Italiani in Africa

Italiani in Africa Italiani in Africa Due friulani nel Congo al seguito di Pietro Savorgnan di Brazzà. E' questo di Elio Zorzi (1), co me pare a noi, il primo libro ita n. dllano sul conte Pietro Savorgnan Ivdi Brazzà? Tutto quello che sap piamo di questo gentiluomo friulano diventato ufficiale francese, lo abbiamo appreso dalla smilza ma sostanziosa biografia del generale de Chambrun e dai libri di! memorie di Charles de Chavannes.j che del Brazzà fu il più fedele col-1 laboratore. Non ci risulta che, pri- ma dello Zorzi, altri scrittori ita-j liani, se non forse in articoli di; a r i i i o n a o a , a i i o i o' o' , e a, e' o : a e' a a i e i e i e - poca importanza, abbiano trattato dell'argomento. La verità è che l'Italia fa un po' il viso dell'armi a questo suo figlio che ha dato tutta la propria energia a un altro paese, contribuendo a farlo più grande, più potente, più prospero. E tuttavia un certo orgoglio, e sia pure un amaro orgoglio, nasce in noi al pensiero che le basi del grande impero francese in terra d'Africa sono state gettate da un uomo della nostra razza. L'epopea di Brazzà nel Congo, anche se non abbiamo tratto nessun utile da essa, appartiene a noi (d'altronde, per molto tempo l'Italia, e non soltanto nel campo coloniale, fu come il porco di LUneburg, di cui dice il Kierkegaard che scova i tartufi per gli altri, ina senza nessun vantaggio per sè). Si capisce, quindi, come Elio Zorzi, fattosi editore del « giornale » e della corrispondenza di Attilio Pecile, un friulano che, tra il 1883 e il 1886, insieme con Giacomo di Brazzà, fratello di Pietro, prese parte alla terza esplorazione di quest'ultimo nell'Africa equatoriale, non abbia resistito al desiderio di narrare, da italiano a lettori italiani, le grandi tappe di questa epopea. Brazzà contro Stanley La grande avventura di Brazzà, quella che dà la misura esatta della tempra dell'uomo, fu la lotta impegnata con Stanley per l'accaparramento dei territori del Congo. Si può dire che raramente il destino abbia messo alle prese due uomini più fondamentalmente dissimili: tenaci e instancabili entrambi, segnati entrambi profondamente dal dèmone del rischio, essi tendevano alla stessa mèta per vie affatto diverse. Stanley affrontava quasi rabbiosamente quella che chiamava ; l'Africa maledetta » e avanzava attraverso il Continente nero, come fu detto, « a colpi di milioni e di dinamite », scortato da centinaia di mercenari zanzibaresi armati sino ai denti e pronti a spezzare ogni ostacolo con la forza. Uomo senza passato, egli sembrava voler vendicare su quel mondo selvaggio che lo attirava e lo esasperava insieme, la tristezza della sua infanzia senza patria e senza famiglia. Brazzà, invece, procedendo per savane e boscaglie, seguendo i lenti avvolgimenti dei fiumi e valicando schiene di monti, ritrovava le tracce dei missionari italiani, padre Antonio Cavazzi, padre M. A. de Guittini. padre Dionigi de Carli, e altri, che, nel XVII secolo, avevano evangelizzato l'Africa equatoriale, e ne faceva pro¬ o a i . e o a i e i , pru ì metodi umani e pacifici. E-gli avanzava, scrive lo Zorzi, cer-cando di acquistarsi, a misura -.'heprocedeva una rinomanza di bon-ta, di giustizia e di saggezza, e la-sciando il tempo a questa rino manza di precederlo presso le po polazioni delle terre nelle quali do-veva entrare per continuare il suoviaggio. Egli pensava che la forza non dovesse servire per attaccare, ma soltanto per difendersi e, raramente, per punire. La penetrazione era così più lenta — anche Brazzà doveva fare i conti con le ineliminabili diffidenze della gente nera —, ma sortiva resultati più duraturi. Una volta sola l'Italiano si vide sbarrare il passo e dovette rinunciare a raggiungere la mèta, e ciòavvenne pèrche gli indigeni, tracui s'era diffusa la fama dei meto-di di Stanley, erano giunti alla lo zioni e nini i-urta f. t... l. 