CONSEGNATI

CONSEGNATI 1 """""""«m uiiriintiii t iiiiiki m fiiiniii minimi iiiimiHiitiliiiililiimiii iiiiiiiiiiiiiiniiiiiiii i | CCRSC A1LMEYPI HJFFIICI1AELHI | CONSEGNATI iTiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiMiiiiii mmimiiii.mm,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,, mi?1?0 % teH avevo sPerato di poter arrivare alla fine del corso senza essere consegnato; ma TJi "V ™e™v,glio, stasera, di vedere il mio nome nella tabella. «Giorni uno di consegna: fumava in camerata ». Doveva pur toccarmi. Per consolarmi leggo i nomi dei compagni di sventura: Lauzi, stessa mancanza, tre giorni, ma è recidivo; Borgoni, rucci, Letizia, Albergo: bottino in disordine. Una volta promisi che avrei parlato del bottino: è un armadietto fissato alla parete, sopra M letto, e pende sulla testa del dormiente. Un uomo normale quando vi avesse messo dentro un pettine, una spazzola e l'occorrente per la barba, 10 considererebbe, e a ragione, così pieno da non potervi ficcar più niente. L'allievo ufficiale, invece, deve riuscire a farcì entrare, pena i più orribili castighi da parte di Pinto, la giacca e i pantaloni di Ubera uscita; la biancherìa che comprende anche tre paia di quelle mutande lunghe di tela ruvide e dure che se le poggi, rigide come sono, per terra, rimangono in piedi e hai l'impressione che da un momento all'altro si mettano a camminare; le maglie e le fasce ventriere; i picchetti della tenda che serviranno quando si farà il campo; il berretto; il bicchiere, le posate e il tovagliolo; la spazzola per la testa, quella per i vestiti e quella per le scarpe; i libri; il sapone e l'asciugamani; e se i parenti ti mandano da casa un prosciutto, anche U prosciutto. Naturalmente succede che ogni volta che lo apri, gli sportelli si spalancano violentemente a 11 contenuto esplode per un raggio di cinque o sei metri; e se in quel momento si trova a passare Pinto, tu sei consegnato. Peccato non poter uscire stasera: siamo a marzo inoltrato, c'è ancora il sole, le ragazze già vanno senza paltò, e sentono la prim/vvera. Vediamo i compagni uscire, coi bottoni d'ottone ben lucidati, come andassero a una festa; tanto leggeri nelle loro scarpe di libera uscita quanto noi pesanti in quelle chiodate. Come le passeremo queste tre ore? Letizia, professionista della consegna, chiede tt permesso al sergente d'ispezione e va a dormire. La caserma rimane deserta. I passi di noi poveri consegnati risuonano nei corridoi come quelli dei passanti, all'alba, nelle strade silenziose, destando echi che non conoscevamo. Ecco la tromba dei consegnati: viene stanca su dal cortile e ci chiama per l'appello. Tulio si svolge come sul Getroni, il classico manuale di regolamenti militari: « L'ufficiale di picchetto quando vuole assicurarsi che tutti i puniti siano in caserma, fa suonare l'apposito segnale (quel triste suono di tromba che dice: caporale di giornata porta abbasso i consegna). Il sergente d'ispezione fa la chiamata dei caporali e dei soldati: i primi sono riuniti tn un luogo a parte; i secondi sono presentati al sergente dal rispettivo caporale di giornata). Terminato l'appello, siamo liberi; liberi, naturalmente, in un senso molto limitato: possiamo passeggiare su e giù per il cortile, entrare nello spaccio, andare a trovare i compagni malati in infermeria. Saggio, di queste tre cose, è farne una alla volta, molto lentamente, perchè tre ore fuori passano in un lampo, ma qui in caserma sembrano un'eternità. Saliamo le scale dell'infermeria ch'è al secondo piano, e dopo la primo rampa si comincia a sentire odor di acido fenico. Alle pareti grandi tabelloni colorati raffiguranti gli effetti delle principali malattie, e, scritti, i modi di evitarle o di curarle. Nel corridoio, all'odore dell'acido fenico :i aggiunge quello della creolina, e le pareti sono bianche. Nella sala di medicazione, un allievo a bocca spalancata mostra col dito all'infermiere qualche cosa che gli sta succedendo in un molare, e l'infermiere