IL DIAVOLO di Filippo Burzio

IL DIAVOLO IL DIAVOLO finn bri chiamarlo anche BriWmi, S:iIiiiiii:-K(i, Lucifero, Moli = i.,r|i | t:i r<» ii i fT<- (» indicar foiz7■• 111 impieghi <• ni I riIiii7.iimi, inni chi un passnio alquanto buiTnsc.ofto), f > i ìi vii In <• il suo vero nome. <■ lo ili|.ini;r con noni In fondamonInl rarlicn Dm, che poi sdrucciola in r leu urlio di rotondo o di srnrrivoli', rome flcgli i, rotolanti sul suolo ; c se li iascia dietro il Cavalieri!, in quel suo tacito Unire, e toccare improvviso alle spalle della genio, elio non è un umano camminare, ina un trovarsi ove i ona al punto buono. Cavaliere, nissignori, e non bestiale figura, contaminazione di umano e felino, come a talun maldisposto piacque immaginarlo, con ali di pipistrello o muso di toro; ne serpente o ean barbone, ma un cavaliere, sia pure un po' strano, con quella cera allungatissima, che termina in barbetta da caprone; quegli occhi obliqui, alla cinese, e il sorriso beffardo; corna, coda, il pie' forcuto appena accennati, con signorile discrezione, nel costume elegantissimo ■— così, rosso e nero e dinoccolato, egli appare improvviso (in una oleografia popolare, ai tem pi della mia fanciullezza, anco ra assai diffusa) a gelare il sangue addosso a una onesta famiglia, riunita una bella sera a giocare alle carte attorno al desco, nel cerchio della domestica lucerna : mi avete chiamato, eccomi ; che volete da me? Forse qualcuno, nel calor del tresette o della Bcopa, ha detto imprudentemente al suo compare : va al diavolo ; oppure il diavolo ti porli! ed ora eccolo lì. Come faremo a liberarcene, chi se li ricorda più gli scongiuri del caso? Forse era già lì. presso di noi, a spiarci, ap piattato invisibile in qualche angolo oscuro; forse è salito su dal la cantina, o da quel più profon do sotterraneo cui da essa si ac cede per una scaletta ripidissima, e che, per l'appunto, in dialetto chiamano infernot: già saturo di afa. e della quasi irrespirabile e sulfurea, calda umidità della 7,0na ìnfera. Che imprudenza, lasciar simili varchi aperti al suo passaggio ! E' quel che mi dico, ai miei giorni d'infanzia, bofonchiando e imprecando fra me e me, quando per un nonnulla,, con criminosa leggerezza, il babbo e la mamma mi condannano {di nera.') ad andarmene tutto solo, in castigo e senza frutta, fuor della sala da pranzo, per lungo corridoio in camera buia: e se, lungo il tragitto, una mano mi ghermisca e mi porti via per sempre? gl'incoscienti, piangeranno poi tutta la vita. * * Eppure, eppure... pur così timoroso com'ero, io lo amavo, il Diavolo, o quanto meno, egli mi attraeva, più dell'Angelo Custode: questi non era che una diafana figura, quasi evanescente, a predicarmi di essere virtuoso; un po' astratta e irreale come un simbolo (salvo forse la sera, quando con grandi ali bianche raccolte ai fianchi, inginocchiato con me presso il lettino, quasi materializzandosi, assisteva alle mie preghiere: Angela di Dio, vite sei ■il mio custode, ine a te affidato dalla Bontà divina...) — quegli era invece un bizzarro e corposo signore, sempre pronto alle beffe più impensate e ai mercati più strani (come quando propose, a quello sciagurato Pietro Schlemil, di comprargli la sua ombra), che coi suoi andirivieni e frequenti apparizioni, effettuava e rendeva palpabile la invocatissima inserzione del mondo occulto nel mondo mio di tutt'i giorni. E il suo tempo era sopratutto il Carnevale, quei tre giorni sfrenati di turbini e vociare efferatissimi, quando come pazza la gente errava travestita per le strade, a darsi in braccio e in balìa di tut•t'i diavoli rossi e neri che incontrava. 0 Maschere », li chiamavano: alla larga! Due bisogni profondi, e duci vitali (come vi tali sono per la natura fisica l'a ria per respirare ed il pane per mangiare) provò la mia natura spirituale, non appena ebbe preso coscienza di se stessa; bisogni, che mi sembrarono duramente contrastati dall'epoca in cui mi trovai a vivere, e contro cui pertanto compresi subito di dovermi impegnare, in una lotta di vita o di morte: 1° il bisogno che /,/ realtà fosse poetica; e tutto il positivismo filosofico, il naturalismo artistico alla Zola, l'attivismo tecnico del tempo in cui io ero fanciullo sembrava negarlo spietatamente: e su questo punto, dopo tremenda lotta, io vinsi, quando capii che dipendeva da me, dalla mia forza, crear la poesia nella realtà, vivere magicamente la mia vita ; e la storia di questa lotta mortale io consegnai nel mio primo libro, che si chiamò Vita nuova. 