40. iiiiniiiiiiiiiMiiiiiiiiiiiiiniiiiuiiiMininniiniiiniiniiiigica conclusione che tutti i bianchi portassero con sé la devastazione e la morte. Fu nell'agosto del 1878: dopo quasi tre anni di marce faticosissime e di non meno faticose navigazioni a ritroso sui pigri fiumi equatoriali. Brazzà era giunto sull'alto Alima, ch'egli riteneva tributario dei grandlaghi dell'Africa centrale di cuavevano parlato Carlo Piaggia e Nachtigaf, e si preparava a discenderlo in piroga, quando gli fu riferito che lungo il fiume erano scaglionati i villaggi degli Apfuru, un popolo bellicoso che, probabilmente, non lo avrebbe lasciato passare. Ciò non valse ad arrestarlo; imbarcatosi coi suoi pochcompagni, un cen " sando za incidenti u zia del suo arrivo volava lungole rive, cosicché una mattina lapiccola spedizione si trovò davanti a una vera flottiglia di pirogheche sbarrava il corso del fiume. Cfu anche uno scambio di fucilateche inflisse non poche perdite a 1 * U) Elio Zorzi. ', Al Cong n Urriz*&». «Viaggi .li due Doloratoli Italiani nel carteggio e nel " giornale.inediti di Attilio Pecile* (1683-1886)Istituto pei- irli stiuli ili Politi™ Intcrmiziunnlo. Pagg. 616. 26 Illustra nemico; ma con le misere forze di cui disponeva, Brazzà non aveva alcuna speranza di vincere e di passar oltre, per cui dovette prendere la via del ritorno. Alla costa, egli doveva apprendere che Stanley era giunto sull'Atlantico sin dall'anno prima, dopo avere attraversato l'Africa centrale da est a ovest e aver riconosciu to quasi per intero il corso del Congo. Quanto a lui, se ne rese conto subito, gli Apfuru lo aveva no arrestato a poche giornate di r i I navigazione da questo fiume, di cui l'Alima era un affluente. Il gentiluomo e l'avventuriero Brazzà doveva prendersi la rivincita pochi anni dopo. Nel 1880, con soli diciassette uomini e un bagaglio ridotto al minimo indispensabile, egli sì slanciava di nuovo attraverso l'Africa equatoriale per porre i territori stendentisi sulla riva destra del Congo sotto la giurisdizione francese. Stanley, passato al servizio dell'Associazione Internazionale Africana, creazione, come ognun sa, e strumento di Leopoldo del Belgio, avanzava da vari mesi nella stessa direzione, aprendosi, con la perforatrice, la dinamite e il piccone, una strada che consentisse il passaggio, attraverso una zona spiccatamente montagnosa, alle sue impedimenta: tonnellate di materiale, di merci e di provviste, senza parlare di due battelli a vapore smontati, ch'egli si proponeva di varare nel Congo. Era, dice il de Chambrun, una gara di velocità tra una iepre sfiancata e una gigantesca tartaruga. E la lepre vinse. Quando Stanley giunse sullo Stanley Pool, la riva -destra di questo punto importantissimo del Congo — dove più tardi, proprio in faccia a Leopoldville, doveva sorgere Brazzaville — era in mano dei Francesi, guardata da un sergente e da pochi soldati senegalesi. Brazzà, che aveva stipulato un trattato in regola col re del luogo Makoko, era già tornato in Francia per farlo ratificare, e appunto mentre scendeva verso la costa, il 7 novembre 1880, s'era incontrato con Stanley. La descrizione che quest'ultimo fece di Brazzà come lo vide In questa occasione è celebre: « Un uomo senza scarpe che non si faceva notare per una giubba d'uniforme frusta e un cappello sformato. Lo seguiva una piccola scorta con centoventicinque libbre di bagaglio. Tutto ciò non aveva nulla d'imponente. Egli non aveva neppure l'aspetto d'un personaggio illustre travestito da vagabondo, tanto la sua cera era pietosa; e io ero ben lontano dall'immaginare che avevo dinanzi a me il fenomeno dell'armata, il nuovo apostolo dell'Africa, un grande stra tega, un grande diplomatico... ». Queste parole ingenerose furono pronunciate da Stanley durante un banchetto offertogli a Parigi dalla colonia anglo-americana il 20 ottobre 1882. Esse rivelano cito due anni non erano