dopo aver guardato dentro con un occhio solo, come si guarda in un buco o in una serratura, introduce nella bocca un gran pennello e manovra a lungo sortendo due effetti: quello di aumentare a dismisura i dolori del paziente, e quello di aggiungere agli odori d'acido fenico e di .creolina l'odore di tintura di iodio. Sempre seguiti dai lamenti dell'allievo, entriamo nell'infermeria dove in tanti letti con le coperte a scacchi, certamente simili al letto del tamburino sardo di De Amicis, gli allievi fumano o leggono libri gialli tenendo in mano un'arancia. Ma Benedetti non fa nessuna di queste tre cose: è triste: non lia più febbre, è guarito, domani deve lasciare l'infermeria, il brodo di vitella, le uova, i maccheroni col burro. — Si stana cosi bene qui. Quattro giorni di paradiso. Il maggiore medico è buono, scherza, racconta storielle. Voi che avete fatto? Gli raccontiamo quanto è avvenuto in caserma durante quei quattro giorni, e Benedetti fa signorilmente gli onori di casa offrendoci le uova sode che ha accumulate sotto il cuscino, e facendoci bere a turno in una bottiglietta di vino nascosta sotto le coperte, molto calda a causa del contatto del corpo. E' triste, ma lo consola un pensiero. — Dopodomani — dice fregandosi le mani — iniezione antitifica: tutti a letto di nuovo. E fra une settimana, altra iniezione antitifica. Viene una gran febbre, e giù, due giorni di letto. Sorride al pensiero dell'iniezione antitifica, e gli passa la tristezza. — Dovrebbero fare — aggiunge — anche quella antitetanica che dà una febbre molto più forte e molto più lunga. Spalanca la bocca. — Guardate — dice — non ho più placche in gola. Niente. Domani devo alzarmi. Quello lì — e indica, il vicino di letto — ha l'influenza, abbastanza grave. Forse ancora dieci giorni di letto, fino alle vacanze di Pasqua. Ho provato a contagiarmi standogli vicino, bevendo nello stesso bicchiere, avvicinandomi molto quando tossiva: niente. Credo poco alle malattie contagiose. Un po' disgustati, salutiamu Benedetti e ci tiene spontaneo augurargli una ricaduta. Torniamo giù in cortile. Sparito il sole, la sera è scesa, ma non tanto ancora da offuscare il verde novello deqìi alberi. Giorni fa erano ancora neri, stecchiti. Tutte le mattine ci affacciavamo per vedere se erano venute le prime foglie, ma ci aspettava sempre una delusione. Poi improvvisamente le foglie eran venute, ma ce ne eravamo accorti solo quando, già grandicelle di due o tre giorni, non eran più come le avremmo volute vedere, piccolissime, appena nate o addirittura nel momento della nascita. Ma foglie di cortile, prigioniere come noi. Sembra che non stasera soltanto, ma che mai più si possa uscire da questo cortile. La gente che passa per la strada ci sembra gente d'un mondo lontanissimo, in cui un giorno vivemmo, ma oramai negato a noi per sempre. Si sente un passante fischiare una canzonetta: la sapevamo anche noi, ma è come se l avessimo dimenticata e tornasse a noi stasera come l'eco d'una cosa morta. Nostra madre, la nostra casa, dove sono? E se anche domani, se anche dopodomani fossimo consegnati? Eppure queste foghe sono uguali a quelle degli alberi della strada; e appena due ore fa una signorina, venuta a cercare ,,n ufficiale, è passata per questo cortile, ha fatto scricchiolare questa ghiaia. Ohe, che sono questi pensieri? Scrolliamoli di dosso, stupidaggini. Entriamo nello spaccio. Pieno di consegnati. Si ginoca a dama, a scacchi, si bevono bicchierini d'alchermes, quel liquore appiccicoso che si trova ancora nei salotti delle vecchie, antiche signore e negli spacci militari. I consegnati sono come bambini: si rigirano in mano quei pochi soldi trovati frugando nella profondità delle tasche, e non sanno che comprare. Ma qualche cosa debbono pur comprare per consolarsi della viancata uscita. Oh, non chiedono gran che: un'arancia? mezz'etto di morta- i iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiimiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii