Il mestiere del poeta

Il mestiere del poeta LA MAESTRA DELLA VITA Il mestiere del poeta I trovatori nell'ora del chilo - L'influenza dei provenzali ed altre fanfaluche -1 bohèmiens del Medio Evo - Voglio discendere da Ercole - Un poemetto di 14.233 versi - Pubblicità per la Casa Este e l , l i i — — i l -1 wi i o a , l n -\ ! i ' Ricordiamo, come fosse ieri, quel pomeriggio di maggio. C'era lezione d'italiano alle 14,30, ora quanto mai inopportuna dato il caldo, la pesantezza della digestione e il sopore che la primavera scoppiata ad un tratto ti pone nel sangue. Strano sopore che fa seguito ad accessi improvvisi e fierissimi di vitalità. Ricordiamo perfettamente. Il professore — un uorr.o sui cinquant'anni, tutto grigio e sempre diligentemente vestito di nero — dorerà parlare quel giorno, ultimato già il progromma di storia letteraria, di un argomento a lui specialmente caro: i trovatori provenzali. Egli faceva ogni anno alcune di queste lezioni complementari così come i macellai ti danno la giunta su un chilo di bollito. «Godi, o popolo.'». I Ilavatori appartenevano a questo sovrappiù elargito a fin d'anno ai pustolosi e magri liceali che si sciroppavano la lezione ad occhi sbarrati. Sicuro! Tanto era l'allenamento, che si riusciva, in quei pomeriggi, a sbarrare le pupille vitree, tanto simili a quelle dei pesci frigoriferati. dormendo di un sonno di piombo, catalettico e tuttavia così in pelle in pelle da far balzare in piedi al primo richiamo e rispondere balbettando qualcosa non del tutto lontana dall'argomento. Un certo Stefanari era specialmente abile in questo giuoco del sonno. — Stefanari! — chiamava il professore. Eccolo là già in piedi. — Mi dica, di che cosa ho parlato? Egli rispondeva, disquisiva, elucidava con una, maestria diabolica. Pareva che le sue orecchie avessero udito e che la sua mente avesse digerito l'argomento. Noi dormimmo. A occhi aperti ma dormimmo. Tanto che sui trovatori, per lunghi anni si ebbe una imperdonabile lacuna. Un giorno, però, dovendo trovarci — non ricordiamo dove — con Arino flerrini, il quale in materia è un cannone — nessuno ha dimenticato (e come si potrebbe?) il suo Rambaldo dì Vaqueiras — ci vedemmo costretti a fare una capatina in biblioteca. Se il discorso fosse caduto sui trovatori ci saremmo esposti ad una pessima figura. A parte il fatto che invece si parlò di diritti di autore, di fanciulle e di un ristorantino dove si mangiava bene, l'iniziativa ci portò ad una sorprendente scoperta. Scovammo infatti, in biblioteca, un ìibricciolo mingherlino e stiticuzzo che ostentava il dotto titolo: «L'influenza dei trovatori provenzali sui poeti della scuola siciliana » tesi di laurea del Professor X Y ». Chi era X Y? Il nostro insegnante d'italiano. Ah, briccone! Dopo esserti specializzato nella materia, avvelenavi i nostri pomeriggi primaverili. E nell'ora del pisolino (infame!) ci angustiavi con Peire Vidal, Ramon de Tolosa, Lanfranco Cigala e Sordello Mantovano! Grande importanza tutti i professori attribuiscono a questi trobador e ai joglar, parlando della origini della nostra lingua. Pèrdono attorno ad essi due o tre lezioni, con citazioni, letture di | versi banalissimi e aitre corbellerie. E poi, a fin j d'anno, per fare in tempo ad esaurire il program- j ma, ti sbrigano il povero Leopardi in mezza le- \ «ione. II recanatese, cosi, continua ad essere infe- j lice anche dopo morto. Ma parliamoci chiaro, chi erano poi questi trovatori? Il romanticismo ha fatto loro una vasta pubblicità, ha messo loro indosso resti di velluto e di sciamito, facendoli vagare di corte in corte con la viola sotto il \ braccio, a godersi l'amore di gentili castellane, j Bubbole, bagattelle! Letteratura, insomma. Ci immaginiamo invece questi poveri diavoli | dopo lungo ramingare per strade e strade, arri- \ varsene infangati, puzzolenti di sudore, anneriti dal sole e dalla polvere, al ponte levatoio di un castello. E quivi invocare dal sergente degli armigeri l'ingresso. E giunti nella corte, quando la padrona e le ancelle si degnavano d'affacciarsi ai ballatoi dei piani superiori, cantare a pancia vuota: « O gentil rois, nobele e sovran, no me lasar morir a tei torman ?