bastati a lenire la ferita inflitta dall'esplora tore italiano all'amor proprio del Brazzà, .suo collega anglosassone. _ - ! sopraggiunto alla fine del banchet -, t*si Compiacque d'affermare: « I: e gtanlev io non vedo un antagom- t * semplicemente un lavora- tore nello stless0 campo nel quale - i nostri sforzi comuni convergono verso lo stesso scopo: il progresso e l'incivilimento dell'Africa ». Il ojton0 (U Brazza fu sobrio e defe- a , i e ò rente, quanto quello di Stanley era stato aggressivo e sprezzante; e questa fu per l'Italiano una nuova vittoria. Compagni d'avventura Il terzo viaggio di Brazzà nel Congo ebbe luogo dal 1883 al 1S86. e a questo viaggio presero parte, come s'è detto, Giacomo, fratello a j dell'esploratore e Attilio Pecileil -ipnmo come naturalista deUaspedizione, il secondo come prepara tore o, secondo scriveva egli stes so alla madre alla vigilia della partenza, come « uide naturaliste-». Giacomo e Attilio avevano rispettivamente 24 e 27 anni; la loro amicizia era nata e s'era rinsaldata mentre, da giovani alpinisti, per sfogare gli umori di gioventù, si -.< facevano », una dopo l'altra, tutte le cime della Carnia, della'Carinzia, della Pusteria e del Cadore. Sino all'ultimo momento. Pecile aveva nascosto alla famiglia la sua intenzione di seguire Giacomo Brazzà al Congo. Da Parigi, dove s'era recato col pretesto di divertirsi, il 5 dicembre 1882 ii o i o i i e u o - —- « - egli scriveva al padre una lettera hi: che cominciava con queste paiole, o ho fatto male; ma che \uoi, eia a: un'idea fissa... ;. .„1M, -j Partiti ai primi del gennaio w. e li due giovani^sbarcarono a.LibreCi i ville, nel Gabone. alla tme cieuo e stesso mese; e qui, il nostto teal,Cile, comincia a tenere quii u ai io ohe Io Zorzi ha ritenuto, giusta- z- mente, di dover pubblicareper ht- a- tero, integrandolo con una diga ., scelta di brani tolti alle quaranta ).|e più lettere che lo stesso Fecue, n- in tre anni d'Africa, scrisse ai faa-1 migUari. Documenti preziosi, l'uno e le altre, non soltanto per tutto quello che ci dicono di nuovo su Brazzà e sui suoi collaboratori, nonché sulle relazioni che correvano tra il personale della missione francese e quello dell'Associazione Internazionale Africana. U. cui taceva parte un'altra nobilissima figura d'esploratore nostro, il comandante Alfonso Maria Massari, ma anche e soprattutto perchè ci fanno vivere a tu per tu, quasi fossimo loro compagni ili avventura, con due giovani generosi ed enèrgici, che, nel loro desiderio di prodigarsi, si rivelano schiettamente italiani. Nel Ogoué e nel Benué Prima di tutto, ecco il capo: il 9 febbraio Pecile scrive alla madre: Qui tutti aspettano Brazzà come il Messia. Ti assicuro che e fenomenale il rispetto, l'amore, la venerazione' che quest'uomo ha saputo ispirare a questi neri », e in una pagina del giornale >/ annota che « il conte Pietro... non avrebbe che a domandare e centinaia di negri sarebbero disposti a seguirlo dovunque ». Ben diversi sono invece i giudizi sui Francesi della missione. « Una sola cosa manca purtroppo al Brazzà ». si legge in una lettera del 7 marzo 1884, « e cioè un personale serio e devoto»; e, in un'altra lettera, più aspro e reciso, Attilio riassume cosi la sua opinione sui collaboratori di Brazzà: E' inutile, i francesi resteranno sempre francesi e non saranno mai capaci -li prendere una cesa sul serio sedura più di tre mesi... ». Ma sarà appunto per questa ca renza del personale francese ci" Gzgsnscc«dpastm Giacomo e Attilio potranno vivere la ioro grande avventura. All'inizio del 1885 i due amici parlavano già di tornarsene a casa: il 3 febbraio, Pecile aveva scritto ai suoi: «. Il tempo comincia a parermi lungo da che penso al ritorno ». A luglio egli pensava d'essere a Parigi; di lì, poi, sarebbe corso subito in Italia: « A rivederci presto a Fagagna » scriveva, « e quasi quasi sarebbe già tempo di