce che trapassa i metalli più duri e serbala nella sede pluriposta del tuo retrosguardo; aspira questo profumo misto di muschio e di sudore che è l'autentico odor det, e nascondilo nel cavo della narice. Chi dispone di questi infallibili mezzi di comparazione, è condannato a una preziosa infelicità. Va e sopporta la tua pena. Addio!» Una corsa nei secoli Quando nell'anno decimosesto del regno di Atonina filosofo, Pausania visitò la Grecia, gli dèi erano morti da un pezzo. Voce non rimaneva se non di mare e di vento. I templi offrivano al cielo le loro carie illustri. I tamburi delle colonne erano grani per terra di colossali collane rotte. Cavalli bradi erravano sui lidi deserti, si fermavano ad ascoltare, giravano intorno l'occhio pazzo e rosso di sangue, poi fuggivano al galoppo, spaventati dall'immenso nulla. Vennero più tardi i bascià col figaretto d'oro e la scimitarra d'argento. Tutta la serie dei metalli nobili e delle pietre preziose era rappresentata su quelle morbide sfere umane, che becchieggiavano sulle babbucce a gondola come pesanti misirizzi. Minareti smilzi avevano preso il posto delle colonne doriche, per ospitare le cicogne ed i loro cicognini. Il tempo passava allegramente, tra mozzar teste scambiandole per cocomeri, e sorbire il caffè molto denso dentro chicchere minuscole come ditali. Fiorì poi il tempo in cui l'Europa era una mamma per tutti. Essa scelse tra i .Wittelsbach un bel pr\n$ipone di puro sangue Vavaro, e lo diede all'Eliade risortaiperchè se ne facesse un re. MalOttone e Amalia non furono amati dai loro sudditi, benché andastsero anche a letto col costume no.zionale, lei con le collane di moniste d'oro sulla fronte, lui con ila fustanella e gli zarùk fioriti sulla punta dalla nappina rossa. A Ostro di Atene, in località Ano .Potissia, giacciono tra l'erba' alita e le ortiche le ogive dirute e le torricelle decapitate di ciò che avrebbe dovuto essere la residenza estiva di re Ottone e della regina Amalia. Prima che portato a termine, quel palazzotto gòtiKo passò allo stato di rudere senza nobiltà nè « pedigree ». Si arriva al 1900, trionfo del liberty, ultimo canto della civiltà arabogòtica. Atene è mi grande sobborgo : il sobborgo di una città che non esiste. Per molte ore del 'giorno gli abitanti si stanno rintanati nelle case bianche, supini sull'am?nattonato, nudi e col giornale sulla faccia. I topi li vengono a fiutare con diffidenza. Uno scarafaggio sale lentamente il muro di calce. Atene somiglia quei fantasimi di città, che i Turchi hanno raso al suolo prima di abbandonare l'Albania. L'urlo delle cicale è così feroce, che sembra lì lì per sradicare la città bianca come una forma di pecorino, e sollevarla nel cielo incandescente. Al declinare del pomeriggio, quando il sole non ha più forza di moirdere e l'Acropoli spande sulla còtta la sua ombra più lunga, pascià per il viale Kefisxia una vitUìria al galoppo, seguita da una -nube di polvere come la nave dalla sua scia. Sta in serpa un euziòno che fa la ruota col gonnellino. Nella conca della vettura sieda la coppia regale. Olga porta gli, occhiali neri ed è talmente scura di abiti, da sembrare un fratullo della Misericordia. Giorgio I ammicca a destra e a sinistra con gli occhi miopi, e d'accanto alidi funebre consorte sembra rivolgere inviti galanti a tutte le mogli dei suoi sudditi. Un giorno, in questura...La pc.ee regnava assieme con la medioci-ità. Scarsa la circolazione monetaria, più scarsa quella delle idee. .Per pagare cinque dracmesi tagliava a mezzo un biglietto da dì/sci e se ne dava la metà. Per le idee, nemmeno questa operazione era consentita. I ricchi sedevano al caffè, neri di peli e vestitdi bianco, e ordinavano un bicchier d'acqua. Il socialismo travagliava i paesx industriali e lontani, ma tra gli ulivi dell'Attica non aveva vocabolo che ne esprimesse il concetto. L'agitazione dei comizi non era ignota aglateniesi, te strade sbarrate dusoldati col fucile a crociatèt, l tre squilli che fanno voltare i tacche mettono il fuoco alle gambema erano comizi di studenti e dseminaristi, contro l'archimandrita cut era venuto lo sfizio dtradurre i Vangeli in greco moderno, che si chiama maliarò o come dire « il peloso ». E' in mezza a quest'atarassia generale che accadde l'avvenimento inauditoche scc xò la vita degli ateniese scatc.