L'ASSEDIO DI TORINO: L'ERDE di Marziano Bernardi

L'ASSEDIO DI TORINO: L'ERDE PIEMONTE GUERRIERO BALUARDO D'ITALIA L'ASSEDIO DI TORINO: L'ERDE Mentre contro la città invincibile pia accaniti si sferrano gli assalti francesi, ogni torinese sente certa la vittoria. Questo valore stupendo, questo supremo senso del dovere si compendiano nel sacrificio dell'oscuro minatore Pietro Micco, il cui gesto sublime lo consacra Eroe del Popolo fEAGlCO agosto torinese del noe. Malgrado i disperati sforzi degli assediati, i prodigi di valore sui bastioni, malgrado gli oscuri quotidiani eroismi nelle gallerie sotterranee dei trecentocinquanta minatori comandanti dal capitano Bozzolina (è una vita di talpe che conducono costoro da tre mesi, una vita cui la morte — il lampo accecante, lo scoppio, l'orribile rovina— sto ad ogni istante in agguato), il cerchio di ferro e di fuoco che l'esercito francese del La Feuillade ha forgiato intorno alla città inesorabilmente giorno per giorno si restringe. Se l'investimento della capitale, ultimo baluardo ormai della fortuna sabauda, ha avuto inizio il 13 maggio, la vera e propria azione di approccio non è cominciata che ai primi di giugno con la costruzione di una terza « parallela », meno capace e profonda della seconda ch'è stata guarnita come per sfida ai torinesi di una gala di diciotto bandiere, ina tale da permettere il collocamento avanzato delle batterie. Da allora sessantasei cannoni e trentaquattro mortai tempestano senza tregua Torino di bombe e palle infuocate, di granate e di sassi, fra Ponente e Mezzanotte, tengono sotto un tiro micidiale due terzi della città giungendo a crivellar di colpi persino il Palazzo Ducale; e non si parla poi della Cittadella, dell'Opera a Corno, della cerchia di mura che va dal bastione di S. Ottavio al bastione di S. Barbara, dove più di trecento operai stentano a riparar di notte le enormi brecce che il bombardamento ha aperto durante la giornata. La popolazione s'è in gran parte rifugiata nei quartieri « nuovi », soprattutto nelle adiacenze di via Po, bivaccando sotto i tratti di portici già costruiti ed intorno all'Ospedale dpczuz della Carità; ed è insieme raccapricciante e commovente il brulicare di quei miseri fra le masserizie accatastate contro i pilastri, uomini, donne, vecchi, bambini in triste e precaria comunione d'esistenza; è «terribile ad-un tempo e toccante » — per dirla con Carlo Botta — la « mescolanza di quelle voci, o stanche per vecchiezza o pietose per sesso, o tenere per fresca età coll'orrendo frastuono dei ferri, dei piombi e dei bronzi militari di tante nazioni accolte a rulna od a salvazione della città bagnata dalla Dora e dal Po ». L'incrollabile fiducia Prodigi di valore sulle fortificazioni, ripetiamo, e giù nelle gallerie di mina profonde anche quindici metri; ma fino a quando i poco più di cinquemila difensori che ancora avanzano alla guarnigione torinese (ed erano al principio dell'assedio IO.CiOO!) potranno resistere ai quasi trentamila francesi, inferociti da sì lunga resistenza che ha messo fuori combattimento almeno tredicimila loro compagni ? Già lo scoramento serpeggia, invade qua e là i reparti, tanto che il conte Daun ha dovuto talvolta limitare le sortite, ad evitare diserzioni : inevitabili conseguenze, del resto, di una lotta stremante. E tuttavia a mano a mano che le settimane, tremendamente lunghe, trascorrono, e la città, malgrado il pauroso diminuir della polvere e lo spaventevole bombardamento ed i continui assalti dell'avversario ributtati con sanguinose perdite, non accenna a cadere, un oscuro presentimento di vittoria si impadronisce della popolazione e del presidio. Strano a dirsi, questo senso di certezza, prima assai vago ed insidiato dai dubbi, s'accentua in un'incrollabile fiducia non solo col passar del tempo ma col rincrudirsi