La marcia della disperazione

La marcia della disperazione il deserto di spile e pi sabbia La marcia della disperazione Una poiianghera, quattro acacie ecco questa è ftiscia Bor: e qui sorge la tenda dopo una giornata di tormento, di sole, di sete (DAL NOSTRO INVIATO) AISCIA BOR (Dancalia Me rldionale), marzo. Partiamo. La carovana, al fischio di Cosentini, s'è disposta in formazione di marcia. I cammelli si sono lamentosamente rizzati sulle scarne ginocchia chiazzate di calli neri e gonfi, su cui indugiano azzurre mosche voraci; lo staffile degli uomini Issa sibila sui loro dorsi, volteggia sulle spalle bigie a cui i legni del basto hanno consunto il pelo, hanno aperto piaghe sanguigne costellate di gocce tonde e dure come rubini. Il loro pianto, ora che la lunga fatica si inizia, è più vasto e profondo: dalle enormi mascelle gialle ove i denti larghi e radi mordono la corda schiumando bava, esce questa voce di dolore, si comunica come un contagio da bocca a bocca, domina l'atmosfera immota di quest'alba desertica. I cammellieri picchiano sugli omeri piatti che non hanno sussulto; paiono le enormi bestie automi di legno senza sangue e senza vita, gli occhi scavati nella fronte schiacciata non hanno luce, fissi qua e là in una loro vuota immobilità, globi di vetro grigio su cui la pupilla disegna una macchia fonda e nera. Il peso del carico li schiaccia a terra. Fra le sbarre della soma esce la gobba, goffa, mostruosa, e attorno ad essa san legate le corde che sostengono il peso; il ventre degli animali scava un solco nella sabbia e pare tutfurto, al colore, con il suolo su cui è disteso. Una femmina è gravida, la pancia enorme s'appiattisce sul terreno come una materia molle proiettata contro una roccia; non dalle gambe, ma dal grosso ventre malato tutto il corpo è sostenuto mentre la bestia riposa. Lo staffile s'accanisce più rapido, i cammelli si rizzano, si avviano in fila indiana al loro posto di retroguardia. Lentamente, su duecento metri di spazio, la carovana si forma. In testa i muli, attorniati dalla .scorta armata dei dubat, degli zaptiè, delle guardie; gli Issa, seminudi e fieri, chiudono la colonna e roteano nell'aria le lunghe lance lucenti. La battaglia dell'alfiere Ibrahim fa da alfiere. Cosentini gli ha affidato il gagliardetto tricolore che accompagna tutte le spedizioni della residenza di Aiscia nel deserto salato: un piccolo drappo di seta ormai ridotto a brandelli a cui fanno scorta d'onore due guardie vestite di bianco, i turbanti e le fasce rosso sangue. E poiché l'alfiere deve difendere sino alla morte la bandiera, il giovinetto somalo ha preteso il fucile. Gli han dato un vecchio Mauser senza proiettili, un ferra vecchio che da venfanni forse non spara più; Ibrahim se lo porta a tracolla, con piglio audace. E' oggi, per il fanciullo, giorno di iniziazione, da oggi egli diventa uomo, ha la sua arma e il suo orgoglio; l'ora più solenne nella vita di un somalo, il sogno di tutta una infanzia protesa soltanto a questo momento; che, in Africa, nessuno veramente vive se non possiede un fucile. Il drappo tricolore che precede di cinquanta metri la colonna sventolerà di fronte a noi, interminabilmente, durante la marcia, dall'alba al tramonto; Ibrahim camminerà dieci ore ogni giorno sulla sabbia e sulla roccia, a piedi nudi, gli vedremo al termine delle tappe più dure lo spa simo della fatica sulla fronte in fantile, ma non abbandonerà per nesstma ragione il fucile e tanto meno la bandiera; quando Cosen tini gli offrirà per breve tratto un mulo il ragazzetto si abbuierà nello sguardo come persona atrocemente offesa, continuerà a trascinare nell'inferno di sole le gambette esili ed esauste, continuerà a brandire nell'aria cocente senza soffio l'asta della bandiera. Infine Ibrahim avrà le piaghe ai piedi, sui polpacci i rovi e le spine avranno rigato di rosso la pelle nera, sarà dimagrito in dodici giorni come per una malattia improvvisa; ma terrà àuro, con volontà eroica, perchè i compagni maggiori i dubat gli zaptiè % cammellieri, lo guardano e da questa prova traggono l'auspicio per il futuro Si vedrà in questa « marcia » se egli sarà