mettere al fuoco la marmitta per fare una buona zuppa di risi e bisi... ». Se questo ritorno fosse avvenuto nell'epoca stabilita, tutta la vita africana dei due giovani si sarebbe riassunta in un contatto abbastanza superficiale col Continente nero, nello studio più o meno profondo dei costumi degli indigini, delle loro credenze, delle loro reazioni a contatto con la civiltà, e nella raccolta d'un discreto materiale scientifico: animali, piante e minerali. Cosicché Attilio sarebbe stato pienamente giustificato quando asseriva che « mentre in Europa si crede che la vita dell'esploratore sia la vita del moto perpetuo », in Africa, invece, « ci si accorge che non è altro che la vita della pazienza spinta all'ultimo grado ». C'era, è vero, la esaltazione giovanile dinanzi agli aspetti infinitamente vari di un paese fecondo quanto altro mai in sorprese, che abbelliva tutto e faceva passar sopra a fatiche e disagi; ma il mistero, la prima cosa che un'anima giovane e romantica cerca in Africa, mancava completamente. Ed ecco che Pietro di Brazzà affida a suo fratello Giacomo e a Pecile l'incarico di compiere una esplorazione rischiosa in una zona affatto ignota. Si trattava, secondo scrive Attilio alla madre, il 28 giugno 1885. « di attraversare la rosa ancora bianca che sta tra l'Alto Ogoué e l'alto Benuè, se guendo in generale lo spartiacque fra il Congo e l'Atlantico, e possibilmente di raggiungere la Benuè che ci condurrebbe al Niger e di là alla costa ». Di questo viaggio, in origine, era stato incaricato Rigali de Lastours, uno dei migliori collaboratori di Brazzà, uomo che lo stesso Pecile, così severo coi Francesi, definiva « prezioso ». Ma Lastours. colpito da febbre perniciosa, era morto il 27 giugno, e Pietro aveva designato il fratello a sostituirlo. Così, commenta non senza amarezza lo Zorzi, ecco « una spedizione nettamente italiana, che si spinge verso terre sconosciute, per allargare il dominio della Francia ». Il viaggio doveva durare dal luglio al dicembre 1885. Nelle pagine del diario in cui Attilio dà giorno per giorno relazione degli avvenimenti prevale il color grigio argenteo della pioggia: la pioggia e la febbre furono infatti le due compagne inseparabili dei due giovani esploratori nei cinque mesi durante i quali sfangarono per paludi infette, s'aprirono la strada nell'intrico delle foreste e scesero su zattere improvvisate o su piroghe rubate agli indigeni le correnti rapinose o pigre dei fiumi. Bisogna leggere queste cento pagine del « giornale » di Pecile, che sono da porre tra le più belle che esploratori italiani abbiano scritto. Riassumerle equivarrebbe a sciuparle. Il 22 dicembre 1885, la piroga che recava a bordo Giacomo e Pecile affamati, laceri, febbricitanti, sboccava nel Congo, e Attilio poteva scrivere: « La nostra missione è finita. Te Deum laudamus — che peso di meno sullo stomaco! ». I due amici tornarono in Europa nei primi mesi del 1886; erano pieni di sogni e di progetti. Volevano tornare in Africa, scrive Io Zorzi, per mettere al servizio dell'Italia l'esperienza acquistata in tre anni e mezzo di fatiche e di esplorazioni; li seduceva l'idea di partire alla ricerca di Casati come questi era partito alla ricerca di Emin Pascià. Ma il 29 febbraio 1888, Giacomo di Brazzà, che dal suo ritorno non s'era mai liberato dalle febbri tropicali contratte nel Congo, moriva appena ventottenne a Roma. Questa fine improv. visa fu per Attilio Pecile una vera catastrofe che lo distrasse per sempre dall'idea di tornare in Africa. La sua vita d'esploratore era finita. Più tardi, forse, egli dovette ritrovarne spesso con nostalgia il ricordo nei suoi taccuini ingialliti; quei taccuini che, a nove anni dalla morte dell'esploratore, Elio Zorzi, decifratili pazientemente, pubblica ora come una testimonianza di più dell'ardimento itaìiano in terra d'Africa. Cesare Giardini Pietro Savorgnan di Brazzà