>, 0 peggio ancóra: « Quante sono le schiàntora che m'àì mise a lo core. Femina d'esto secolo tanto non amai ancore... ». E poi, ottenuta licenza di sedersi a mènsa con i servi e consumata una zuppa assai peggiore di quella che il castellano dava ai suoi alani, era loro concesso altresì di giacere per una notte su un saccone di paglia o, l'inverno, in un angolo della stalla. Rambaldo di Vaqueiras, mercè la sua tresca con Beatrice di Monferrato, se la passò altrimenti, è vero; ma i trovatori in genere condussero quella vita, se non peggiore. E anche dopo morti, non furono stimati degni di sepoltura in terra consacrata. Li seppellirono in un campo fuor delle mura, come cavalli crepati sotto le stanghe dì un carro. Gentili poeti dalle mani bianche, omarini istruiti, dal colletto pulito e dagli occhiali d'oro; voi che scandite con le affusolate dita gli endecasillabi e i novenari alla greca, ricordate la vostra semenza. Queste furono le origini del vostro smagliante mestiere, cosi come talune casate principesche devono la loro gloria a progenitori assai poco per bene chet non paghi di aver assaltato e scannato i signorotti ricini (non certo migliori di loro), appostavano i pellegrini e li alleggerivano dei loro areii. Poeti, non dimenticate i trovatori. Voi derivate da loro, come già Pindaro e Teocrito, Orazio e Virgilio derivavano dagli antichi e poveri aedi. 1 trovatori furono i primi, dopo la barbarie niedioevale, a riprendere il mestiere di versaioli e ad occuparsi di quella strana cosa che è l'amore. E scopersero altresì — fatto peregrino assai per quei tempi — che rimava con cuore, con fiore e con dolore. Bella roba, direte voi, ma intanto immaginatevi che non ci sia e provatevi un pò ad inventarla. Con l'andar dei secoli il feudalesimo declinò lasciando il posto alle signorie. E i trovatori \ j | \ scomparvero, lasciando il posto ai poeti di corte. L'argomento, data la tradizione, era pressapoco sempre lo stesso. Tristano e la Tavola Ritonda, Re Artù e Isaotta la Bionda (Bionda bella bionda, sei come l'onda) tenevano ancora la palma dell'attenzione universale. Ma un bel giorno qualche consigliere, per ingraziarsi il signorotto, si lasciò sfuggire così, senza far le viste, una frase: — Messer Uguccione, sapete voi che fuvvi un tempo alla Corte di Augusto Imperator Romano un tal Virgilio? — Mai ne sentii covette — rispose il signore che era tanto prode quanto analfabeta. — Io ve Io dico e così è. E quello Imperadorè, si fè scrivere dal poeta un intero libro ove nurravasi esseie egli discendente dagli dei. — Alle guagnéle! — urlò il signore, tanto analfabeta quanto prode. — Non pretenderò certo di scender per li rami da Domeniddio. Ma almeno da qualche personaggio di conto. — Che ne direste di Ercole, messer Uguccione i — Salmisia, codesto nome piacenti sommamente. Chi era egli? — Uomo fortissimo qnant'altri mai. Il signore mandava cosi a chiamare il poeta, al quale passava alimenti e letto. — Atoveilami di alcunché — gli ordinava. — Canterovvi di Messer Tristano e come egli d'Irlanda se ne tornò in Brettagna... — proponeva umilmente il Vate. —■ Macché Tristano! Macché Irlanda e Bretagna! Venga il vermocanc a té, a Tristano et, al Re Arturo. Vo' un poema sulla mia famiglia o tu avrai mozzo il capo! ' Ed ecco il poveraccio negl'imbrogli. Fattosi un rimario alla meglio (che allora non esisteva quello di Sonzogno) l'infelice poneva