La guerra sul Pasubio di Antonio Antonucci

La guerra sul Pasubio Al fronte dopo vent'annl La guerra sul Pasubio Chilometri di gallerie nella roccia per difendersi dalle artiglierie e tonnellate di mine per far saltare le vette imprendibili (DAL NOSTRO INVIATO) VICENZA, giugno. Quando, dal massiccio del Pasubio si è rldiscesl al piano, quella specie dì stordimento che isola l'udito dal cervello non deriva soltanto dalla variata pressione atmosferica; ci si sente bene un postumo di vertigine e un diffuso sgomento, provocati dal ripensare alla guerra combattuta lassù e dal fatto di essercisi arrampicati. Il Pasubio è un bastione dalla sommità alquanto vasta e frastagliata, con un massimo di 2235 metri sul livello del mare a Cima Palon, splendido come soggetto panorarr i'co e malvagio per configurazione. In vai Posina, in vai Leogra, e in Vallarsa (est. sud, ovest, cioè dalla nostra parte durante la guerra) finisce di schianto con pareti assurde dalle quali riAustria si affacciava in casa nostra, scarsamente animata da simpatia militare e politica. Occupato con un colpo di mano nel maggio del '15, fu parzialmente perduto nella offensiva austrìaca dell'anno successivo che ci ridusse alle ultime vette e c'impose per due anni tal somma d'eroismo da superare le normali capacità immaginative. Nell'accìngermi a parlarne, esito; da un lato mi turba l'insufficienza delle parole, dall'altro il timore dell'enfasi o dell'apologetico. Che mi sia perdonato dove scivolo o dove non riesco a salire. Una battaglia che non è finita Il campo . di battaglia conteso per oltre due anni è un guazzabuglio di erode, guglie, gobbe, canaloni, imbuti, il tutto dominato da due denti che una Belletta divide e che poneva gli avversari nell'atteggiamento di due atleti impegnati a « braccio dì ferro ». Bisognava a ogni costo piegare o schiantare l'altro. Forza, costanza, astuzia, sotterfugi, malizia, genialità, tutto fu messo in opera per giungere allo scopo e, in tal modo, si creò sulle Alpi un supplemento dì Carso con qualche brivido in più. A percorrerlo oggi, il Carso non dà sempre la sensazione immediata della lotta combattuta tra vette e doline; il Pasubio soffoca, eppure non racconta che una parte del suo dramma. E' vero, a camminarci, l'altopiano del Pasubio si presenta più dolce; gli è che la neve ha polverizzata alquanta pietra e il disgelo l'ha diffusa in.tappeti; ogni tanto sbucano, a ciuffi, fiorellini bianchi con il gambo in economia e l'aria svpsvptiècpsi , quil poledivoritofoloveinbuprelrimstpagr| pnnustdspsasubmèlosdrcsssnbsmDa parte austriaca, per fermar- j pMcnvalocgtnalcfrnsldètblvclstupita. Ma, se da ciò può derivare una prima sensazione di riposo, questa è sopraffatta ben presto dal tormento tutt'intorno, dove spiccano ancora le ferite del piccone e degli scoppi. Dopo vent'anni, il duello tra le intemperie i camminamenti e le trincee non è ancora finito; se 11 freddo contrae i pali di legno e li sposta, se il disgelo sgretola le pareti e le accosta, se porta dall'alto pietre e poltiglia per cui qualche tratto di fosso è invaso, colmato o sommerso, visto in blocco il labirinto delle incisioni non sembra neppure intaccato ed appare sempre nella sua maestosa tragicità. Passiamo al campo invisibile. PRIMO: le gallerie. Il fuoco concentrato di cannoni d'ogni calibro spintisi ad altezze inverosimili, le mitragliatrici e i fucili situati talvolta alle spalle, rendevano inabitabili le vette, costringendo cesi a cercare riparo nelle caverne. Se non esistevano, bisognava crearne. Da parte nostra, una tubatura in ferro lunga oltre cento chilometri faceva salire dai 1000 metri l'aria compressa Indispensabile ai martelli perforatori: e, batti oggi, batti domani, le posizioni più contese ebbero intere città sotterranee. Meno comode di quelle in pianura, afflitte da irreparabili correnti d'aria, gelate dalla tormenta che vi spingeva dentro folate di neve incuriosite — si sarebbe detto — dalla novità o in cerca di rifugio ma dove il cuore si riposava. La 2591 batteria di assedio ricordando in una lapide il tempo trascorso nella galleria Papa — oltre un'anno — ha sentito il bisogno di scherzarci su con l'incisione di un'ancora, ha aggiunto) però un quadrifoglio per significare che si trattava di una bella fortuna. Nel cuore della montagna ci a un solo elemento, il dente contava sei chilometri di gallerie, sventagliate da tutte le parti per affacciarsi nel vuoto con mitragliatrici e cannoncini, per salire alla superficie o tuffarsi nel ventre della montagna. Certo Pietro Magnaguagno, montanaro, entratoci per curiosare, perdette l'orientamento e, dopo quattro ore di tentativi poco allegri, infilò la finestra di una cannoniera rischiando la discesa per un grattacielo di pietra piuttosto che attendere un soccorso ipotetico. Ma, agli effetti della guerra, ripararsi non bastava: bisognava anche offendere. Noi possiamo vantare gli attacchi dei battaglioni alpini « Monte Berico » e « Aosta » per la conquista del Dente e del Cosmagnon, come esempio sublime di eroismo singolo e collettivo, di obbedienza cieca ai comandi e