Come vivono e lavorano i nostri contadini in Germania

Come vivono e lavorano i nostri contadini in Germania Come vivono e lavorano i nostri contadini in Germania In settemila fattorie risuonano voci e canti d'Italia Esperienza e serietà - I ritratti del Re e del Duce (DAL NOSTRO INVIATO) LUNEBURG, giugno. In Germania, adesso, può anche capitare questo: di udire canzoni italiane, se andate nelle strade di campagna. Così è capitato a me. In auto percorrevo una strada secondaria, da Francoforte s'andava a Darmstadt, e ad un certo punto ci si fermò perchè un passaggio a livello era chiudo. Nel silenzio della campagna, in quel fermo silenzio del pomeriggio estivo, sentii una voce e sebbene le parole mi giungessero confuse, strascicate, quella voce, per la sua cadenza e la sua dolcezza, non poteva ingannarmi. Guardai al di là di certi alberi, dov'erano tre contadini che lavoravano; uno soltanto cantava, gli altri due a coro riprendevano l'ultimo verso e lo ripetevano. « Son trenta mesi che faccio il soldato — una leterina me xe arivd ». Discesi dall'auto e così, per la prima volta, incontrai tre contadini italiani in Germania. Primo incontro Il più anziano, credendo io aressi bisogno di qualche cosa, mi venne incontro: camminava calmo e pacifico, come fosse stato nei campi del suo paese. Gli dissi chi ero e anche aggiunsi, per non impacciarlo troppo, che il mio compagno era un giornalista tedesco; ma lui non era impacciato, accettò quella presentazione con un sorriso e rispose: mio mi chiamo Sante Pasotto, contadino italiano », poi indicò con la mano i suoi compagni: « Quello piccolo è Bruno de Carli, l'altro Plinio Lanza, siamo tutti di Verona ». Bruno de Carli continuava a cantare mentre lavorava e noi gli andammo vicino per salutarlo. Cercai di farli parlare della loro vita, ma a loro tutto andava bene, Pasotto diceva che gli altri due più giovani non potevano nemmeno capire come e quanto le cose fossero cambiate dal tempo in cui lui, prima del '15, se ne andava all'estero. Il vecio era -orgoglioso di come lo trattavano, e non perchè fosse un uomo chiamato Sante Pasotto, ma perchè era italiano. La parola italiano, il nome Italia prendevano sulle sue labbra un improvviso suono misterioso e particolare, quando seppero che andavo a Darmstadt, Pasotto disse di visitare il grande podere della città, avrei incontrato un bel gruppo di contadini, erano dodici uomini e tre donne. « Se ci va, aggiunse, mi saluti Vittorio Acordi, che è il caposquadra. Noi ci vediamo qualche volta, la domenica ». Questo fu il primo incontro, veloce e 'senza alcuna importanza, un incontro spontaneo e casuale, ma molti altri poi seguirono. Perchè, a prendere oggi una carta della Germania e metterci sopra tante bandierine tricolori, segnando cosi il luogo dove un contadino italiano lavora, sarebbe un affare complicato. La campagna tedesca risulterebbe tutta ricoperta, alcune zone scomparirebbero sotto il tricolore. Forse settemila bandierine non basterebbero ad indicare tutti quei luoghi in cui, a gruppetti di due, di tre, al massimo di quindici, i trentamila nostri contadini vangano, potano, sarchiano, raccolgono. Si sono sparpagliati, si sono ficcati nei paesini di provincia, sono andati in fattorie remotissime, dove arrivi con l'autocorriera o con il calesse. Dal nord al sud, dall'est all'ovest trentamila bandierine tricolori: uomini carichi d'esperienza, ragazzoni magari già fatti bruni dal sole d'Africa o di Spagna, qualche loro moglie o sorella o figlia; e sono venuti da tutti gli angoli d'Italia, dal Veneto alla Calabria, per far vedere due cose molto chia re e semplici: come sappiano vi vere e lavorare. Certo, ascoltai il consiglio di Pa sotto, e a Darmstadt cercai il po dere della città, andai a trovare il signor Muller che lo dirige, e volli vedere i nostri contadini. Era quasi notte, il grande cortile del cascinale giaceva in un'ombra discreta, dalle stalle veniva un caldo odore animalesco. Il signor Muller lo incontrai, era un cortese gentiluomo di campagna e fu felice di guidarmi alla casa degli italiani. Arrivai al primo piano, lì molte porte erano aperte, sentivo un chiacchierare allegro, per caso m'imbattei in un giovanotto che usciva con un paio di scarpe nelle mani e gli dissi che volevo salutare Vittorio Acordi. Mi condusse in una camera, tre uomini stavano seduti sui letti come in attesa, un quarto davanti allo specchio si pettinava. « Acordi, ti cercano » disse il giovanotto. Acordi si voltò, depose il pettine e mi sorrise. « Stiamo andando a cena » disse sùbito. Li vedevo cosi tranquilli, con quella compostezza dignitosa