ì sulla città della civetta un vento di follia. Saranno state circa le quattro i, \ a e e , o r i e a e i i e i ; i i o e , i a . La città era rappresa ancora neUa stasi infocata che la coglieva allo scoccare del terribile merigigio, e non l'abbandonava se non al tramontare del sole. I localti dell'Antinomia (1) erano immersi in un silenzio di tomba. Nel oorpo di guardia, l'agente Pelopida giaceva come morto sul tafcvolaccio. Per terra, le calzature ['del custode dell'ordine, svasate carne maone, esalavano un residuo di fumo. Le mosche volitavano a spirale intorno al dormiente, gli si posavano a turno sul labbro arricciato e sormontato dal baffo a baionetta, sulla palpebra pesante che attraverso una sottile fessura lasciava brillare come nei morti il bianco della sclerotica, sul petto tatuato con l'immagine del dio d'amore, sui piedi nudi e del colore delle melanzane. — Alt o sparo! — gridò l'agente Pelopida balzando fuori dal sonno con l'impeto di uno che sfonda una porta, e puntando sai nemico una bottiglia di gazosa che aveva trovato accanto a sè sul tavolaccio. Ma invece dell'impossibile detonazione di quell'arma vitrea, si udì il molle « plaf » dei piedi dell'agente, a contatto con l'impiantito. Le mosche si tuffarono a vortice, poi balzarono tutte assieme al soffitto. Quanto al « nemico » tenuto a bada dal pallino della gazosa, e che era entrato di volata nel corpo di guardia in compagnia di un puzzo orrendo di sudore antico e recente, egli tremava sotto gli stracci che lo velavano appena e non riusciva a spiccicar parola. Erba, gazose, caprette Il « nemico » si chiamava Gargara e partecipava delle creature silvestre. Atene non era di quelle città tentacolari che chiudono le porte alla campagna e spargono intorno il morbo del loro dinamismo centrifugo, bruciando l'erba, falciando gli alberi, infettando l'aria. La vita « cittadina » di Atene era « irrigata » ancora delle grazie campestri. L'erba faceva marciapiede ai margini delle strade, le gazze venivano a sfamarsi alla porta delle macellerie, le capre pascolavano sotto il peristilio della Corte d'Assise, e i fogli erranti degli atti processuali davano un pò di varietà al cibo di quelle poverine. Anche Gargara faceva parte dei « contributi delia campagna ». Passava per innocente, ma nessuno aveva accertato ancora se l'innocenza di Gargara era uno stato naturale o una professione. Del resto, fra le genti mediterranee, la pura innocenza non alligna. Gargara abitava alle falde dell'Egàleo, tra i pallidi ulivi contemporanei del divino Platone. Capitava in città nelle ore più deserte, si sedeva per terra all'angolo di due strade e sonava interminabilmente sopra una floghera (2) metallica delle nenie decrepite di lontananza, fragili come ragnatele. E poiché l'essenza del meriggio è una insondabile tristezza, si giustifica l'opinione di alcuni ateniesi molto vecchi e ricchi d'esperienza, che le nenie di Gargara fossero la successione meccanica del canto meridiano di Pan, — Che vuoi? — ripetè per la terza volta l'agente Pelopida, e accorgendosi che la pistola che stringeva in pugno somigliava stranaviente a una bottiglia di gazosa, la buttò via con gesto di profondo disgusto. — As-tt-nò-?iios (Sì — riuscì finalmente a balbettare Gargara, con una voce di cane parlante, e a e , é a o e a o a e e a i i ì , — Che vuoi dall'astinomos? — Miracolo hanno visto i miei occhi! Pericolo grande per. la città! — L'astinomos non riceve, dì a me quello che hai da dire. — No... no — ripetè Gargara, sgrullandosi dalla pidocchiera ai piedi di fango, per accentuare"i suoi dinieghi. — Astinomos ascolterà Gargara, e quando astinomos ascolterà Gargara, astinomos benedirà Gargara. Spinto dalla propria fede come il pallone dal vento, Gargara uscì dal corpo di guardia e s'avviò verso l'uscio che chiudeva il fondo del corridoio, e sul quale la