degli stessi patimenti. Ormai, verso la fine d'agosto, quando già le fortificazioni esterne sono state perdute e rivolte dai gallispani contro la piazza, quando già fra l'8 e il 20 agosto la Mezzaluna del Soccorso è andata a un pelo dall'esser conquistata, sono se mai i capi, il Daun, il d'Allery, lo Schulenburg a nutrire inquietudini e — dopo l'attacco generale sferrato dai francesi la sera del 26 e ricacciato con durissima battaglia di quattordici ore — a ventilare, per un solo istante però, l'idea di abbandonare i forti della collina per rinvigorire con quelle truppe i reggimenti cittadini. Nè il popolo nè i soldati pensano più che Torino debba cedere. I granatieri scherzano. Un d'essi s'accosta al conte Daun che si trova sulla controscarpa del bastione di S. Maurizio e con una familiarità faceta che alquanto infrange il rigore della disciplina gli dice: « Ah, Signore, tutti i giorni io vado alla Porta del Soccorso, é questo non giunge mai! »; ma nella sua arguzia soldatesca (da « scarpone » oggi diremmo) c'è tutta la tranquilla tenacia del veterano che fra sè pensa: «pure questo soccorso arriverà » E se qualcuno avesse detto a quest'anonimo granatiere ricordato dal Solaro nel suo Diario: « Amico mio, la tua costanza è premiata: il Principe Eugenio sta passando il Tanaro ad Isola d'Asti, e fra dieci giorni quei francesi che non ti lasciano dormire con le loro pignatte d'inferno saranno volti in fuga, e il Piemonte libero verrà restituito al tuo Duca »? Ma chi se non padre Sebastiano Valfrè, il pio veggente che già il popolo gridava Beato, avrebbe potuto pronunziare simili parole confortanti? Ai santi il dono dei lieti vaticini, agli uomini d'armi le più positive realtà. Ed ecco il Daun, quel mattino del 29 agosto, aggirarsi felice tra i suoi soldati. Tutto lo rallegra in quelle ore decisive. Il contrattacco, concertato due giorni innanzi, e scattato dalle controguardie dei bastioni di San Maurizio e del Beato Amedeo, è pienamente riuscito, ahimè, col sacrificio di quattrocento nostri granatieri, di trenta ufficiali e del prode colonnello Rocca. Nella notte i fossi son stati riempiti di fascine e legnami, il fuoco è divampato penetrando nelle gallerie che l'avversario aveva cominciato a scavare, e quello spaventoso rogo ha snidalo i minatori nemici, creato un letto di tizzoni ardenti che, come scrive il Solaro, « nemmeno un piede di bronzo oserebbe varcare ». Giungono, si, di fuori delle notizie inquietanti, come quella dell'arrivo dalla Lombardia dell'esercito del Duca d'Orléans, forte di quattordicimila fanti e di tremila cavalli che rinvigoriranno le demoralizzate truppe del La Feuillade. Ma non importa. Raggiante, il maresciallo Daun strin-\ ge in pugno una lettera che unj messaggero audace è riuscito a far penetrare in città: è del Principe Eugenio che preannunzia il suo arrivo a Nizza Monferrato; il\ rude comandante la sventola per aria pronunziando frasi coimmosse nel suo italiano aspro con tutti i verbi alV'nfinito, la w stra e la legge ai soldati che gli s'aggruppano intorno: «Voi dovere tener duro, der Teufel! r, intanto prendere questo Gelei », e distribuisce quattrini ai bombardieri, che applaudono. Il minatore «Passapertut» L'oscuro minatore di Andorno che i compagni chiamano Passapertut, fra un turuo e l'altro della sua fatica sotterranea, è presente alla scena? I suoi occhi che ormai stentano a riabituarsi alla luce del giorno hanno visto il volto del suo generale illuminalo dalla speranza del prossimo soccorso? Montanaro taciturno, può anche darsi che abbia scrollato le spalle. Tante volte gli han promesso: — Presto sarà finito; e invece mine, mine, sempre mine. E invece da settimane e settimane continua a vedere quei poveri trovatelli dell'Ospizio infilarsi nelle gallerie buie a portar legname e pietre e calce: nelle