ELETTRA

ELETTRA ELETTRA Le piaceva vendere cipolle, on pere, quel frusciare secco e vivido di fitte epidermidi brillanti le suggeriva sempre un pettine, tra molti capelli, asciuttissimi accesi, i suoi, dei giorni di vento, quando le esplodevano crepitando dai fermagli rossi. Invece la buccia densa delle pere era opaca, ci si doveva conficcare l'unghia, quella del pollice destro, quadrata, dura, o l'altra, del mignolo sinistro, lunga, inutile, rosa, che non le pareva sua. Oppure i peperoni : anche lì si potevano mettere le mani, farli saltare nella cesta, confonderli, gialli rossi verdi, e raccontarli, gridando fermare le donne alacri ed incerte 6ul Mercato, donne, questa è carne viva donne, questi son bistccchi, ne riempiva il piatto della bilancia, il cartoccio arricciato nella Eco della Riviera, e le pareva di fare un regalo. I fagiolini l'annoiavano, ma si posava sulle spalle le zucche lunghe, dorate, .in morbido arco, barucche, baritei Ve, meglio delle volpi dà tremila lire, donne, meglio delle rene. Tutto il mercato chiamava le volpi rene, e ne discorreva con entusiasmo, le signore commercianti in pollame e formaggi ne possedevano sempre due, con occhi di vetro verde, le signore addette ai banchi dei legumi una, Elettra niente, ma aveva le zucche, e i capelli a grappolo, le belle labbra gonfie, un poco spaccate, che l'apparentavano meglio allo frutta. Vantava i pomidoro, le melanzane. Il vento aspro ed allegro che dalla Valle del Roja già annunciava un inverosimile inverno, noli'arrivava a disperdere una voce così simile, in fondo, al suo suono stesso, le chiare mattine d'ottobre ne prendevano uu valore dispettoso, lucente, e la venditrice di castagne arrosto, il venditore di farinata, accoglievano una Elettra incapace di resistere lungamente ad un odore. Il suo posto restava spesso vuoto, solitarie le verdure raggruppate secondo un gusto crollante, pericoloso, acceso, solo giustificato dalla presenza di lei, che in un fragore meditato di ciabattine a tacco alto volava dal carrettino dei gelati alle fortiere della pisciarà. Amava i suoi denti legati dal freddo, la sua lingua scottata dal morso troppo caldo, ed anche l'odore amaro, di buou legno, delle sue braccia, quando aveva corso; e la stanchezza delle sue reni, la sera, in un letto stretto e crocchiante: amava Jean, naturalmente, i suoi stivaloni di falso cacciatore, i suoi maglioni scuri, di falso sportivo, il suo berretto calzato sugli occhi, la sigaretta all'angolo della bocca, la parola rada, i riccioli lisciatissimi, l'estrema giovinezza mascherata di risoluzioni brusche, virilmente ciniche, e tanto candida ancora che Jean nemmeno conosceva il suo cinematografico ideale. Lavorava molto, e per tutti,, anche per Elettra. Patate a sacchi, agli a collane,-quando scaricava il camion, lì accanto, nell'alba ancora violetta di nebbie e di sonno e di caffè corretto al rum, Elettra bravamente gli toglieva le ceste, se le equilibrava sul capo, le vuotava, le sostituiva, gli tornava vicina, spavalda, succhiando una sorba, e le sue guancie avevano un rosa den60, cremeso, quali lilla, Jean, diceva rapida e arrogante, Jean, Jean. Si accorgeva tremando di non aver nulla da dirgli, nulla, mai, le zucche barucche, le rene, | la carne viva, tutto perdeva im|portanza davanti all'imponente silenzio di lui, che subito spoil camion per distribuire altra merce, o, dietro una barriera di salami e prosciutti, accettava un panino dàlia ricchissima salumaia delle due volpi. Poi tornava da Elettra, le lunghe ciglia cvirve restavano