parola « astinomos » spiccava con lettere nere su fondo bianco. Ma il possesso dell'autorità rende l'uomo borioso e violento, specie colui cui manca il dono divino del meditare. — Indietro! — ruggì l'agente Pelopida, le cui letture erano copiose, ma non comprendevano il manuale di Epitteto. E aggiunse con tono inappelZabile, dopo aver sbattuto la creatura silvestre nel fondo del cirridoio: — A quest'ora il signor astinomos è occupato. Il questore si sveglia / due uomini, l'autoritario e il remissivo, stettero immobili e muti. Allora, attraverso l'uscio, un lungo ronfo, profondo) pastoso, grasso, passò nel corridoio, segui to da un piccolo raglio- discendente. — Capitano mio! — supplicò l'innocente, rigando di lacrime l'untume della sua faccia — tremenda creatura è nella città; se non parliamo subito all'astinòmos morremo tutti di morte spaventosa! L'agente Pelopida si toccò il baffo in segno di perplessità e Fo bos, la Paura, increspò la sua fronte ottusa. Per la prima volta da quando accudiva alle mansio ni di custodie dell'ordine, presso la direzione dei servizi di legista zione urbana, il dubbio, il terri bile dubbio scosse quell'animo di granito. L'agente origliò, socchiuse l'uscio, entrò in punta di piedi net piccolo paradiso privato del suo superiore. La penombra era fresca e sparsa di miraggi. Una brocca di coccio poggiava la pancia sudata alle persiane socchiuse, il collo coperchiato da uno di quei limoni bambini, che laggiù chiamano neranzaki. Scendeva u metà della finestra uno storino dipinto, sut quale brillavano in trasparenza gli ombrosi boschetti, i torrentelli scroscianti dell'Attica qual è descritta nel Crlzia, ossia prima che il cataclisma la denudasse e riducesse all'attuale patetico squallore. L'astinomos dormiva a somiglianzà di Oloferne su un canapé di tela cerata, che per un'orrenda ferita aperta sutlu spalliera, esalava l'anima di crine vegetale. I piedi del poliziotto posavano su una catasta di mandati di cattura in bianco. La sua mano pendeva a terra, e accanto, come la rivoltella accanto alla mano del suicida, yiaceva un ventaglietto a elica. Il piegabaffi dava alla faccia dell'astinomos la ferocia di un gatto che soffia di rabbia. Rimossi dalla loro posizione obbligata, i « richiamati » pendevano sul collo, come alghe dalla testa di un dio marino. Ci volle del bello e del buono per restituire l'astinomos ai sensi della realtà. Infine: — Che ha visto quest'uomo? — egli domandò col cipiglio dell'au- I ferità, e usando V interrogazione indiretta per rafforzare il proprio prestigio. Dice che ha visto un dio, signor astinomos — rispose l'agente Pelopida, riunendo i calcagni nudi nella posizione di attenti. — Un dio? — ripetè dubitosamente l'astinomos, e rise due volte: — Ah! ah! Dio o fantasma? Andò a staccare dalla parete uno scudiscio, e ' frustandosi i gambali di cuoio porcino, venne a piantarsi davanti all'accattone. — Ti sei guardato allo specchio? — No, signor astinomos. — Guardati : gli dei non si fanno vedere a grugni come il tuo. — Era un dio — insistè con dolcezza Gargara — un fantasma^ — Dio o fantasma? — urlò l'astinomos, accelerando la fustigazione dei gambali, come si allenasse per passare poi sulla faccia di colui che « aveva visto un dio ». — Dio e fantasma, signor astinomos: uno dei nostri padri. La faccia dell'astinomos si arroventò come quella del gallo in combattimento. E poiché era impossibile che la colpa di non capire fosse imputabile alla sua intelligenza poco sviluppata, se la prese con Gargara e lo chiamò « bestia ». — Non bestia — replicò con maggior dolcezza l'innocente, travisando l'indirizzo della qualifica — ma un antico. — Un antico? — ripetè l'astinomos sgranando gli occhi. E per facilitare l'ingestione di una no tizia cosi strabiliante, andò alla finestra, tolse il neranzaki dal collo della brocca sudata di frescura, e bevve lungamente a garganella. Finalmente, e dopo uno «stringente interrogatorio », l'astinomos riuscì a sapere quello che Gargara aveva visto, e sarebbe riuscito a saperlo molto prima, se non avesse opposto l'ostacolo della sua