gallerie così tenebrose e profonde che quando vi ristagnano i gas degli scoppi qualcuno di quei ragazzi ne resta soffocato. Passi pei condannati a morte che, per ottenere la grazia, si offrono di penetrare in quell'inferno a portar via i cadaveri già mezzo putrefalli rimasti lì dopo le cieche mischie furibonde. Quelli son carogne che in un modo o nell'altro la debbono pagare. Ma anche lui a Sagliano d'Andorno ha un bimbo di non ancora un anno, il suo Giacomino di undici mesi. Dio preservi il suo avvenire da simili orrori; facon Iddio che un giorno possa rivederlo il suo bambino. E' ormai più di un anno che, da Chivasso a Torino, questa maledetta vita continua: è dal 28 luglio 1705 che nei ruolini dei minatori alle dipendenze de! capitano Andrea Bozzolino figura « Pietro Micha del fu Giacomo d'Andorno Passapertut. ». Tante grazie anche per il nome di battaglia. Uno squillo di tromba. E' il turno. Ce ne sarà per fin oltre la mezzanotte. Dopo l'assalto fallito di tre giorni prima quei maledetti francesi non ritenteranno qualche diavoleria, è sperabile. E le ore passano tetre, interminabili. Giù sotterra non si sente la calura di agosto, ma l'afa è insopportabile, mozza il respiro, neppure una sorsata di vino ogni tanto giova a dare un po' di sollievo. Qualche parola a bassa voce col compagno, uno sbadiglio, il silenzio. Non pare che debba accader nulla. Del resto, il fornello di mina è lì pronto, come al solito. Quante mai ne ha fatte brillare da tre mesi? La sera dopo il conte Solaro della Margherita, comandante generale dell'artiglieria, riaprirà il consueto scartafaccio dove giornalmente vien segnando i fatti più importanti dell'assedio, e scriverà : <r. Verso la mezzanotte quattro granatieri nemici interamente corazzati si calano furtivamente nel fosso della Mezzaluna (del Soccorso), strisciano inavvertiti lungo la controscarpa, ed avendo all'improvviso raggiunto l'angolo saliente, guadagnano la porta per la quale si entra nella galleria che conduce nell'interno della piazza. Costoro non tardano ad essere uccisi dai soldati della nostra guardia, insieme con altri tre che li seguono; ma a questi ne succedono ancora dieci o dodici che prendono il sopravvento e, dopo parecchi colpi di pistola e di moschettone esplosi dalle due parti, mettono in fuga la nostra piccola guai-dia. Così questo gruppo di temerari sarebbe penetrato alla rinfusa nella galleria, se uno dei nostri minatori, secondato da un altro, non avesse preso il partito di chiuder loro in faccia la porta che si trova all'imboccatura della scala conducente dalla galleria superiore all'inferiore, e di dare fuoco ad un fornello di mina che vi si era praticato per rovinare la scala stessa, nel caso che il nemico si fosse introdotto nella galleria superiore ». Ecco il fatto nudo e crudo. E' nota la lunga ed aspra con¬ troversia che, ripresa e chiarita poi da Antonio Manno, fu originata, presso i posteri, da una frase del Solaro, non a torto giudicata infelice: « Questo fatto è stato esagerato dalla maggior parte di coloro che han voluto credere che questo minatore, senz'altro preparazione, ubbia dato fuoco alla salcìccia (cioè alla lunga manica di tela piena di polvere cui si deve inserire la miccia accesa), preferendo seppellirsi sotto le rovine della scala piuttosto che dare il tempo ai nemici d'impadronirsi della galleria: ciò che non è del tutto esatto ». « Levati di lì, fuggi! » Oziosa controversia; perchè il Solaro, come dimostrò appunto il Manno, non intendeva sminuire il mirabile atto del Micca, bensì — da tecnico — specificare che l'eroico minatore, nel suo sublime disprezzo del pericolo e nella sua appassionata furia, doveva avere innestato alla « salciccia » un pezzo di -miccia cosi corto da non dargli tempo di provvedere alla sua salvezza. Ed infatti postillava nel suo Diario, quasi