infantili tra le sopracciglia volentieri contratte, il naso stretto di orgoglio alle narici; le scompigliava il prezzemolo, o i capelli arsicci, le stringeva una spalla, le rubava una pantofola. Elettra replicava,' viva, squillante oltre un filo amoroso di raucedine, lo inseguiva qualche volta saltando sopra un piede solo, fin oltre la tettoia di cemento. Rideva, accaldata, con le lacrime liquide e fresche, pronte sotto le palpebre, che erano nobili, profondamente bistrate e mediterranee. Tutto il mercato sapeva di Elettra e di Jean. Forse Metta no. Era stata in convento dalle suore, era stata in Svezia dai nonni, ed anche ora al Mercato veniva solo il pomeriggio, per i fiori, seduta nel camion accanto al padre baffuto e distratto, i fasci compatti delle rose, dei garofani, dei crisantemi la chiudevano come in un muro, e non era curiosa, solo contenta di chiamarsi Metta Poccardi, di avere una rosa sua, di pensare che tra poco i fioristi di tutto il mondo avrebbero detto: Subito trecento Metta Poecardi alla principessa, subito cento Metta Poccardi al signor duca, naturalmente per il vostro occhiello vorrete una Metta Poccardi, Eccellenza? Qualche voi ta, la notte, le pareva di sentirsi chiamare, e durante il giorno, quando sbrigava la corrispondenza del padre, credeva di mandar lettere di definitiva prò mclldafimrpngratpnmvdVietava e i e e . i e a e o o a e . n a e l i n o a , i o r o , i messa, a Berlino, oppure a Bucarest. Era una rosa tutta gialla, un miele divenuto, con mollezza, cristallo, e qualche tono di rosa, sottinteso, raggrumato appena nel cuore, da rivelarsi a fioritura completa, poche ore prima che la Metta Poccardi morisse : Jeau se ne accorse solo dopo averla portata tutto un gior no, infilata nel taschino della giubba a vento, proprio un cuo re rosso fra tanto giallo, forse anche Metta non era solo dora ta, fredda, distante, quale appariva oltre la mica del finestrino, oltr.' le barriere di fiori. Al mattino dopo Elettra glie l'aveva ancora trovata indosso sfatta, ormai, e insolente chiese dovè l'avesse presa: E' una Metta Poccardi, doveva rivederla, la sera, in un bicchiere di galalite, sul cassettone della stanza di Jean. Sapeva di pepe, piuttosto che di zucchero, un aroma forte e malinconico colò dal canterano verso la loro notte inutilmente amorosa. Il novembre cominciò freddo, i prezzi delle rose salirono. Elettra brandiva i cavolfiori con mani rosse e dolenti, ne agitava le foglie lunghe per dar rilievo alla palla bianca, cantava funghi, cantava rape, e non aveva mai visto Melfa, che arrivava da Bordighera solo alle tre, e restava sempre nel camion, e sorrideva appena a Jean. Ma Jean non portava lo sciarpone di lana scozzese che gli era parso tanto elegante, l'anno prima, e non rubava più le pantofole di Elettra. Ora. tutto il Mercato sapeva anche di Jean e di Metta. Piovve per due giorni, un ragazzo albino e tardo sostituiva, al mattino, Jean, ed al suo posto portava gli agli, i cavoli, le barbabietole. Erano tutte merci noiose, per Elettra, rimpiangeva la liscia luce dei pomidoro, la crosta squamosa degli zucchini di Tripoli, sbadigliava spesso, uno sbadiglio secco, che le scopriva, in fondo alla bella bocca carnosa, il buco nero dei due denti perduti. Poi Jean riapparve, e non aveva più la giubba a vento, ma un impermeabile bianco, ben stretto in vita, e niente caschetta. Le signore dei formaggi, le signore delle patate, capirono prima di Elettra, e le testimoniarono la cordialità, cerimoniosa e dolciastra d'obbligo nei grandi lutti. Jean