autorità a ciò che non voleva essere se non la più spontanea delle confessioni. Gargara aveva visto un antico greco. Spiegò che mentre costeggiava il cancello di piazza del Parlamento, l'impensato ritornante aveva traversato la piazza deserta in quell'ora, ed era scomparso dietro la Camera dei Deputati. — Nient'altro? L'innocente corrugò la fronte in uno sforzo da cavallo calcolatore. — SI: quando arrivò davanti alla scalinata della Camera, si fermò, piegò il ginocchio, alzo il braccio. — Lo avevo detto io! — esclamò l'astinomos, tirandosi una tremenda frustata ai gambali. — Non c'è più dubbio. E' un antico greco. Ha scambiato la Camera dei Deputati per un tempio d'Apollo. Ecco gl'inconvenienti della architettura neoclassica. L'astinomos volle altri particolari, al che Gargara rispose che l'antico greco camminava presto e « di profilo ». — Di profilo? Passando dalla parola all'atto, Gargara divaricò le gambe, levò le braccia a candeliere e si atteggiò come il vento Borea nelle pitture dei vasi fittili. — Pelopida! — arido l'astinomos, ritrovando dopo un breve smarrimento la forza e la lucidità del libero pensatore. — Prendi dieci uomini, perlustra la città e portami questo antico greco vivo o morto. Hai le manette? — Signorsì — rispose l'agente Pelopida, e in così dire trasse dalla tasca dei calzoni due cordicelle-unte e nodose, perchè le belle manette lucide, gloria del cinematografo americano, in quel tempo nessuno le conosceva ancora nella Grecia di Giorgio 1. A caccia degli «antichi» Lo sgomento paralizzò la città, poi la rimescolò come un'insalata. In principio la rivelazione di Gargara fu qualificata « visione ». Si diffidava oltre a tutto delle parole di un paranoico. Ma alla testimonianza dell'uomo silvestre si aggiunsero quelle di cittadini seri, di persone altolocate, di autorità, quali il generale Burnaso, il giudice Sclep, il signor Jean Bidet, secondo segretario della Legazione di Francia (b), il signor Wassenhoven, professore di flauto ul Conservatorio. Chi era questo greco antico? Ed era un vero, oppure un falso greco antico? A onor del vero, questa seconda ipotesi non isfiorò neppure la mente degli ateniesi. Falsi antichi greci circolavano liberamente a Montmartre, a Hyde Pare, allo Schwabing di Monaco, facevano parte di quelle popolazioni orribilmente miste, assieme con i falsi Cristi calzati di sandali, capelli alla nazzarena e occhiali; ma Atene era nonché immune, ma lontanissima da simili contaminazioni. La Grecia moderna era il solo paese, allora, nel quale la Grecia antica non fosse rievocata nè parafrasata in maniera intellettualistica. (Di poi, essa pure si è lasciutu contaminare). Si rievoca forse il proprio padre in forvia di travestimento, di mascherata, di trucco? Epperò l'apparizione nell'Atene odierna di quel greco antico non suscitò commozione mentale nè intellettuale curiosità ma sacro orrore soltanto e portentoso apavento, quali a un figlio la terribile riapparizione del proprio'padre morto trentaquattro anni prima. Quanto al dubbio che colui fosse un dio — questa idea degna di un Arrigo Heine, di un intellettuale, di un pasticheur, neppur essa sfiorò quelle menti senza svolte né passaggi segreti; oltre che a impedire questa ipotesi concorsero altre ragioni: l'essere il cristianesimo greco così ostico ancora e sospettoso da escludere più che qualunque paese o cattolico o riformista ogni più lieve e innocente sopravvivenza pagana; e anche perchè gli dei, pensabili, finché se ne stanno nascosti, diventano impensabili e assurdi non appena si lasciano vedere. Le manette inutili Pochi giorno dopo, l'antico greco prolificò. Altri antichi greci traversarono rapidamente Atene : forme fuggitive e colorate, pappagalli fra una tribù di cornacchie. Alcune donne pure, persino un bambino: un pals. Esumazioni? Resurrezioni? Fiori di un'archeologia viva? Nessuno dei centomila ateniesi d'allora, tutta gente che o pensava da una parte sola o non pensava affatto, fu capace di chiarire l mistero; e nemmeno i cosiddetti europei » che vivevano in Atene, ossia i membri del corpo diplomatico