LE VELE DEL PORTO

LE VELE DEL PORTO (tllllllllllitl iiimmiiiiiiiiiimiiiiiiiiiiiiiimimiitiiimi liililllllliliiliiiiiimilllllllllllllllliiiiiillllllillllllllllilllllllllllllll imiiimiimiiiiMiiii | CCÌBSC AHIEVI MJIFIFI1ICMAIIH1 | LE VELE DEL PORTO iliiiniiHiiMiiiiiHiiiniiiiiiiiiiiiMiiniiiiiiMiiiiiiiiiiiiniiiiiiiiiiiiMiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiVenne l'ultimo giorno e lasciammo gli abiti militari per quelli borghesi: improvvisamente l'incanto finì e riacquistammo i gesti di un tempo, e coi gesti i pensieri. Pinto che ci teneva nelle mani, improvvisamente se le trovò vuote. Si guardò intorno e vide al posto degli spariti allievi ufficiali dei giovanotti che lo guardavano sorridendo come se lo conoscessero, sì, ma l'avessero conosciuto moltissimo tempo fa e soltanto ora lo rivedessero, dimentichi di tutto ciò che tra loro era passato. Non c'era il minimo risentimento nei loro sguardi, e sì che fino a ieri avevano giurato di vendicarsi. Pinta, smarrito, s'avvicinò a Cacciatore, e questi, ch'era divenuto un elegante giovine e stara seduto sulla panchetto, presso il letto non.più da rifare leggendo un libro di filosofia, non scattò sull'attenti all'avvicinarsi di Pinto, ma, rimanendo seduto, distolse appena un momento gli occhi dal libro e guardò il sergente maggiore come iter dirgli «chi sei?». Anche Letizia era un altro, benché i capelli gli cadessero ancora sugli occhi, e, come alla giubba militare, così alla giacca borghese gli mancasse un bottone: ma Pinto, pur soffrendo, non potè dir niente su quel bottone che sfuggiva al suo comando. Uscimmo dalla camerata. « Già, — pensammo — „ia bisogna salutar Pinto ». Tornammo indietro, stava lì, e forse pensava anch'egli la stessa cosa: «Bisogna salutarli», ma come? «. Buongiorno, signor Pinto » avremmo voluto dirgli, ma ni sembrava ridicolo; d'altra parte, le pa' iole e i gesti militareschi che sino a ieri vivevamo usati, erano finiti in noi, non potevamo più ritrovarli. Perciò uscimmo di nuovo senza salutare, ed tali si voltò dall'altra parte, a guardar l'azzurro dalla finestra aperta. Il capitano Tonncci ci attendeva in fureria. Era in lui evidente l'intensione d'evitar la commozione dei saluti, dell'addio. E anche da lui ci sentimmo lontani, ma (n un altro modo, in un modo angoscioso, perchè vederlo lì vicino a noi/1 sentirlo parlare, e sapere che mai più avrebbe potuto comandarci, punirci, lodarci, ci fece definitivamente accorti che una parte della nostra vita era finita, finita per sempre. Se avessimo volalo, avremmo potuto fumare davanti a lui, e questo era triste, perchè fino a ieri il capitano era stato un dio per noi. Le sue parole che sino a ieri ci entravano dritte nel cuore, ora cadevano nel vuoto, pur se erano parole che, volutamente indifferenti, tradivano una commozione che anche noi avevamo dentro, ma non sapevamo esprimerla. E ci prese il terrore di dover uscire senza avergliela fatta comprendere; perciò nessuno, quando il capitano ebbe finito di parlare, si decideva a fare un passo verso la porta, nè il capitano a fare un gesto di congedo. Oh, se uno di noi, uno solo, avesse detto: «Addio», avremmo pianto tutti, e non è vergogna dirlo. Ma il capitano, improvvisamente, fece una cosa che fu coìne se avesse detto «addio*: apri il cassetto della scrivania, e ne trasse tanti fazzoletti gialli e rossi, i colori delle mostrine del nostro reggimento, e ci disse, anzi non ci disse, ma fece segno di prenderne uno per ciascuno. Fu questo l'addio del capitano. Da parte nostra, via via che prendevamo il fazzoletto ci cavavamo