un soldato, se potrà servire « governo taliano » o se invece dovrà essere relegato in qualche villaggio della costa a cuocer burgutta nei /fetidi tucul ove le donne oziano é pettegolano. Lo spettacolo di questo fanciul lo che combatte Ja sua grande bat taglia con tanto fermo cuore ri marra fra i ricovrii più belli della nostra carovana dancàla; ci tor itera in mente il suo diniego re rìso ogni volta che gli offrimmo un goccio d'acqua, fa sfida del suo sguardo quando U> scherzo dei compagni metteva *t dubbio le sue qualità di resistenza e di coraggio; lo rivedremo saltellante sulla sab bia rovente lungo Feterno itine rario del lago Abbè, nelle terri bili ore pomeridiane quando pareva che la strada non dovesse finire più, che una maledizione so spingesse il pìccolo gruppo di uomini e d'animali verso una mèta irraggiungibile... La tappa di oggi ci porterà ad Aiscia Bor. Sulla carta fra i due punti, quello di partenza e quello di arrivo, intercorrono si e no una trentina di chilometri. E quando Cosentini, poco fa, dopo molte insistenze (il capo carovana non concede informazioni sul cammino, non dice .quando si arriverà ne quanti alt faremo e se troveremo acqua e quanti gradi avremo all'ombra. Impareremo oggi a non domandar più nulla, ad affidarci al destino, fatalisticamente...) ci disse: « ... si, una trentina di chilometri », la passeggiata ci parve breve e piacevole, poco più d'una gita domenicale nei boschi delle nostre vallate. Cosa sono da noi trenta chilometri, in quell'Italia che ora ci sembra così spaventosamente lontana, lontana nello spazio e nel tempo, e lontana anche dal nostro spirito, quasi soltanto il ricordo di un bene immenso goduto un giorno e che forse non godremo più, un miraggio, un arcobaleno di gioia che non vai neanche la pena di desiderare tanto la sua conquista è impossibile ? Ma tutto qui si rovescia, i valori si capovolgono, le misure non tengono più. Ci mettiamo in marcia verso le sei, alle sette il sole affaccierà fra le nubi già cocente come sul meriggio, verranno le otto e noi cammineremo, le nove le dieci le undici e noi cammineremo sempre. Scoccherà il mezzogiorno agli invisibili campanili del deserto, un martellar angoscioso di campane nel nostro cervello ci avvertirà che è l'una, che son le due, le tre; ci piegheremo sul dorso del mulo abbracciando il collo della povera bestia in un delirio di fatica che ci farà maledire il momento in cui ci siamo buttati nell'avventura, il sole ci sembrerà un coltello che ci apre le carni che ci squarcia le vene; e cammineremo sempre, e Aiscia Bor non apparirà oltre l'ultima duna, oltre quello che noi credevamo l'ultimo dorso di collina, l'ultimo sperone di monte... Questi trenta chilometri non finiranno mai. Ma in realtà, quando pianteremo le tende al tramonto essi saranno diventati sessanta, per giungere alla mèta avremo tracciato nel deserto immense curve, qua per evitare una catena, là per scansare un burrone, più avanti per raggiungere una zeriba, la sola nel raggio di una giornata di marcia, ove Cosentini sapeva di trovare un capretto vivo e ave re stasera la carne fresca. Desolazione Aiscia Bor, come ti abbiamo di speratamente desiderata durante le dieci ore del tuo infuocato cammino! E il nostro desiderio ti ha colorita delle tinte più belle, ti ab biamo donato ruscelli gorgoglianti fra ciuffi di capelvenere, palme grasse e basse da cui la mano poteva staccare datteri gonfi di zucchero, ombre vaste e fonde in cui ci saremmo sdraiati come in un letto d'amore e attorno a noi i cammelli con 'la pancia in aria avrebbero dimenato nell'alto gli zoccoli piatti sulle gambe magre legnose! E invece, Aiscia Bor, non sei neppure un paese, sei una disperata solitudine desertica, nei un ciuffo di tamerici e di acacie attorno a una pozza d'acqua, sei una duna di sabbia con un po di fango, sei un angolo d'Africa, il più triste e il più solo. Ma sia mo giunti a te come si ritorna alla vita dopo un'ansia di morte, sulla tua arida terra abbiamo rizzato la tenda come un nido di felicità. Dieci ore di sassi, di sabbia e di sole. La sabbia grigia, quasi bianca nel riverbero del cielo; i sassi neri, su