aveva ancora una rosa, sull'impermeabile, Elettra disse che strana Metta Poccardi, ed ebbe degli occhi pe santi, cauti, di venditrice, men tre Jean le spiegava come il suo orario fosso mutato, avrebbe la vorato solo il pomeriggio, d'ora in poi, c'era molto lavoro al mercato dei fiori. Ci andò anche Elettra, alle tre; calando dalla Valle del Roja, un vento non meno di lei animoso e simulatore la investiva di sbieco, le regalava una piega diversa di capelli, un altro angolo di sorriso, l'aiutava a saltare per gioco sulle bilancie, a trovare le vecchie parole di scherzo, ad occuparsi delle sue sottane per non vedere Metta, incorniciata dal buo finestrino come un'immagine di cera, in vetrina. Jean parlava con Poccardi padre, e portava una cravatta, una cravatta vera, a pallini, sopra una camicia a righe, e sorrideva con modestia, con ossequio, con tenerezza, tutto il Mercato, e perfino Elettra, riconobbero il sorriso-del-generp. *** Elettra smise di lavarsi, suoi occhi appassiti di pianto si accordarono alla sua pelle terra sa, ai suoi denti opachi, alla sua voce graffiata. Vendeva confusamente mele e noci, senza di stinguere la sonora perfezione del legno ..dalla noiosa impeccabilità del pomo. Scherzava gre. ve con il ragazzo albino, accet tava da lui qualche carezza intiniidita* dal venditore di elastico e spille qualche proposta audace e non impegnativa, sforzandosi a pensare che quello, stopposo, questo, zoppo, potessero aiutarla a tirarsi su.. Parlava spesso di tirarsi su, di uova, di ricostituenti, ed anche di cinematografo, di giri in bicicletta, e ogni tanto le pareva di star meglio, di respirare libera e sicura. Poi le bastava scorgere, in una mostra, due cravatte, per ritrovarsi lo stomaco chiuso, la nausea irritata ed avida che-le riassumevano il suo infelice amore. Dovette comprarsi un nuovo Libro dei Sogni, per capir meglio le sue notti, andò a piedi ad un Mercato abbastanza lontano perchè le signore di laggiù ignorassero le sue pene, a domandar consiglio. Seguitava a non lavarsi, il suo odore era ormai luttuoso, greve, presente anche a lei stessa, e solo quando da un paese delle montagne le arrivò la lettera della Madrina, con tutte le spiegazioni e gli insegnamenti del caso, tornò, per un ' giorno, netta, fragorosa e tutta crespa di sfolgorante rabbia. Fu l'albino che andò a comprare, per lei, cento Metta Poecardi, e le portò, ben chiuse nella carta oleata, alla stanza solitaria di Elettra, nel Paese Alto. Rimasero, fino all'ora di cena, in fresco nella catinella, Elettra, sdraiata sul letto le guar- s dava tranquilla, pianissima mormorando tra sè le parole sugge rita dalla madrina, aspettando che i vetri della finestra dive nissero verdi di crepuscolo, e poi neri. Allora si alzò, accese la lampadina nuda e rossiccia sul soffitto, tolse dall'armadietto una terrina, un coltello, una for chetta, il pacchetto del sale, l'oliera, e si preparò l'insalata, sfo gliando, ad una ad una, le conto Metta Poccardi. Seduta tra le lenzuola sfatte, si chiuse tra le labbra grasse di olio e di offesa i primi petali, anneriti, torturati, ma ancora vivi, e delicatamente corposi, e subito si dimenticò gli incantesimi offerti dalla Madrina, lo cravatte di Jean, la qualità del duro corpo amato: a testa bassa, padrona di un odio finalmente solido e potente che le metteva sotto i denti il vellutato argento di una carne nemica, mangiò, fino alla fine, i seni, le guancie, le orecchie, il cuore di Metta Poccardi. • Irene Brin

Luoghi citati: Berlino, Bordighera, Bucarest, Svezia, Tripoli