La grande rivalutazione della figura del contadino

La grande rivalutazione della figura del contadino Insegnamenti della guerra La grande rivalutazione della figura del contadino Fra le tante cose che la guerra va insegnando a noi tutti, e fra gli infiniti adattamenti rassegnati e doverosi, che essa impone, ve ne sono -alcuni che meritano rilievo per la loro importanza che, molto probabilmente, si proietterà nel futuro. La prima osservazione che ogni giorno più cade sotto gli occhi di ognuno, è la grande considerazione che ha preso l'agricoltura. Adesso finalmente tutti, senza eccezione, comprendono che senza una fiorente agricoltura il popolo, anche il più valoroso e il meglio militarmente preparato, non regge alle privazioni e alle ferree limitazioni che lo stato di guerra impone. Era tempo, era gran tempo che anche i cittadini, illusi dalle evanescenti grandi comodità che gli accentramenti urbani offrono, traviati da secoli dal pregiudizio insano e radicatisaimo che il lavoro dei campi sia il più volgare e di minor importanza nella vita sociale, cosi quasi da degradare chi lo compie; era tempo, si ripete, che si rivedessero concetti campati su sabbie molto mobili. L'agricoltura, nutrice dei popoli e maestra di civiltà, rimane, vetusta, solenne, immortale, alla base del vivere umano, e del suo progredirà, anche quando per questo progredire la società deve subire la cruenta e terribile scossa della guerra. Ah, adesso, quanti vorrebbero «tare in campagna, vicino agli umili contadini, divenuti cosi preziosi fornitori di alimenti indispensabili, e maestri insuperabili di adattamenti e di privazioni! Si, maestri anche in questo campo — e varrà un giorno la pena di analizzare minutamente questo aspetto della semplice rude vita rurale ammaestrevole — perchè è da secoli che i contadini si sono messi, senza bisogno di imposizioni, sulla via della autarchia e della semplicità massima nei bisogni della vita. Far senza caffè e cloccolatto, era cosa naturale per essi, cui il primo spuntino al levar del sole o dopo le mattutine fatiche era costituito solo da un pezzo di pane e da un pomodoro o un pezzetto di formaggio. Far senza automobili a benzina era loro abitudine perchè sorreg geva nei giri alla città o nelle cani pagne il paziente somarello o il modesto cavalluccio. Far senza carne era loro antica abitudine, vegetariani come sono sempre stati e usi a mangiar carne solo la domenica o, ben spesso, soltanto nei giorni di sagra. Fare a meno della prima classe, dei vagoni letto, del vagoni ristoranti nel pochi viaggi che essi facevano, era cosa naturale: la modesta terza classe e il fagotti no con una pagnottella e una boccia di vino supplivano. Perfino far la coda negli uffici e nelle botteghe non era per essi cosa nuova, abituati e rassegnati come erano da tempo a mettersi in fila sempre fra gli ultimi, per lasciar passare prima f « signori > negli uffici, nelle banche e davanti agli altri sportelli. Grandi e vecchi maestri di pazienza, di rassegnazione, di umile sottomissione ai doveri dell'ora, sempre furono i nostri meravigliosi rurali. Meravigliosi anche se soltanto... ora se ne accorgono 4 cit teuJtai'déi'g^ridi'cehtri abituati a considerarli la zavorra della società. Grande e fecondo insegnamento di ogni giorno e di ogni ora in questo tormentato periodo di nostra storia: tormentato pei sacrifici che, naturalmente, impone, ma saturo di sicure infallibili promesse di vittoria e di un miglior avvenire per la patria. Alla quale patria i contadini danno, non soltanto l'alimento per tutti e l'esempio morale tanto più alto quanto meno altero, ma danno anche fior di sangue e di sacrifizi. Forse non tutti e non è colpa loro, ma della società che non li preparò con una adatta cultura — capiscono bene quale sia lo scopo della guerra, quali le mète di questa nazione rinnovellata dal fascismo. Ma quando la patria chiama, sotto forma di un manifesto o di una cartolina che impone di presentarsi alla caserma mai uno di loro ha chiesto di imboscarsi, ha cercato motivi più o meno reconditi per esimersi dal servizio. Sono partiti con un misero fagottino e, pur pensando di frequente con nostalgia non sentimentale ma materiata di cose, alla famiglia, ai campi, alla stalla, hanno scritto a casa: equi si sta bene. Fa caldo, si combatte, ma si vincerà ». Brava gente. Ed era ora che la virtù loro si rivelasse in pieno. Quanto all'attrattiva delle cam- tagne, già si avvera in grandi tati che ritenevano oggetto di potenza e di gloria solo le industrie cittadine, un esodo notevole, Impressionante dalla città alle campagne! Benissimo! Da noi, ciò che supremamente preme, è che il « pericolo numero uno > l'urbanesimo, sollecitato purtroppo dai richiami vistosi delle industrie, non si affermi pel dopo guerra che sarebbe la peggiore delle sventure. Ogni cura deve essere data, dal Governo, dagli Enti, dalle organizzazioni per tener lontano, anzi per soffocare questa piovra delle grandi città (in questi tempi si è visto e si vede che razza al sovraccapi generano le grandi agglomerazioni pel vitto e i servizi pubblici!) la quale provocherebbe una irreparabile decadenza nella nostra vita sociale e nazionale. Altre volte chi scrive si è permesso di affermare che « la nuova civiltà verrà dalle campagne >. Le lezioni di questi giorni, le spassionate considerazioni sull'avvenire, danno sapore di attualità a Suesta che vorremmo fosse verità i domani. Arturo Marescalchi —

Persone citate: Arturo Marescalchi