naturale al contadino vero, che tacqui per un attimo. Poi salutai e dissi: « Come state t ». Stavano bene. « E siete contenti d'essere venuti qui? ». Acordi mi rispose con una domanda; cioè disse, indicando il signor Muller che era rimasto sulla soglia: «Prima chieda a lui se è contento di noi ». I marchi a casa Dovetti sentir l'elogio di Muller. che finiva press'a poco così: avrebbe sempre voluto avere lavoratori di quello stampo, e la miglior prova era che già offriva loro di venire ancora l'olino prossimo, li avrebbe voluti tutti gli anni, nel periodo in cui maggiore è il lavoro da dedicare alla terr.a. Acordi rimase a sentir quelle parole con sicura fierezza, senza stupida modestia e senza inutile tracotanza; poi, quasi si dolesse di non averci pensato prima, chiamò i suoi compagni. S'era affacciato all'uscio, gridava Faccini, Guerra, Leoni e tutti gli altri nomi. Sbucavano dalle camere, venivano dal caposquadra, tutti lavati di fresco, pettinati, con la giacchetta, e pareva non a ! tavola, ma ad una festa dovessero andare. Avevo davanti un gruppo ordinato, guardavo quelle facce che sentivo della mia. razza, questi italiani che con cosi armonica scioltezza riportavano a galla un severo lavoro di anni ed anni d'educazione politica e sociale. Dissi che tutto il bello lo conoscevo già, sapevo con quanta cura dirigenti nostri e tedeschi avessero disposto ogni cosa; mi dicessero il resto, dunque. Sorridevano, perchè il contadino non ama il piagnisteo o il lamento, poi uno anziano, che stava in disparte, si rivolte ad Acordi: «Digli dei marchi-». Così fu, la prima cosa che mi dissero non riguardava loro direttamente, ma interessava coloro ch'erano rimasti a casa. Il contadino è attaccato alla sua terra, è attaccato ai suoi affetti, può anche andar lontano di casa e lavorare, ma quando pensa, sùbito pensa alla sua terra e alla sua casa. Acordi mi spiegò di che si trattava, loro guadagnavano dei marchi e volevano mandarli in Italia. Nel primo mese una disposizione permetteva di inviare soltanto dieci marchi che venivano registrati sul passaporto; e proprio in quei giorni avevano saputo che, nuova concessione, altri dieci marchi potevano essere spediti settimanalmente. Afa bisognava onda re alla banca, riempire un modulo, e già molto avevano discusso tra di loro. Acordi tirò fuori una circolare, la lesse con calma, la si interpretò con pazienza, e quanto dovevano fare era spiegato dalla alla zeta, e così furono tranquilli (A furia di dieci marchi hanno già inviato dieci milioni di lire). C'era altro f Sì, ma roba di nessuna importanza, ne parlavano come fossero chiacchiere del più e del meno, fi sa, in Germania, non si trova vino come da noi, onesto ed a poco prezzo; si mangia poco pane; non amano la pasta. « Noi ci aggiustiamo » soggiungeva A cordi, « la nostra fortuna è d'aver donne delle nostre parti che ci fanno da mangiare ». « Si beve acqua » diceva qualcuno, con quella felice adattabilità della nostra gente; « invece di patate ci facciamo dare farina » diceva un altro, contento di dimostrare che non mancavano d'iniziativa. Parlarono ancora di certi contributi assicurativi che, per via del cambio, erano un po' elevati. Ma fu argomento appena toccato, perchè il contratto di lavoro parlava chiaro, e sapevano che bisogna tener fede senza discutere: in quel contratto, e dal come lo tiravano in ballo, sentivo che v'era impegnato il loro onore. Apparve, a questo punto, una donna con la mal dissimulata premura della cuoca, quando il desinare è pronto e teme che tutto si guasti. Li accompagnai nella camera che avevano destinato a refettorio. Sulle pareti erano appiccicate due tavole a colori d'un nostro settimanale: il Re, il Duce. Ricordai d'averle viste l'anno passato, erano apparse nel priyno anniversario dell'Impero. Qualcuno di quei dodici uomini le aveva tenute da parte, se le era portate chiuse nella sua valigia di fibra, che è come dire amor di patria senza retorica. Così vidi, per la seconda volta, nostri contadini. Quando l'auto usciva dal cortile della fattoria, alle finestre della loro casetta mi salutavano col braccio alzato. « Puon ciorno » E passarono molti giorni, il mio viaggio mi portò al nord, verso Amburgo. Quando potevo li cercavo. A Garlstorf trovai sei uomini, venivano da Reggio Emilia, ed il fattore li-rimirava come fossero suoi ragazzi, temeva sempre che mancasse a loro qualche co3G, che mangiassero poco. Trovai lì quel giovanottone, Aldo Bruno: lui e i compagni volevano una macchinetta per tagliarsi i capelli, che non s'azzardavano ad andare dal parrucchiere locale, abile a rapar teste all'uso