della? o un panino col formaggio? o un pezzetto di cioccolata di quella stessa marca che tanti anni fa ci regalava la nonna quando eravamo stati buoni? O un'aranciata? ma di quelle aranciate fatte con lo sciroppo e poco rimescolate, di modo che ai primi sorsi è acqua, poi via via si comincia a sentire il sapore e finalmente il fondo, denso e appiccicoso, bisogna stare un'ora a faccia in aria scuotendo il bicchiere, per farselo cadere in bocca goccia a goccia. Tutte cose che non si facevano più da quando s'era bambini, ma ci si ritorna facilmente e senza meraviglia, come se le avessimo fatte sino a ieri. Lo spaccio è male illuminato, fumoso, ha l'aspetto di taverna, ma i suoi avventori sono i ragazzi più bravi e più buoni, del mondo: mangiata la cioccolata, o bevuta l'aranciata, comprano carta e busta, un francobollo da cinquanta, e appena trovato un angolo di tavolino libero si mettono a scrìvere a casa o alla fidanzata. Eccone qui due, seduti uno vicino all'altro, che si consigliano a vicenda. Scrivono con quei pennini che si trovano solo negli spacci e negli uffici postali: spuntati, arrugginiti, fatti ad uncino, sulla carta scricchiolano, s'inceppano, raschiano, e tutt'intorno spruzzerebbero inchiostro se questo nel calamaio ci fosse; nel calamaio c'è, invece, una poltiglia che manda un acutissimo odore di aceto, e, sparsi nella poltiglia, grossi blocchi di roba nerastra che ogni tanto vengono su, pescati dal pennino fatio a uncino. Ma nelle scuole elementari succedeva lo stesso, ricordate?, e in più si pescavano ogni tanto delle mosche morte. I due allievi, come abbiavi detto, Si consigliano a vicenda. Può sembrar strano. Come! Due allievi ufficiali che hanno percorso studi lunghi e severi non sanno che cosa scrivere alla mamma, quali parole adoperare per dire alla fidanzala che le vogliono bene! Eppure è così: hanno fatto, -sì, studi lunghi e severi, ma stasera, curvi sul marmo del tavolino, con la penna che non scrive, con l'inchiostro che non c'è, impacciati nella giacca o troppo larga o troppo stretta, col pensiero alla mamma lontana, sono due soldatini che per la prima volta scrivono una lettera — Tu che ci metti? —■ Io ci metto che sto bene e che mi sono ingrassato di due chili. — Ce lo metti che sei stato consegnato? — Io no. Potrebbe pensare chi sa che cosa. ■— Neanch'io ce lo metto. Curvi, col naso sulla carta, fanno per un po' scricchiolare le penne. Poi: — Che hai .scritto? fammi leggere. — « Cara mamma, il signor capitano è bwono e mi vuole molto bene. Ieri mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto: bravo»... Studi lunghi e seuert quanto volete, ma i figli che scrivono alla madre sono tutti uguali, e con questi pennini Za calligrafia dello ttudente non si distingue da quella del contadino. — Che ora è? — Le otto e mezza. Tra mezz'ora tornano i compagni dalla libera uscita. S'esce nel cortile, e il cielo stellato è così profondo che non si sente più la costrizione di prima. Si avvertono le foglie stormire, senza vederle. L'aria è fresca, ma fa- piacere dopo il caldo opprimente dello spaccio. Ci si siede sul margine d'un'aiuola. — Tu che farai, finito il servizio militare? E sotto quelle stelle ci si sente così piccoli che ci pare di aver domandato: — Tu che farai quando sarai grande? E nel silenzio che segue si tende l'orecchio per sentire se ci sono i grilli, come in certe notti di tanti anni fa. Ma è troppo presto ancora, è appena marzo. Gli edifici della caserma, nel buio, non si vedono più. Non sembra di stare in un cortile, ma in un luogo immenso, senza /imiti. Vediamo tante stelle quante ne vede chi è in campagna, o su un monte. Altri consegnati ci passano vicino, come ombre. Suona la tromba. Ecco quelli della libera uscita che accorrono, affannati, timorosi d'aver fatto tardi, e la maggior parte ha sprecato in un caffè o in un cinematografo quelle tre ore di libertà. Ci mischiamo a loro, felici, col cuore pieno di stelle. Mosca CONSEGNATI 1 """""""«m uiiriintiii