di alta acrobazia. Dal punto di vista pratico, taluni settori erano e restarono « imprendibili ». Non restava altra alternativa che farli saltare. Così bracci ladi galleria si spingevano lontanissimi, provocando un identico lavoro dalla parte avversa per opporre all'eventuale mina una contromina che la prevenisse o la neutralizzasse. Nove furono le mine più importanti fatte saltare sul Pasubio; l'ultima, la più formidabile della guerra mondiale, si accese nelle prime ore del 13 marzo 1918 scardinando la vetta del nostro dente con una serie di scoppi apocalittici, accompagnati dai tuoni delle dugeccrcgamvgvalanghe provocate ai lati. Oltre jl53 mila chilogrammi di ecrasite, ;cdinamon ed esplosivi minori, si j attlsscossero dì dosso settanta metri di roccia, rovesciandoli nelle vallate o facendoli ricadere in formidabili massi sul posto. Venticinque metri d'intasamento (buona parte in cemento armato) non valsero a proteggere la stessa galleria austriaca che fu invasa dalle fiamme e che contò duecentocinquanta vittime, tra cui, ferito, lo stesso costruttore. Ingannati da un compressore che continuava a borbottare a vuoto e che non lasciava presumere l'accensione, noi per-IRdemmo 487 uomini della brigata ! oPiceno, sulla cui tomba, rimasta:scome allora, vigila oggi una ma-1 vevdonnina collocatavi dai compagni Lo spettacolo della montagna crollata afferra in un nodo di commozione che non è soltanto pietà fraterna per i sepolti: l'assurda architettura dei massi rimescolati, presenta in breve spazio e li riassume, i titanici tentativi delle due parti per vincere. Ancora d qualche giorno e sarebbe saltato il dente opposto, lasciando ai nipoti un identico scenario di violenza e di forza. Un altro nemico: la neve Secondo: la neve. Salvo qualche lenzuolo bianco di sapore più che altro decorativo, la neve se ne è già andata. Ma ritornerà presto seppellendo tutto sotto un lenzuolo bianco prò- ' fondo sei e anche otto metri. Allora il paesaggio si trasforma, diventa irriconoscibile. La stessa innocenza copre il sentiero e il burrone, fa risplendere il sole e prepara la valanga. Durante l'inverno 1916-17 gli elementi esagerarono in cattiveria senza che per questo gli uomini diventassero buoni. Sulle strade faticosamente aperte per il passaggio dei rifornimenti, una grandinata di shrapnels basta a provocare le valanghe artificiali e non si mangerà per qualche giorno; basta un nonnulla a deviare un torrente con conseguenze disastrose; si gela; mezz'ora di vedetta è un martirio. Le gallerie scavate nella neve non sono al riparo da quelle avversarie che sboccano improvvise perchè non annunciate dal motori e dagli scoppi; ecco piombare addosso una squadra di sciatori, vestiti di bianco e indistinguibili; inutilmente le artiglierie li inseguono: è più facile colpire a volo l'uccello mosca. Bisogna essere sempre svegli e c'è invece un gran desiderio di dormire. Nei ricoveri, il riscaldamento è soltanto fumo che accieca. Non importa, si resiste. Terzo: ì rifornimenti. Bisogna tutto portare dal basso a cominciare dall'acqua. Questa scivola, penetra, scompare nella natura carsica della vetta e bisogna ricercarla assai giù. Sessanta chilometri di tubatura alimentata da motori rincorrono il j prezioso elemento, lo fermano a Malga Buse e lo riportano sulla cima. Un guasto è una sventura. Le teleferiche in numero di nove accorciano le distanze tra vetta e vetta, ma non bastano. La alimentazione è affidata alle colonne di uomini e muli e a qualche autocolonna. Ma il nemico vigila. Nei tratti scoperti, se li protegge la nebbia, tira a tentoni. Di notte, gli autoveicoli non possono accendere i fari e si affidano per le curve alle segnalazioni di un conducente appollaiato sui parafanghi. Troppo poco e troppo pericoloso. E allora i rifornimenti non arrivano. Per gli altri, pensano le valanghe o le frane. Nell'ansia l'appetito cresce, il pasto diventerà più gustoso, è vero, ma è un aperitivo pagato a prezzo troppo caro. Per liberarsi da un simile tributo nacque la strada delle 6S gallerie che affronta il Pasubio nel versante sud a 1210 metri e, incurante della nudità delle pareti, le taglia, le buca in linea retta o ) e o l i la spirale e giunge fin alla vetta a ; a e e e del Pasubio con ardimento uguali. Il genio militare, che In questi giorni si aduna a Vicenza, può essere fiero della sua opera cosi come lo può essere l'ente provinciale turistico che ha riattato il riattabile, portando il Pasubio a contatto con il turismo più esigente. La strada degli eroi che ha allargato il sentiero antico è una meraviglia per gli amatori di brividi. Intitolata agli eroi della guerra, racconta l'eroismo di chi e jl>na tagliata poi, e ne lascia qual, ;cne briciola per chi la percorre i j adesso. Eroismo compensato subi¬ to dalla magnificenza dello spettacolo offerto dalla natura e dalla storia, insieme, e ben poca cosa, certo, in confronto del primo. Antonio Antonucci. i a La strada del Passo di San Boldo, a gallerie elicoidali.

Persone citate: Malga Buse, Pietro Magnaguagno

Luoghi citati: Aosta, Carso, Posina, Vallarsa, Vicenza