e di quello consolare, qualche professionista, alcuni commercianti di droghe coloniali, i quali della cultura occidentale non rappresentavano se non il lato più scadente e pompiere, e il cui europeismo si limitava a giocare a maus, e per quelli di origine anglo-sassone a tennis. Il solo Schliemann sarebbe stato da tanto. E quale gioia per lui, quale consolazione ritrovare vivi coloro ai quali aveva pensato tutta la vita! Ma Giorgio Schliemann era morto pochi anni avanti, a Napoli, presso la misteriosa città di Ercole (5) che notte e giorno, con la sua voce di pie tra, i suoi accenti soffocati, lo chiamava di sotto la sua copertura di fango solidificato. Aveva lasciato un figlio nella sua bella casa di Atene nomata Iliou Melathron, ma costui somigliava quanto a intelligenza a Gargara, meno i repentini bagliori, i riflessi arcani che di quando in quando illuminavano la notte mentale dell'innocente. Come in innumerevoli circostanze precedenti, lo zelo dell'astinomos, i suoi furori, le sue minacce si rivelarono inefficaci e vani. Le cordicelle unte e nodose dell'agente Pelopida non toccarono i polsi di colui che forse era parente di Nettuno. Superato il periodo del 10 spavento, poi quello dello stupore, la popolazione prese confi denza a poco a poco con quei rappresentanti di una età remota e illustre, tanto più che costoro si mostravano non solo miti, ma indifferenti, assenti e come lontanissimi da qualunque sguardo umano. A comunicare con essi nessuno si arrischiava ancora, oltre che un greco antico parla evidentemente 11 greco antico, e nessuno degli ateniesi d'oggi era capace di formulare la più tenue idea in questa lingua. Ma erano seguiti sempre più da vicino da gruppi sempre più folti, esaminati con crescente curiosità, studiati, commentati, persino derisi. Si avvicinava il momento, pericolosissimo per le creature sovrumane, in cui il diavolo si riduce a vecchio caprone. Giorgio I a cavallo Un giorno fu visto il primo «antico » incontrato da Gargara, traversare piazza della Concordia con una capra al guinzaglio. Le mammelle della bestia paziente e genitrice del pecorino, erano chiuse dentro una sacca di tela. Un corteo si formò dietro il misterio so personaggio e la sua barbuta compagna, che raccogliendo via via nuova gente percorse la via dello Stadio, traversò piazza della Costituzione, poi il viale Regina Amalia chiuso sotto un ponte di pepi foltissimi che danno lo starnuto, scese la scalinata dello Zappeion, passò davanti a un lord Byron di marmo che spira tra le braccia di un'Eliade in vestaglia, traversò l'Ilisso, s'inerpicò sulla collina del Cimiterio ove giaccio no sotto stili diversi gli ateniesi morti, e quando arrivò in località Kòpamos, brulla e sassosa come una terra decorticata da un furente iddio, migliaia di uomini, donne, bambini circondavano l'accampamento della strana tribù, la quale, come in mezzo a un deserto, continuò a occuparsi delle sue faccende, a battere il burro, ad attizzare il fuoco sotto la pentola, a rammendare i buchi delle clamidi e dei pepli. Sevibrava la fondazione di una città di pionieri, e sarebbe sembrata una festa campestre, se il sito fosse stato più floreale e ameno, e se gli ateniesi, come tutti i meridionali del resto, non avessero la funebre abitudine di vestirsi di nero; il che, aggiunto al colore dei capelli e delle barbe, al rigoglio di pelo che s'infoltiva sulle sopracciglia, e usciva a ciuffi dalle narici e dalle orecchie, e si attorceva a boccoli sui nei, trasformava quell'umano comizio in un comizio di scarafaggi. Quando più folto era lo schiamazzo, un augusto silenzio calò d'un tratto sulla folla e la raggelò. Le teste maschili si scoprirono si chinarono quelle femminili e un rispettoso varco si aprì dinanzi all'incedere di un cuvaliere. Avver tito di quegli avvenimenti singola' tsdcmmmdladsA(1) Questura. (2) Flauto pastorale di rame. (5) Questore. (4) La Legazione di Francia era retta in quegli anni da S. K. d'Ot'lues* son, padre di Wladimir d'Ormesson, attuale redattore di politica estera nel * Figaro *. (5) Subii email n aveva proposto