t iiiiiki m fiiiniii minimi iiiimiHiitiliiiililiimiii iiiiiiiiiiiiiiniiiiiiii i | CCRSC A1LMEYPI HJFFIICI1AELHI | CONSEGNATI iTiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiMiiiiii mmimiiii.mm,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,, mi?1?0 % teH avevo sPerato di poter arrivare alla fine del corso senza essere consegnato; ma TJi "V ™e™v,glio, stasera, di vedere il mio nome nella tabella. «Giorni uno di consegna: fumava in camerata ». Doveva pur toccarmi. Per consolarmi leggo i nomi dei compagni di sventura: Lauzi, stessa mancanza, tre giorni, ma è recidivo; Borgoni, rucci, Letizia, Albergo: bottino in disordine. Una volta promisi che avrei parlato del bottino: è un armadietto fissato alla parete, sopra M letto, e pende sulla testa del dormiente. Un uomo normale quando vi avesse messo dentro un pettine, una spazzola e l'occorrente per la barba, 10 considererebbe, e a ragione, così pieno da non potervi ficcar più niente. L'allievo ufficiale, invece, deve riuscire a farcì entrare, pena i più orribili castighi da parte di Pinto, la giacca e i pantaloni di Ubera uscita; la biancherìa che comprende anche tre paia di quelle mutande lunghe di tela ruvide e dure che se le poggi, rigide come sono, per terra, rimangono in piedi e hai l'impressione che da un momento all'altro si mettano a camminare; le maglie e le fasce ventriere; i picchetti della tenda che serviranno quando si farà il campo; il berretto; il bicchiere, le posate e il tovagliolo; la spazzola per la testa, quella per i vestiti e quella per le scarpe; i libri; il sapone e l'asciugamani; e se i parenti ti mandano da casa un prosciutto, anche U prosciutto. Naturalmente succede che ogni volta che lo apri, gli sportelli si spalancano violentemente a 11 contenuto esplode per un raggio di cinque o sei metri; e se in quel momento si trova a passare Pinto, tu sei consegnato. Peccato non poter uscire stasera: siamo a marzo inoltrato, c'è ancora il sole, le ragazze già vanno senza paltò, e sentono la prim/vvera. Vediamo i compagni uscire, coi bottoni d'ottone ben lucidati, come andassero a una festa; tanto leggeri nelle loro scarpe di libera uscita quanto noi pesanti in quelle chiodate. Come le passeremo queste tre ore? Letizia, professionista della consegna, chiede tt permesso al sergente d'ispezione e va a dormire. La caserma rimane deserta. I passi di noi poveri consegnati risuonano nei corridoi come quelli dei passanti, all'alba, nelle strade silenziose, destando echi che non conoscevamo. Ecco la tromba dei consegnati: viene stanca su dal cortile e ci chiama per l'appello. Tulio si svolge come sul Getroni, il classico manuale di regolamenti militari: « L'ufficiale di picchetto quando vuole assicurarsi che tutti i puniti siano in caserma, fa suonare l'apposito segnale (quel triste suono di tromba che dice: caporale di giornata porta abbasso i consegna). Il sergente d'ispezione fa la chiamata dei caporali e dei soldati: i primi sono riuniti tn un luogo a parte; i secondi sono presentati al sergente dal rispettivo caporale di giornata). Terminato l'appello, siamo liberi; liberi, naturalmente, in un senso molto limitato: possiamo passeggiare su e giù per il cortile, entrare nello spaccio, andare a trovare i compagni malati in infermeria. Saggio, di queste tre cose, è farne una alla volta, molto lentamente, perchè tre ore fuori passano in un lampo, ma qui in caserma sembrano un'eternità. Saliamo le scale dell'infermeria ch'è al secondo piano, e dopo la primo rampa si comincia a sentire odor di acido fenico. Alle pareti grandi tabelloni colorati raffiguranti gli effetti delle principali malattie, e, scritti, i modi di evitarle o di curarle. Nel corridoio, all'odore dell'acido fenico :i aggiunge quello della creolina, e le pareti sono bianche. Nella sala di medicazione, un allievo a bocca spalancata mostra col dito all'infermiere qualche cosa che gli sta succedendo in un molare, e l'infermiere dopo aver guardato dentro con un occhio solo, come