prussiano, ina inabile per altro più gentile taglio. I contadini tedeschi, passando, salutavano con un « heil Hitler », e loro rispondevano «heil Mussolini». Sapevano che vuol dire evviva; ma Aldo Bruno aveva imparato un'altra parola, e la ripeteva quasi cercasse la pronuncia esatta, « liebe » diceva, sorridendo astuto. Il figlio del fattore, visto che uno ci aveva la chitarra, volle imparare a suonarla. « E suona già bene, mi diceva Soressi, ma per ora soltan» AmafuiHccusdlvnd to Giovinezza gli ho insegnato ». Una volta capitai a Liineburg. E' una quieta città di provincia, ci saranno cinquanta chilometri da Amburgo, siccome era di buon mattino le donne andavano svelie al mercato, si voltavano appena a curiosare i nostri volti foresti: e fu una di queste donne ad insegnarci la strada per raggiungere Ochtmissen. C'era una stradetta di campagna, lasciavamo dietro una colonna di polvere bianca, ed io mi ripetevo il nome.del fattore Hermann Garben per non dimenticarlo al momento buono. Hermann Garben ha una casetta di mattoni rossi, e le finestre dipinte di bianco. Quando mi vide mi salutò con un « buon giorno », veramente disse « puon ciorno » e si mise a ridere perchè quelle due parole italiane gli sembravano una bravata. Ci guidò nel campo. Ad un tratto si fermò, con la mano indicava due che lavoravano; ce li mostrava compiaciuto, come chi riconosce di aver avuto buon fiato nel condurre un affare. Mi avvicinai e feci così la conoscenza di Emma e Pietro Rossi di Carpando, provincia di Vicenza. Quel giorno fui felice, e Pietro Rossi non lo dimenticherò. Giornale e radio < Come va », gli dissi, tanto per cominciare un discorso. Guardavo Pietro Rossi, uno dei trentamila, e, gentilissimo Hermann Garben, io si che ero compiaciuto nel guardarlo, nel sentirlo, nel vederlo come lavorava e come viveva. Rossi stava davanti a noi diritto, sicuro, anche la presenza di altre persone non lo impacciava, parlando si rivolgeva anche a loro, quasi potessero capire il suo italiano, con un cosi misurato istinto di cortesia e di tono da far meravigliare. Rossi diceva che ogni cosa andava bene: il contratto era stato rispettato sino allo scrupolo, il fattore in segno di stima non gli aveva nemmeno trattenuto quei marchi sulle prime paghe settimanali che devono formare il fondo di garanzia, restituito poi a fine campagna, e che cosa c'era da voler di più.* 71 vitto buono, soltanto nei primi tempi, freddi e piovosi, e senza vino, con poco pane (le patate non bastano) difficile era farlo « rendere »; la terra ottima, e lui era sicuro di sfruttarla meglio. « Guardi » e indicava i margini, certe strisele vicino alla strada, sentieri troppo larghi, «è tutta terra che non pensano nemmeno di seminare. Un podere come questo, da noi, darebbe tanto », e diceva cifre e cifre, con quella sua esperienza fatta durante trent'anni di lavoro. Parlava sereno, pareva dicesse di terre che da tempo conosceva, con la naturalezza degli uomini sinceri. Due giovani contadini che lavoravano sotto la direzione di Rossi ci guardavano, le nostre parole, a loro incomprensibili, dovevano eccitare la fantasia; allora gli domandai come faceva a dar ordini, lui che parlava italiano e basta. « Oh, quelli mi capiscono, io in due mesi non ho ancora imparato una parola di tedesco, ma insegno a loro Vitaliano. Lo insegno anche al fattore, così andrà a finire che fra quache mese io non parlerò il tedesco, ma loro si che sapranno parlare l'italiano. Intanto la moglie gli stava al fianco, era una donna alta e forte, aveva un volto chiaro e due occhi furbi pur nella ritrosia di quel momento. Rossi portava la camicia nera e stava sull'attenti, faceva il contadino e parlava italiano. Era della stessa razza di quelli che, andando per le vie del mondo ed incontrando il Gran Turco, gii parlavano in veneziano: e deve capire se vuol far commercio. Poi Rossi e sua moglie mi accompagnarono verso la casa del fattore perchè volevano mostrarmi dove abitavano. Erano due camerette pulite, si sentiva la mano della donna in ogni cosa, e dissi che proprio erano belle, non mancava nulla. «Manca, mi rispose, un giornale italiano ». E fu lui a sttaaerirmt di dire al fattore che mettesse, alle otto di sera, per dieci minuti, la radio sull'onda di Milano o di Roma. Si combinò presto la cosa, Hermann Garben disse che, se lo avesse saputo prima, da un pezzo lo avrebbe accontentato. Da quella sera, Pietro Rossi è un italiano che può sentire le sole notizie che lo interessano: anche questo è amor ài patria senza retorica. Enrico Emanuelli Maria e Giovanni Paganuzzi, di Garpaneto, (Campagna di Liineburg).