Legislatori burloni di Francesco Argenta

Legislatori burloni Legislatori burloni Nell'infanzia del diritto la crudeltà si è alternata alla beffa, ma la tradizione burlesca non è spenta del tutto; riappare qua e là per l'esemplarità della pena Una notizia dalla Francia si intreccia con un'altra che viene dalla Romania : a Melun è stato giustiziato un giovane che aveva ucciso la madre e l'esecuzione si è compiuta ancora col vecchio tristissimo cerimoniale in uso pei parricidi: il condannato-è stato fatto avanzare verso la macchina macabra a piedi nudi, in camicia, il capo avvolto da un velo nero fittissimo; a Bucarest, un funzionario dell'amministrazione dello stato che era venuto meno al suo dovere ed aveva accettato danaro dal pubblico, non ha dovuto attendere il processo per subire l'amarezza e l'onta della condanna : per cinque giorni consecutivi egli è stato tradotto in ufficio dai gendarmi ed in luogo di pigliar poito al proprio tavolo, è stato costretto a sostare — ammanettato — in anticamera: facile ed inevitabile ludibrio degli uscieri, dei colleglli, del pubblico stesso che si avvicendava senza sosta nel locale. « Pubblico esempio » Lontane e diverse; fosca l'una, lepida l'altra, le due notizie hanno un punto di incidenza o di interesse comune. Se l'alone Ignominioso in cui si è compiuta l'espiazione del matricida di Melun attesta la tenace sopravvivenza di una tradizione che, attraverso remote lontananze di tempo, era pervenuta alla repubblica dall'impero, la beffarda sorte riserbata al funziona-1 rio di Bucarest adombra il risorgere di una tradizione che era stata soffocata dalle elaborazioni legislative moderne e che faceva risiedere l'efficacia della sanzione nella capacità infamante o derisoria del meccanismo afflittivo. E', in ogni caso, il vecchio problema della funzione intimidatfva della pena che rispunta attraverso la singolarità dei due episodi. E rispunta con tutti i suoi assilli, i suoi interrogativi, le sue alternative drammatiche ed angosciose le soluzioni sopraffatrici e paradossali che ha avuto in passato, sospingendoci, solilo scivolo della storia, verso lontananze oscure e remote : l'infanzia del diritto, il limite stesso fra la leggenda e la storia. Oggi tutti i sistemi penali si fondano sulla emenda del reo: la funzione emendativa della pena sovrasta o travalica quella intimidativa. Ma sino alla soglia del nostro secolo è stata tutt'altra cosa. L'emenda del reo, il recupero sociale del condannato, era un problema inavvertito; più spesso era ritenuto una superfetazione: quello che contava nella lotta contro il delitto era l'esemplarità del castigo. Il granduca Leopoldo fu tra i primi a subire l'influenza delle nuove dottrine. Ma rassegnandosi ad ammettere, nel proemio alla « nuova legislazione criminale per la Toscana », che oggetto della pena ha da essere la « soddisfazione del privato e pubblico danno e la correzione del reo », egli non rinunciò a proclamare, ancora, che oggetto della sanzione ha da essere, soprattutto, il pubblico esempio E può essere incontestabile, sotto molti punti di vista, ma la sfera di applicabilità del pubblico esempio, i meccanismi afflittivi in cui doveva tradursi l'applicazione del principio che dominava i legislatori passati con la potenza di un dogma e la cruda insistenza di un'idea ossessiva, erano infiniti, spietati, inimmaginabili. Di giallo e di nero Il codice delle due Sicilie, per rifarci ad una delle codificazioni più vicine, ne dava un saggio sostanziale attraverso un uso della pena di morte assai più largo di quello che ne avesse fatto il codice del 1810, così da collocarsi nella scia della codificazione di Maria Teresa che puniva con la morte ben trentadue delitti, e delle costituzioni modenesi, che ne punivano ventidue. Ma un cosi vasto raggio di applicabilità dell'estrema sanzione era, per il legislatore borbonico, di un'efficacia intimidativa ancora dubbia od incerta La vera forza intimidativa della ♦ ♦»♦♦♦♦♦♦»»»♦»♦'»»♦♦»♦♦♦ 1 pena poteva scaturire soltanto dall'esemplarità dell'esecuzione. E il codice, per accrescere l'infamia dell'estremo supplizio, prevedeva tre modi d'esempio, graduati con primitivo criterio dal legislatore sulla scala, atroce, dei