si guarda in un buco o in una serratura, introduce nella bocca un gran pennello e manovra a lungo sortendo due effetti: quello di aumentare a dismisura i dolori del paziente, e quello di aggiungere agli odori d'acido fenico e di .creolina l'odore di tintura di iodio. Sempre seguiti dai lamenti dell'allievo, entriamo nell'infermeria dove in tanti letti con le coperte a scacchi, certamente simili al letto del tamburino sardo di De Amicis, gli allievi fumano o leggono libri gialli tenendo in mano un'arancia. Ma Benedetti non fa nessuna di queste tre cose: è triste: non lia più febbre, è guarito, domani deve lasciare l'infermeria, il brodo di vitella, le uova, i maccheroni col burro. — Si stana cosi bene qui. Quattro giorni di paradiso. Il maggiore medico è buono, scherza, racconta storielle. Voi che avete fatto? Gli raccontiamo quanto è avvenuto in caserma durante quei quattro giorni, e Benedetti fa signorilmente gli onori di casa offrendoci le uova sode che ha accumulate sotto il cuscino, e facendoci bere a turno in una bottiglietta di vino nascosta sotto le coperte, molto calda a causa del contatto del corpo. E' triste, ma lo consola un pensiero. — Dopodomani — dice fregandosi le mani — iniezione antitifica: tutti a letto di nuovo. E fra une settimana, altra iniezione antitifica. Viene una gran febbre, e giù, due giorni di letto. Sorride al pensiero dell'iniezione antitifica, e gli passa la tristezza. — Dovrebbero fare — aggiunge — anche quella antitetanica che dà una febbre molto più forte e molto più lunga. Spalanca la bocca. — Guardate — dice — non ho più placche in gola. Niente. Domani devo alzarmi. Quello lì — e indica, il vicino di letto — ha l'influenza, abbastanza grave. Forse ancora dieci giorni di letto, fino alle vacanze di Pasqua. Ho provato a contagiarmi standogli vicino, bevendo nello stesso bicchiere, avvicinandomi molto quando tossiva: niente. Credo poco alle malattie contagiose. Un po' disgustati, salutiamu Benedetti e ci tiene spontaneo augurargli una ricaduta. Torniamo giù in cortile. Sparito il sole, la sera è scesa, ma non tanto ancora da offuscare il verde novello deqìi alberi. Giorni fa erano ancora neri, stecchiti. Tutte le mattine ci affacciavamo per vedere se erano venute le prime foglie, ma ci aspettava sempre una delusione. Poi improvvisamente le foglie eran venute, ma ce ne eravamo accorti solo quando, già grandicelle di due o tre giorni, non eran più come le avremmo volute vedere, piccolissime, appena nate o addirittura nel momento della nascita. Ma foglie di cortile, prigioniere come noi. Sembra che non stasera soltanto, ma che mai più si possa uscire da questo cortile. La gente che passa per la strada ci sembra gente d'un mondo lontanissimo, in cui un giorno vivemmo, ma oramai negato a noi per sempre. Si sente un passante fischiare una canzonetta: la sapevamo anche noi, ma è come se l avessimo dimenticata e tornasse a noi stasera come l'eco d'una cosa morta. Nostra madre, la nostra casa, dove sono? E se anche domani, se anche dopodomani fossimo consegnati? Eppure queste foghe sono uguali a quelle degli alberi della strada; e appena due ore fa una signorina, venuta a cercare ,,n ufficiale, è passata per questo cortile, ha fatto scricchiolare questa ghiaia. Ohe, che sono questi pensieri? Scrolliamoli di dosso, stupidaggini. Entriamo nello spaccio. Pieno di consegnati. Si ginoca a dama, a scacchi, si bevono bicchierini d'alchermes, quel liquore appiccicoso che si trova ancora nei salotti delle vecchie, antiche signore e negli spacci militari. I consegnati sono come bambini: si rigirano in mano quei pochi soldi trovati frugando nella profondità delle tasche, e non sanno che comprare. Ma qualche cosa debbono pur comprare per consolarsi della viancata uscita. Oh, non chiedono gran che: un'arancia? mezz'etto di morta- i iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiimiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii della? o un panino col formaggio? o un pezzetto