di tasca le mostrine e le stellette che avevamo tolte alla oilibba militare e ci portavamo via per ricordo. Uscimmo e incontrammo il tenente Manzini. Questi era un giovane come noi, e il non dovergli più obbedire e l'esser per divenire pari a lui nel ymdo militare fece si che l'abbracciassimo come u>i fratello e gli dessimo del tu come a un amico: avevamo pur bisogno d'abbracciare qualcuno prima di lasciare per sempre quella caserma che sino a ieri eravamo stati impazienti di abbandonare. Ne percorremmo lentamente il cortile, facendo pensieri come questi, ridicoli in apparenza: «Questa è l'ultima volta che sento scricchiolare la ghiaia sotto i miei passi... // mio fucile, che ho lasciato pulito pulito, senza un granello ili polvere, nella rastrelliera, in mano di chi andrà f 52^7 è il suo numero di matricola ». E pensavamo a quel numero, e ce lo imprimevamo nel cuore come fosse un nome caro. «Gli alberi di questo cortile li ho visti secchi, spogli, e poi mettere i fiori, le foglie, e adesso perchè me ne devo andare.' ». E salutata la sentinella col saluto romano; non ci volgemmo più a guardare quei luoghi dove, dèi sei mesi passativi, avevamo confuto i giorni uno per uno, sembrandoci che non dovessero finir mai, e ora, ricordandoli, non trascorsi erano, ma volati. Così rapidamente che non avevamo forse fatto in tempo a voler bene a quei luoghi quanto si meritavano; non solo ai luoghi, ma alle persone, agli oggetti, alla vita che conducevamo, alle abitudini che solo adesso ci apparivano care e dolorose ad abbandonare. Mancava ancora un .po' di tempo alla parlenza dei treni: « Vogliamo riveder Fano per l'ultima volta? Ripasseggiare da borghesi per quelle strade che ci videro soldatini timidi e impacciati dui cappotto troppo ampio, dui cappello troppo largo, dai guanti di cotone bianco che le nostre dita, per quanto le tendessimo, non riuscivano a riempir tutti* ». Ripercorriamole pure quelle strade, ma non sono più com'erano fino o ieri. O, piuttosto, noi siamo cambiati, noi non siamo più gli stessi. S'affaccia alla solita finestra la ragazza cui volevo bene, e m'accorgo che credevo di volerle bene. Lu lattaia, vi ricordate?, di cui ci contendevamo i sorrisi, sta sulla porta della bottega vuota: nessuno sente il bisogno di entrare e di chiederle l'ultimo caffè e latte offerto con l'ultimo sorriso. E le vele? Le vele arancione delle barche da pesca che in queste domeniche di primavera coloravano tutto il porto e tingevano il mare dei loro riflessi? Sono stinte, pallide. C'ingannammo quelle domeniche, o c'inganniamo stamattina che siamo per partire e non abbiamo più niente, perciò, da sperare dalla ragazza in finestra, dal sorriso della lattaia, dal vivo color delle vele? Tutte queste cose erano veramente belle o, non, piuttosto, le facevamo diventar belle noi che dovendo vivere in caserma ci fabbricavamo ogni domenica una speranza per la domenica dopo? 0 invece è falso questo ragionamento, e si deve prillare piuttosto che il cuore, per sua difesa, per non commuoversi, vede meno belle e meno buone, nel momento dell'addio, le cose che lo ralliitaruno ?. E' che, finito un periodo della nostra vita, non ci dovrebb'essere nemmeno un'ora d'intervallo Ira il finire del vecchio e il cominciare del nuovo: in quell'ora, per breve che sia, noi siamo degli sperduti, ci aggiriamo come estranei per luoghi che furono nostri e ora non lo sono più, combattuti nello stesso tempo dal dolore e dall'impazienza di lasciarli; pentiti d'esserci affezionati a una persona, a un oggetto, a un albero, allo stemma di un