crimini. Nulla di enorme, tuttavia, nel primo modo: l'esecuzione doveva compiersi nel luogo ove era stato commeyso il misfatto o in quello più prossimo. Negli altri due modi, invece, a questa condizione doveva aggiungersi una particolare messinscena. Il condannato doveva essere condotto al supplizio a piedi nudi, vestito di giallo e doveva portare sul petto un cartello indicante, a.lettere cubitali, il misfatto compiuto. A piedi nudi, ma vestito di nero e col volto coperto da un velo nero, il condannato doveva raggiungere 11 luogo del supplizio, secondo il terzo modo d'esempio, ritto su di una tavola che era trascinata dagli sgherri: sul petto doveva portare un cartello con su scritto, a lettere cubitali, l'uomo empio. Questi motivi pantomimici innestati sulla terrificante an- foscia del dramma, erano, per alro, un nonnulla rispetto agli eccessi e le aberrazioni cui si erano abbandonati i legislatori del tempo di mezzo per accrescere, in nome del pubblico esempio, l'onta e l'infamia dell'estremo supplizio. Il patìbolo infiorato Rara nell'antichità del viopoli germanici, la pena di morte si era diffusa, fra i Longobardi, sotto Rachis ed era dilagata, nei secoli seguenti, sotto l'influenza del diritto romano e dei giureconsulti formati alla sua scuola. Clarus insegnava che secondo le norme romane e le appplicazioni del suoi interpreti, ben 44 erano i delitti che dovevano punirsi di morte ed altri facevano salire a 48 i reati in quìbus poena mortis specifice a lene est imposita. Non occorreva di più per incoraggiare l'abuso cui dovevano abbandonarsi i legislatori! Già i capitolari avevano ordinato che i giudici ed i vicari te nesisero sempre le forche in efficienza e le sagomfe dei sinistri strumenti finirono col profilarsi in permanenza sullo sfondo delle piazze e delle contrade, tanta era la frequenza delle esecuzioni. Ma tutto ciò non bastava. E ad onta che la forca fosse ritenuta di per sè un supplizio disonorante, in quanto originariamente esclusivo dei servi, i legislatori non lasciarono alcunché di intentato per accrescerne l'ignominia e l'orrore. In molti casi la beffa andò fusa, atrocemente, col dramma. Qua il reo era impiccato insieme ad un lupo o ad un asino, oppure fra due cani; là era condotto al supplizio a coda di asino o di cavallo, oppure a cavalcioni di un somarello mitriato. Lo statuto d'Argovia voleva che gli ebrei fossero sospesi alle forche per un piede; quello di Ferrara prescriveva: « l'incendiario si impicca e poi abbrucia » Dalla forca potevano salvarsi ! nobili, se il loro delitto non era infamante, in virtù del principio che la pena dell'impiccagione doveva applicarsi in plebejo et popxdari. Ma era un privilegio di pura forma, che all'impiccagione si sostituiva la decapitazione: « Se ignobile si sospenda alle forche, se nobile gli si taglia la testa ». La legge non subiva ecce zioni, salvo che in Valtellina, il cui statuto consentiva al giudice che aveva condannato alcuno a morte di commutare « quella sor te di morte in altra più piacevole per li preghi altrui o l'arbitrio proprio ». Ma altrimenti amabili furono i legislatori verso i nobili che andavano al supplizio, consentendo loro di pretendere che il patibolo fosse infiorato ed ornato con il fasto e la magnificenza proprie del loro rango. I registri della congregazione della misericordia di Milano tramandano, in proposito, il caso del conte Affai tato che, il 5 marzo 1625, fu decapitato, in quella città, su un grandissimo palco ornato con drappi neri, cosparso di fiori e fiancheg- ♦♦♦♦♦♦♦+»»»♦»♦♦♦♦♦»♦♦* glato da dieci torce « da libre sei ciascuna ». Ma anche questa era una forma in cui poteva tradursi il pubblico esempio. Senonchè la crudeltà estrosa e sottile cui i legislatori dell'evo di mezzo furono trascinati nell'affannosa implacabile ricerca dei mezzi atti a conferire il massimo di esemplarità alla pena, non si scatenò soltanto ai margini del patibolo, ma informò tutto il sistema delle pene e dei castighi la cui gamma, come si sa, era estesissima e paurosa, andando dall'amputazione di una mano o di un piede a quella di entrambi, dal taglio del naso a quello delle orecchie, dall'accecamento allo strappamento della lingua, alla decalvazione ecc. E