per dissipare ogni dubbio che un provetto minatore alle sue dipendenze non avesse agito con tutte le regole del pericoloso mestiere: «E' bene sapere che il minatore, sentendo sfondare la porta a colpi di scure, sollecitava il suo compagno ad applicare la miccia alla salciccia; ma essendo più impaziente di quanto l'altro potesse essere pronto: — levati di lì, gli dice prendendolo per un braccio: tu sei più lungo di un giorno senza pane, lascia fare a me, fuggi! — poi avvicina la miccia troppo breve all'estremità della salciccia | e le dà fuoco. Il fornello scoppia e il poveretto ha minor tempo di quello occorrente a mettersi- in salvo, poiché lo si trova morto al quaranta passi dalla scala chel aveva discesa ». La scarna narrazione del Solaro, qui citata dalla prima edizio-1 ne del Diario stampata ad Amsterdam nel 1708, e non dall'edi-\ zione torinese del 1838 che, pur\ tacendo ancora il nome dell'Eroe, abolì la frase incriminata, {/lumina mirabilmente, nella sua stessa, laconicità, la stupenda bellezza] del volontario sacrificio. Che va-\ \le, indagando le relazioni contem\poranee del Metelli o del Tarizzo, sofisticare su quel pezzo di miccia più o meno lungo e che forse, in quegli attimi febbrili, non fu nemmeno applicato? Avvolti nel mistero — e vogliamo che così rimangano, perchè la Storia deve talvolta farsi Mito — furono quei gesti fatali, quelle supreme parole, quel dirompente strazio. Una concitazione fulminea, una vampa accecante, un corpo dilaniato per la salvezza comune, nel senso del dovere, nel nome del sovrano, nell'amore della Patria: ecco il fatto. Intontito dallo scoppio, sfigurato dall'esplosione, il compagno superstite, a frasi monche, rotte dalla commozione, avrà narrato ai commilitoni e ai capi, dopo la mischia, l'episodio. Di quelle parole tnimitabiti si sarà tosto impadronito il popolo ammirato. Il nuovo assalto generale francese di lì a due giorni, poi la gran battaglia liberatrice avranno per qualche tempo velato quel fulgore di gloria. Ma l'eroismo ha in sè tanta forza di vita che tosto o tardi — gli si dia pur nome di Milite Ignoto — uince ogni ostacolo di avara oscurità; ed ecco Carlo Botta scrivere centoventisei anni dopo: « Torino fu salvo quel giorno; perchè, se non era del generoso Biellese, nissun Eugenio, nè nissun Vittorio Amedeo il salvavano, e l'opera loro veniva indarno. Da lui la corona ducale fu 'conservata, e la regia posta in capo ai principi di Savoja ». ! Oggi si sa che se anche Pietro Micca non avesse incendiato la mina facendo saltare in aria parecchie dozzine di assalitori francesi Torino non sarebbe caduta. Ma più che mai si è imparato ad apprezzare l'immenso valore di un gesto glorioso. E' la semplicità magnìfica dell'uomo e del suo sacrificio che ancora, dopo oltre due secoli, ci trascina all'entusiasmo. Il minatore sa che bisogna resistere perchè il soccorso sta per giungere. L'ha sentito dire poche ore prima. Ma il nemico è qui che sfonda la porta di ferro, ultimo ostacolo. Possono esser dieci, possono esser mille; può essere una scaramuccia, ma può essere in pericolo la Cittadella. Che mai conta allora la vita di un uomo? Che importa morire ignoto, in una galleria tenebrosa, se morire è necessario piuttosto che cedere? E Pietro Mijca è l'Eroe autentico perchè non valuta l'importanza, ai fini della propria gloria, del suo atto; perchè non conosce che una cosa sola: il suo coraggio, il suo dovere. Per questo, simbolo di Torino che non si arrende, sintesi del soldato italiano che si sacrifica ma non vien meno alla consegna, egli è e rimarrà l'Eroe del Popolo. Marziano Bernardi Il popolare quadro di Andrea Gastaldi che rappresenta il sacrificio di Pietro Micca. (Museo Civico di Torino). La Cittadella di Torino, centro della vittoriosa difesa del 1706 (da un'antica stampa della raccolta Bourlot).