distese immense, eruttati in tempi immemorabili da sconosciuti vulcani; il sole, protagonista d'Africa, un ardore senza nome, un tormento senza fine, una ossessione, un incubo. Gli animali, alla settima ora di marcia, acctisarono la prima stanchezza. Fu giocoforza fare un alt fuori programma e Cosentini Io concèsse con chiaro disappunto. Non si modificano i programmi di carovana, se non presi per la gola. E noi, che abbiamo imparato da stamane ad essere disciplinati, succubi, quasi vigliacchi, di fronte alla volontà del nostro capo, benediciamo muli e cammelli che ci concedono il breve respiro. Attorno a noi è una distesa piatta di sassi. Non un albero, non un arbusto, non un filo d'ombra. Ci scende a rivoli il sudore1 sul viso impastato di polvere, il casco è uno strumento di tortura che dobbiamo subire per non essere fulminati dal sole, siamo assetati e affamati. Ma in carovana non si mangia e non si deve bere. Piuttosto un bicchiere di ciai, bollente. Lo preparano i dubat della scorta e Cosentini me lo porge con gesto paterno. Ha un sorriso sulle labbra, quest'uomo burbero e buono, che mi vuol dire: « Faccio così per il tuo bene. Abbiamo di fronte a noi dodici jriomi di marcia. Bisogna che tu"ti abitui, che impari 10 stile del deserto. Bevi, stai sereno, tutto andrà benissimo... ». Avvicino alle labbra il bicchiere: la bevanda e disgustante. La mia gola vuole acqua, acqua pura, acqua fresca) l'acqua che abbiamo tanto disprezzato, che abbiamo ignorato nella nostra vita di ieri tanto ci pareva elemento naturale dei nostri giorni, l'acqua che adesso non c'è, che è chittsa nelle casse legate al dorso dei cammelli e che non possiamo prendere. Non si disfa per nessun motivo, che non sta gravissimo, il carico del cammello, ih carovana; imparo un'altra cosa, una ogni minuto, una più spiacevole dell'altra. Da domani mi farò furbo: una bottiglia di minerale nella tasca della sella ce la metterò sul serio, voglia o non voglia Cosentini. Questa è la Dancalia Ripartiamo. Deserto, solitudine, caldo. Caldo, caldo, caldo. Pianure, valli, montagne. Sassi e sabbia, sabbia e sassi. L'orizzonte è un barbaglio confuso, è una fascia di luce senza contomi, non sai dove finisca la terra e cominci 11 cielo. Gli indigeni annunciano di tanto ih tanto, con alte grida, il trascorrere lontano di un gruppo di gazzelle o il dirompere dalle tane di una famiglia di facoceri. Non me ne curo, avrò tempo domani, nei prossimi giorni, a conoscere la fauna di questo disperato paese; ora una sola cosa mi preoccupa, un solo egoismo mi domina: la mia stanchezza. Questa è la tappa di assestamento, ha detto stamane Cosentini; sembra a me ora la tappa della distruzione: Il mio capo fra lunghe pause mi rivolge la parola. Gli rispondo a monosillabi, villanamente; mi pare quasi di odiarlo. Non so ancora che sarà Cosentini, uno degli uomini a cut vorrò più sinceramente bene, il cui ricordo resterà indistruttibile nel mio cuore. Fadan Cavalle Furlabè cavalca taciturno al mio fianco. Il notabile della gente Issa ha preso molto sul serio il suo compito, capisce che l'ospite di riguardo sono io, vigila su di me con atteggiamento solenne. Mohamed l'interprete canta: canta da stamane, interminabilmente, le sue canzoni somale. Una nenia che mi esaspera, vorrei sparargli una fucilata per farlo tacere. La colonna si è snodata a lunghi intervalli da bestia a bestia su un chilometro di fronte: i muli, più rapidi, precedono i cammelli; gli ascari della scorta camminano in vasto, anello ai lati della colonna, sulle creste delle colline quando attraversiamo una vallata, disseminati in lontananza nei pianori. Questa è la Dancalia, la favolosa, la tremenda Dancalia. Aiscia Bor, un tamerisco, quattro acacie, una pozzanghera, un diluvio di sole. Angelo Appiotti pingesse il pìccolo gruppo di uomini e d'animali verso una mèta rraggiungibile... La tappa di oggi ci porterà ad Aiscia Bor. Sulla carta fra i due punti, quello di partenza e quello di arrivo, intercorrono si e no una rentina di chilometri. E quando Cosentini, poco fa dopo molte in NOSTRO INVIATO CUOCE

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