in molti casi un tormento doveva aggiungersi all'altro. Facoltà di scelta Talora le mutilazioni erano inflitte in sostituzione di pene pecuniarie (a Lucca veniva tagliata la lingua a « chi si cangia il nome, se non paga la multa ») e talora la specie del supplizio non era indicata specificatamente dalla legge, cosi da generare incertezze in chi doveva eseguirla. « Chi taglia alberi fruttiferi altrui — ?rescrlveva l'antico statuto di Tento — paga 50 lire: se non le ha, gli si taglia la mano ». E fra gli interpreti sì discusse se doveva compiersi l'amputazione della destra o della sinistra. Ma, nell'incerta dizione della legge, le discussioni risultarono anche più accese . quando il condannato era monco: Quid autem si quis non habet nisi unicam manum, ilio, sola abscindetur"! E i pareri furono naturalmente discordi. Ma al di là di questi scrupoli si spingeva decisamente lo statuto di Corsiea; disponendo che al falsario si recidesse la prima volta una mano, la seconda in cui incorreva nel reato, l'altra. Taluni legislatori per altro, preferirono non dettagliare su questo argomento, lasciando al giudice la scelta della mutilazione onde doveva essere colpito il reo, quando pure non consentirono allo stesso condannato di indicare l'arto che preferiva immolare, accordandogli di sostituire uno con l'altro (amittat manum vel pedem, in sua electione, diceva lo statuto di Vercelli), anche quando la pena nella legge non era alternativa. Inattesa magnanimità che nascondeva una raffinatezza crudele! Del resto, dove non arrivavano con la crudeltà, i legislatori del tempo di mezzo arrivavano con la burla. Ed erano, in ogni caso, ugualmente crudeli! E' questo, forse, uno dei tratti più caratteristici di quell'epoca. I processi agli animali, le macchinose messinscene onde la giustizia perseguiva i fantasmi dei trapalati, tutto il pittoresco sistema delle pene derisorie, destinate a servire di sollazzo al pubblico e di incancellabile vergogna a chi le subiva, dicono, come osservava il Bonghi, «l'ironia con la quale si guardavano a quel tempo le cose umane e quelle tutte che sono intrecciate con esse ». Una legge dei Burgundi, che può considerarsi come la capostipite delle disposizioni legislative a fondo burlesco, imponeva a chi aveva rubato un cane di baciarlo ripetutamente sotto la coda, in pubblico. Più pratico, re David di Scozia voleva che il ladro del cane sostituisse, per un anno e un giorno, l'animale nella guardia alla casa del derubato. Sollazzo e vergogna Un editto di Carlo Magno imponeva ai rei di segrete combriccole di percuotersi run l'altro e tagliarsi vicendevolmente i capelli ed il naso, mentre lo statuto di Dortmund, nel caso di due donne che si fossero vicendevolmente insultate, cosi statuiva in un latinetto alla portata di tutti: portabunt duos lapides per catenas cohaerentes, qui ambo ponderabunt unum centenarium, per longitudine civitates in communi via... Secondo le costituzioni piemontesi del 1770, il falso testimonio doveva essere condotto in giro su di un asino, con la mitera in capo e un remo in spalla; per lo statuto di Avignone, invece, al falso testimonio si attaccavano due lingue di panno rosso sul petto e due sulle spalle, con obbligo di portarle tutta la vita. Al falsari, Venezia riserbava un castigo più complicato : li faceva tingere di fuliggine, sulle scale del palazzo ducale, dal cuoco del doge, e poscia li faceva accompagnare per la città, pubblicando a suon di tromba il loro delitto. Chi rubava il legname che discendeva per i fiumi, doveva, secondo lo statuto di Parma, per civitatem ducere lignum ad collum, ma una vergogna'maggiore era riserbata, un po' dovunque, ai diffamatori, i quali dovevano gettarsi ai pie' dell'offeso, portando una corda al collo, per indicare ch'eransi meritata la forca, e, a pie' nudi, attraversare tutta la città. Faceva eccezione a questa norma lo Specchio svevo, che si accontentava di imporre all'autore dell'offesa di ritrattarsi pubblicamente, battendosi sulla bocca e dicendo: «Bocca, tu hai mentito quando hai detto quelle parole ». Ed era la più blanda tra le sanzioni escogitate dall'estrosità dei legislatori burloni. Francesco Argenta

Persone citate: Bocca, Maria Teresa, Rara