ili riprendere a sue spese gli scavi di E:colano. (6) Evviv- ri, il re in persona, S. M. Giorgio I veniva a vedere «gli Achei». Montava una mite cavalla bianca, che avanzava al passo nel canale umano, girando un pò a destra un pò a sinistra, come a chiedere scusa, gli occhi ?naZincontci e dolci. Sua Maestà portava al solito la piccola uniforme di ammiraglio, e con la destra guantata di bianco un pò si arricciava le punte dei lunghi baffi da mandarino, un pò si toccava la visiera del berretto piatto e calato sull'orecchio. Qualche zito (6) si levò tra la folla, spontaneo ma inopportuno: il grande atteso in quella giornata in cui stava per essere risolto il più misterioso caao di palingenesi o di metempsicosi, non era il re, ma il professore Mistrioti. Questi èra il titolare della cattedra di filologia all'università, il solo uomo in tutta Atene che conoscesse il greco antico nonché de jure, ma de facto. Questo almeno proclamava la fama, "perchè una certezza derivata dall'esperienza, nessuno la poteva dare. Mistrioti fa la spesa Mistrioti era classicista e carpofago. Aveva sollevato l'Università contro l'irriverente tentativo di recitare Sofocle in moderno,,e ogni giorno, finito il suo corso sui dialetti comparati dei Dorii, degli Ionii e degli Attici, si fermava alle mostre dei fruttivendoli di via Patissia, e si sceglieva da sè, lentamente e impudicamente, le frutta destinate al suo pasto da scimmia. Cacciava il dito nelle piaghe delle pesche, strizzava la goccia di latte dal collo dei fichi, ascoltava all'orecchio i poponi, poi, carico del proprio pasto, s'avviava a consumarlo, strascicando i piedi per terra e sollevando una nube di pol¬ vere; perchè Mistrioti, simile in questo a Michelangelo, soffriva di uno strano sfaldamento degli arti inferiori, epperò camminava senza sollevare i piedi da terra, al modo dei ragazzini che movendo le braccine a stantuffo e facendo « puf puf » con Za bocca, imitano la marcia della locomotiva. «c Arrivederla, kirie katheghetés! » gli gridava dietro il fruttivendolo, al che il filologo offeso, voltando di scatto una faccia da scimmione punto al sedere da un ferro arro¬ ventato, ribatteva: « Katheghetà, somaro! ». Mistrioti somigliava al suo lontano antenato Socrate, ina diversamente dal figlio di Sofronisio, portava il tubino e la velada, degli occhiali da falegname e delle scarpe da bagonghi. Mentre il corteo saliva al Kòpamos, alcuni previdenti erano andati a cercare il filologo nella sua casa di scapolo, come il solo uomo capace di entrare in comunicazione con « gli Achei ». E ora « il signor katheghetés » saliva Za collina in gran pompa, il tubino a sghimbescio e il corpo stravaccato tra le anfore come un sileno ubriaco. Perchè considerando che con tsuo passettino da vaporiere puerile il professore avrebbe messo semesi a far la strada a piede, lo avevano issato sopra una susta coperta di festoni e sonagliere, ossia una di quelle cariale a due ruote e con le pareti dipinte che laggiù sono adibite al trasporto dell'acqua di Munissi, la quale è per gli Ateniesi ciò che per i Romanè l'acqua Acetosa: un dissetante e un leggero lassativo. Al suono dei bubboli, la folla ondeggiò e spumeggio di voci. Il filologo fu sollevato di fra le anfore, deposto a terra come una massa informe di stracci e di pélisospinto sui molli piedi di gomma fino al margine della folla, oltre il quale cominciava la zona della misteriosa colonia. Gli Achei continuavano a vivere tra loro, senza dare uno sguardo attorno. Avevano finito di cenare, parlavano sottovoce, riassettavano le posate di lucido metalloi bicchieri a telescopio. Il bimbo si era addormentato sopra un lettuccio pieghevole e fornito dogni perfezionamento. Mistrioti si tolse il tubino, sraddrizzò gli occhiali di ferro, e con una voce tirata dal fondo devisceri, pronunciò: — O andres... Ma si fermò a bocca aperta, e voltandosi con gli occhi stralunati gridò: — Ma questi greci antichi parlano inglese! E aggiunse in un soffio: — Con l'accento americano. Alberto Savinio (Continua) Una interpretazione della Duncan ta grande Isadora