di cioccolata di quella stessa marca che tanti anni fa ci regalava la nonna quando eravamo stati buoni? O un'aranciata? ma di quelle aranciate fatte con lo sciroppo e poco rimescolate, di modo che ai primi sorsi è acqua, poi via via si comincia a sentire il sapore e finalmente il fondo, denso e appiccicoso, bisogna stare un'ora a faccia in aria scuotendo il bicchiere, per farselo cadere in bocca goccia a goccia. Tutte cose che non si facevano più da quando s'era bambini, ma ci si ritorna facilmente e senza meraviglia, come se le avessimo fatte sino a ieri. Lo spaccio è male illuminato, fumoso, ha l'aspetto di taverna, ma i suoi avventori sono i ragazzi più bravi e più buoni, del mondo: mangiata la cioccolata, o bevuta l'aranciata, comprano carta e busta, un francobollo da cinquanta, e appena trovato un angolo di tavolino libero si mettono a scrìvere a casa o alla fidanzata. Eccone qui due, seduti uno vicino all'altro, che si consigliano a vicenda. Scrivono con quei pennini che si trovano solo negli spacci e negli uffici postali: spuntati, arrugginiti, fatti ad uncino, sulla carta scricchiolano, s'inceppano, raschiano, e tutt'intorno spruzzerebbero inchiostro se questo nel calamaio ci fosse; nel calamaio c'è, invece, una poltiglia che manda un acutissimo odore di aceto, e, sparsi nella poltiglia, grossi blocchi di roba nerastra che ogni tanto vengono su, pescati dal pennino fatio a uncino. Ma nelle scuole elementari succedeva lo stesso, ricordate?, e in più si pescavano ogni tanto delle mosche morte. I due allievi, come abbiavi detto, Si consigliano a vicenda. Può sembrar strano. Come! Due allievi ufficiali che hanno percorso studi lunghi e severi non sanno che cosa scrivere alla mamma, quali parole adoperare per dire alla fidanzala che le vogliono bene! Eppure è così: hanno fatto, -sì, studi lunghi e severi, ma stasera, curvi sul marmo del tavolino, con la penna che non scrive, con l'inchiostro che non c'è, impacciati nella giacca o troppo larga o troppo stretta, col pensiero alla mamma lontana, sono due soldatini che per la prima volta scrivono una lettera — Tu che ci metti? —■ Io ci metto che sto bene e che mi sono ingrassato di due chili. — Ce lo metti che sei stato consegnato? — Io no. Potrebbe pensare chi sa che cosa. ■— Neanch'io ce lo metto. Curvi, col naso sulla carta, fanno per un po' scricchiolare le penne. Poi: — Che hai .scritto? fammi leggere. — « Cara mamma, il signor capitano è bwono e mi vuole molto bene. Ieri mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto: bravo»... Studi lunghi e seuert quanto volete, ma i figli che scrivono alla madre sono tutti uguali, e con questi pennini Za calligrafia dello ttudente non si distingue da quella del contadino. — Che ora è? — Le otto e mezza. Tra mezz'ora tornano i compagni dalla libera uscita. S'esce nel cortile, e il cielo stellato è così profondo che non si sente più la costrizione di prima. Si avvertono le foglie stormire, senza vederle. L'aria è fresca, ma fa- piacere dopo il caldo opprimente dello spaccio. Ci si siede sul margine d'un'aiuola. — Tu che farai, finito il servizio militare? E sotto quelle stelle ci si sente così piccoli che ci pare di aver domandato: — Tu che farai quando sarai grande? E nel silenzio che segue si tende l'orecchio per sentire se ci sono i grilli, come in certe notti di tanti anni fa. Ma è troppo presto ancora, è appena marzo. Gli edifici della caserma, nel buio, non si vedono più. Non sembra di stare in un cortile, ma in un luogo immenso, senza /imiti. Vediamo tante stelle quante ne vede chi è in campagna, o su un monte. Altri consegnati ci passano vicino, come ombre. Suona la tromba. Ecco quelli della libera uscita che accorrono, affannati, timorosi d'aver fatto tardi, e la maggior parte ha sprecato in un caffè o in un cinematografo quelle tre ore di libertà. Ci mischiamo a loro, felici, col cuore pieno di stelle. Mosca

Persone citate: Albergo, Benedetti, Borgoni, De Amicis, Lauzi

Luoghi citati: Mosca