mano ad un lungo poema in ottave per far pubblicità alla casata del suo signore. Non c'è niente da scandolezzarsi. Sicuro. Pubblicità; nè più e nè meno che pubblicità. Dante stesso (ci perdoni il sommo Poeta, se andiamo a frugare nella sua vita segreta, approfittando ch'egii non ha figli in vena di querele) Dante stesso visse buon tempo in casa di Cangrande della Scala. Siamo certissimi ch'egli promise al magnifico signore di Verona un posticino nel suo Paradiso. Si installò così nel suo palazzo e, quel che più conta, mangiò alla sua mensa. A tavola Cangrande rivolgeva spesso e molto cortesemente la parola al Poeta: — Che sta facendo ora, Messer Ali'ghierit — Lavoro attorno ad un mio poèma, Ohe chiamerò « Commedia ». — E di che tratta? — L'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. — Come, come? Non ha un argomento più allegro ? — Caro lei — saltava su Dante, aggiustandosi la corona d'alloro in capo — Si fa quel che si puoie e più non dimandare. I giorni intanto passavano. Non è a dire che Cangrande facesse gran caso di quel commensale: uno più uno meno... Ma, almeno per cortesia, un bel giorno arrischiò una domanda: — Beh, beh, come è andata oggi? Quanti versi ha fatto ? ' — Dodici. — Son pochetti. — Ma sono ben falli. Io li curo. — Ma il poema di quanti versi sarà composto ? — Guardi. Ho fatto tutti i miei calcoli. Credo che con 14.233 versi me la posso cavare. — Ammazzalo!.... E finora quanti ne ha fattif.— Eh... se non erro un tremila. — Son pochetti. — Ma c un lavoro pulito. Ci metterebbe la /Ir-»ia anche Omero. Cangrande alla lunga cominciò a in/astidirsitanto più che la camera dell'ospite era sopra la sua e nottetempo il ghibellin fuggiasco, in preda all'esaltazione poetica, passeggiava. Cosi un btl giorno il Signore della Scala fece capire all'Alighieri che sarebbe stato meglio far fagotto. Il poeta, per rappresaglia, non solo non incluse :! mecenate nel novero dei beati, ma tirò fuori In ben nota faccenduola del pane troppo salateAriosto e Tasso, valendoai4ÌyiWatli'.Paffr'r''' sa, alla Corte estense sepper9)if\P.mQ<>?*'lr'1. "'f gito. Specialmente il primo --^ malgrado ; f""'-"1 del Cardinale Ippolito — si creò un canf"co''oS una posizione tali che nella storia letteraria so".o superati solo da quelli di Metastasio, p;ta Cesareo di Maria Teresa. Nell'Ottocento Pindividualismo rcMtntico fè decadere questa forma di impiego, ifocti cominciarono a lavorare-in proprio. Sai" f'10'' 'artl' gianato con le poesiole, Uricuzzr su argomenti tutt'altro che atti a procurar deirro o, alla peggio, tavola e letto. Il poeta, non icendo più pubblicità per altri, si accorse uv bel giorno che, se voleva trovar lettori, era diir?" facesse pubblicità a se stesso. Con dei vers certo no: nessuno compra volumi pubblicitari Occorreva trovare un modo nuovo per far parl-re di sè. Vennero così fuori le vanie, le stravaganze, le follie, le pazzerellate drjli scrittori. Spuntano all'orizzonte della letteratura i gilè rossi di Theophile Gautier e il castelo a, torrette di Dumas; i corteggi cinquecenteschi di lord Byron e l'amante mulatta di Baudelai e. Manzoni pesa gli abiti, Hugo si fa seppellir,: col funerale dei poveri. Carducci frequenta osterie. Pascoli si cuoce il pane da sè; Tolstoi si confeziona aiuti c scarpe. Dostoiewski si fa mandare in Siberia. E la manici delle manie prende tutti, non solo i poeti. Kant, il loico tra i Mei, riteneva che i polmoni non funzionassero nella vita dì un uomo che un certo numero di volte già prestabilito e clic, inspirando più del necessario, mancassei pm presto la riserva di fiato e quindi si morisse. Faceva ci nomia di flato. E tuie nare la nota canzone; Kant quel mod impedì di into¬ no che mi piace tant. Nizza c Morbelli

Luoghi citati: Este, Irlanda, Monferrato, Nizza, Siberia, Verona