portale; meravigliati di soffrire nel lasciare una cosa che solo adesso, solo all'ultimo momento ci accorgiamo di amare, e di. dire addio con indifferenza a un'altra cosa il cui distacco pensavamo dovesse esser doloroso. E i compagni? Padio, sembra impossibile ch'io domani non debba riveder più Lanzi, che non debba più ridere ulte disavventure di Letizia, né vedere nei dolci occhi di Chinigò il viso della lontana fidanzata. e questi nomi, queste parole, queste formule che ho dentro la testa mi voleranno via come tante farfalle e non potrò più riprenderle? Cilindro, estrattore, percussore, molla elicoidale, tubetto, cane, bottone?... Puntare l'arma al bersaglio con alzo corrispondente alla distanza del bersaglio stesso?... e'di Letizia verrà il giorno che mi ricorderò uppcna il nome, ma un nome sema voltot. E dirò forse un giorno: « Pinto, chi era costui ? ». e incontrandomi chi sa fia quanto tempo con Borgoni gli passerò accanto senza riconoscerlo? e Lanzi che ora abbraccio alla stazione giurandogli che gli scriverò, raccomandandogli che mi scriva, è possibile che rivedendolo fra qualche anno io me gli accosti senza cordialità, ed egli faccia altrettanto nei riguardi miei, e, detteci alla meglio quattro frasi di convenienza, ce n'andiamo uno da una parte, uno da un'altra, contenti ambedue d'aver evitato un colloquio che sarebbe stalo un peso? Purtroppo sarà così, e perciò addio amici, addio compagni, addio Fano, e meno abbracci e meno strette di mano che sia possibile. Saliamo, noi di Roma, nel treno che non parte ancora perchè deve aspettare la coincidenza con quello di Milano e vorremmo evitare l'addio dei milanesi che sotto i finestrini ci chiamano per nome, ci tendono le braccia o spiccano salti in modo che, pur non volendoci affacciare, ne 1,-edia.mo ogni tanto apparire le teste e le sopracciglia inarcate. Come Dio vuole, si parte, addio, addio, ma questa Fano seguita ancora, non ci vuol lasciare: ecco la strada tante volte percorsa per arrivare al poligono di tiro, ecco il ponte sul Metauro, dal quale quante volte non abbiamo salutato, agitando i fucili, i treni che passavano? E, ripensandoci bene, eia proprio il treno sul quale oggi viaggiamo che salutavamo più spesso: «va a Roma» pensavamo, «nostra madre forse lo vedrà» e tutti i viaggiatori ci sembravano nostri amici. E oggi, pur contenti di tornare a casa, non ci dispiace un poco di non esser più là, sul ponte del Metauro, a salutar coi fucili il treno che passa? Eh, quanta strada facevamo a piedi, da allievi ufficiali! E' mezz'ora che viaggiamo, e ancora ci sfilano davanti luoghi noti, percorsi, slrudelte che il viaggiatore comune non sa dove vadano a finire, ma noi lo sappiamo, invece, e un'angoscia, fuggevole quanto la Disione, ci prende al pensiero che mai più le percorreremo, che mai più ci riposeremo sotto quel gruppo d'alberi (tre pini e un cipresso) che. per un momento intravisto, subito un'improvvisa altura ci ha tolto allo sguardo. E a un certo punto, finiti i luoghi noli, comincia una campagna che non c'interessa più. Allora si comincia a ridere, a scherzare, a parlar di casa; ma alle fermate, in quel silenzio proprio delle stazioni, in cui fortissime si sentono le parole dei viaggiatori che parlano sottovoce, e lontanissimo il suono della cornetta del capotreno, in quel silenzio si ripensa a Fano,' e, miracolo, le vele arancione delle barche da pesca colorano tutto il porto e tingono tutto il mare dei loro riflessi. Mosca.

Persone citate: Borgoni, Cacciatore, Lanzi, Manzini, Metauro, Pinta

Luoghi citati: Fano, Milano, Mosca, Roma