2° Il bisogno che la realtà fosse, " anche », sopranaturale, che il Cosmo avesse una ragione arcana, quale alla semplice naturalità non appare; che il mistero non fosse una semplice etichetta apposta sul vuoto, che il terrestre sfociasse nel divino : e questo secondo bisogno — che ha per sua antitesi perfetta il bolscevismo, il quale vuol invece ridurre tutto alla terrestrità — non è a tutt'oggi soddisfatto in modo così completo e definitivo come l'altro; anima esso tutti gli sforzi tonaci e annosi del demiurgo por intuire un dsvapmmvic0pfdScullcnptaspIczfnf1 divino n aggiornato ». il quale salili il mistero alla razionalità. Allora come allora, credevo io veramente al soprauat ura'c ? in altri termini, quando incominciò pieslo bisogno insoddisfatto, tra magico e mistico; in quale momento preciso della mia vicenda venne meno l'ingenua fede della infanzia? Diffìcile a dirsi, a ricordare: forse fu intorno ai 14 0 15 anni, se proprio in quel tempo la mia buona madre mi pose fra mani, senza parere, un libro del padre Giovanni Semeria : Sr.ie.nza e fede, e il loro preteso conflitto, che formò l'incanto di una certa estate di alpestre villeggiatura, e di gran pensieri solitari nell'ombra dei boschi amici. Certo è che una sorta di fede negativa, cioè di timor sacro, o pànico, dell'ombra, del vuoto, di tutto ciò che è fisso o sfingeo 0 ambiguo, durò a lungo, dopo; ne si può dire, ogjgi, del tutto scomparso. Per me, passare da una camera abitata ad una vuota, chiudendo dietro di me una porla, è cosa che. se il pensiero ci si fissi, mi dà, ancora r sempre, un brivido, come se un'ignota realtà potesse ghermirmi e farmi suo, al di là di quella porta, che mi separa dal consorzio umano. E' di quel tempo un sogno cupo (il più bello e fosco, forse, della mia fanciullezza; il sogno del Monte dei Cappuccini. E' una domenica pomeriggio, io come al solito ho accompagnato il babbo, ohe va a giocare alle bocce alla Palestra del Club Alpino (come allora lo chiamavano), sulla bella spianata ai piedi dell'altissimo muro del convento che domina Torino. Per mia disgrazia quel giorno, invece di errare pel bosco, come d'abitudine, mi viene in mente di entrare nell'edificio, che ha al pianterreno salo innocenti di ritrovo, per altro sempre vuote, o quasi : salgo una scaletta, una porta (murata o meno che sia), che separa le sale del circolo dai sovrastanti piani del convento, si apre, io pieno di cu-l riosità m'inoltro, salgo, scendo, Lprocedo in un labirinto di sale.jsalette, corridoi, cunicoli. A un certo momento passa un frate, io lo seguo, c ancora avanti. Forse ero partito in compagnia di ali ri ragazzi, non so, il fatto è che di improvviso mi trovo solo, il frate si volta... la tunica e vuota, quello non e che il fantasma di un frate! Vorrei gridare, darmela a gambe, ma sono ormai a distanza incommensurabile rial punto di partenza, tutte le vie che ho percorso si son come ristrette, rattrappite alle spalle, dovrei sgusciare inosservato per ànditi bui fra ombre di frati, lo spavento mi gela... Molti anni dopo, a Montecassino, girando tutto solo pel convento un pomeriggio di domenica (che ci avevo fatto una scappata da Roma), e varcala una soglia, dove, sopra un cancelletto semiaperto di le-1gno stava scritto: clausura — a trovarmi mezzo perduto in un labirinto di corridoi, celle e cellette, sentii quell'antico, fanciulle- sco terrore gelarmi il sangue una altra volta. l [„ nn r(.,.|0 periodo della mia ; Lj(a ioeredrtti aver trovato il ri-|jmf,(Mo „ stj jncu|,f. p |„ adot- tavo sopratutto in campagna, quando l'incanto dell'autunno mi aveva ratteiiuto, smemorandomi, fin oltre l'ora giusta nel bosco,lfra le creature spettrali innumeri che la stagione aveva spogliatoidi foglie, e la rapina del vento faceva gemere e ululare e sbatte-!re nell'ombra, in una sorta di gigantesca ihti>.<e inaridire. Consisteva esso nel cercar d'incorporarmi alla paurosa realtà circostante, partecipando alla sua tregenda, con balzi incomposti e sbatter di mani fra loro e sulle coscio, con fischi e soffi e nell'universa! subbuglio. Diavolo tu, diavolo io, come a dite: à eorsa ire, contai re et demi. — Dolce, per ragion di contrasto, idolatrato mondo reale, quando vi riapprodavo ; benedetta luce 1del giorno, così limitata iata dall'ombra! Ristretto mar gine di naturalità e di quotidianità dell'esistenza umana, come una breve giornata solatìa nel [{1 ii ju„rtjtj inst- caos tenebroso dell'Essere che, il limitato, oltre il termine della m'"''e s' c''stf>nde. 1 conventi, con rl1K'"a 'oro clausura, e segreto di vit'B sepolte, di cappelle e cellet- te■dischiuse estatiche sull'aldilà, eran.° ,,f",ì,' tramite naturale fra 1 d,,e mondi, che mi attraevano e respingevano insieme. Ne ^'1'-"" » potasse venirmi, por ""1' a P'"'" doveva frale raion cronologica, dal l'unsi, che estasiarmi. come un culmine della poesia umana. Anche Dante, certo. 110 va a un ..erto momento il diavolo sui passi della sua vita reale, e si perde, prima ancóra di esser morto, nella selva selvaggia ed aspra e forte; ma quest'avventura al legorica incideva assai meno sul mio rapito immaginare della passeggiata vespertina del Dottore predestinato, pur mo' uscito dal suo studio, che, col suo fàmulo a fianco, quasi presago indugia fuori porta, mentre nel crepuscolo campestre qua e là sia vaghi si accennano i primi guizzi del cerchio infernale che subdolo intorno a lui si stringe. Filippo Burzio

Persone citate: Dolce, Giovanni Semeria

Luoghi citati: Roma, Torino