Sul mare della battaglia al soccorso dei naufraghi di Mario Bassi

Sul mare della battaglia al soccorso dei naufraghi Sul mare della battaglia al soccorso dei naufraghi Come sono stati tratti, in salvo gli equipaggi di nostri aerei caduti in mare Storia di un ferito, di un battellino di gomma e di un intrepido comandante (Da uno dei nostri inviati) Aeroporto di..., 17 agosto. Fu quella mattina di venerdì H L' imponente convoglio nemico composto di oltre r,J, unità fra bastimenti da carico e passeggeri petroliere é navi da guerra di scorta, partito da Gibilterra, sco perto e segnalato il giorno 11, di retto al Mediterraneo Centrale, era orinai frantumato, disperso, in massima parte distrutto. Piroscafi e navi da guerra in buon numero erano sprofondati negli abissi del mare con il loro carico; altri, incendiati, bruciavano àncora; altri ancora, in procinto di affondare, erano andati ad arenarsi sulla costa tunisina. Il mare, dall'Africa alla Sicilia, brulicava di reliiti di naufragio, di imbarcazioni di salvataggio, di rottami, di naufraghi; questi, che stipavano imbarcazioni e zattere, che si aggrappavano ai rottami, che si reggevamo col salvagente, che nuotavano alla disperata. ■Visione impressionante ■ Traversando-questi spaziai mare a nord-ovest- e a -sud-est del Canale di Sicilia, a nord e a est della costa tunisina, intorno all'isola di Pantelleria e delle Pelagie e fino al gplfo di Hammamei e sulla piccola Sirte da un lato, e verso Malta dall'altro, i nostri ricognitori aerei ritraevano una vi sione impressionante del disastro, della catastrofe del convoglio ne mico. Nostri mezzi di salvataggio, aerei e navali, andavano racco gliendo e soccorrendo naufraghi nemici fra cui moltissimi uomini di truppa. Fu dunque il giorno 14, alla mattina. I nostri ricognitori, come informavo nelle mie corrispondenze dei giorni scorsi e specificavo meglio nella mia corrispondenza di ieri notte, avvistavano ancora un residuo del convoglio a 15-30 chilometri a est dell'isola di Limosa, in direzione di Malta. Al centro si trovava quella grossa unità che non si capiva bene che cosa fosse coperta da un unico ponte in tutta la sua ampiezza e lunghezza; quello doveva essere un incrocia iore ausiliario adattato a nave portaerei sussidiaria, una specie, come è stata definita, di « campo di fortuna » marittimo per l'atterraggio di aerei. Questa unità, probabilmente già colpita da bomba o da siluro, era manifestamente in avarìa e tirata a rimorchio da un bastimento di minore tonnellaggio e circondata da, alcuni cac-, ciatorpedinicro che le stavano intorno a protezione. Un affaracclo pei cacciatori Su tale obiettivo conversero i nostri bombardieri a tuffo, quelli delle squadriglie del capitano Al do Stringa e capitano Antonio Cumbat, citati nei comunicati ufficiali, scortati dai cacciatori del tenente colonnello Aldo Remondi no, citato anche questi nei comu nicati ufficiali. La reazione contraerea dei cacciatorpediniere di scorta e di quelli, stessi della sussidiaria portaerei, si scatenò tremenda. I nostri cacciatori, con il colonnello Remondino alla testa, non sommavano nemmeno alla metà degli avversari. Ma il guaio per i nostri cacciatori, in questa circostanza, era che per scortare i tuffatori, per accompagnarli per la loro difesa- anche nel tuffo, dovevano scendere bassi sul mare; e venivano quindi a mettersi in condizioni di pericolosa inferiorità tattica rispetto al nemico. Ho visto il colonnello Remondino al suo ritorno al campo con i suoi cacciatori; e mentre saltava già dal suo apparecchio, dal suo invitto Macchi 202, lo salutavo: « Ebbene? Ebbene"! Come è andata? ■». Era contrariato e impaziente, perchè aveva veduto cadere in mure uno dei suoi, assalito da due Spitflre. Si capiva, da quel magnifico pilota e magnifico comandante che egli è, provato alla guerra etiopica, alla guerra di Spagna e a questa guerra, valorosissimo Ira i valorosi, si capiva che proprio il combattimento era stato un affa raccio, di quelli che, quando se ne esce bene, si tira un gran sospiro di soddisfazione. E i più giovani sono quelli die daranno più pensiero al comari-* dante perchè molte volte vogliono fare più del necessario. I nostri cacciatori, però, nell'impari combattimento, avevano riportato una tanto più meritevole vittoria, abbattendo quattro dei nemici e mitragliandone parecchi altri. Dei nostri, uno solo colpito, e precipitando in fiamme si era buttato col paracadute. Uno dei compagni volandogli sopra, quando lo vide in mare, gli lasciò cadere il proprio battellino pneumatico di salvataggio. Il inaggiore comandante di un gruppo gli fece cenno che sarebbe tornato ad assisterlo guidando l'idrovolante di soccorso. Difatti, appena tornato al campo e riforniti i serbatoi del carburante esaurito nella azione, il maggiore ripartiva in volo con due gregari alla ricerca del caduto. Mentre, dunque, i cacciatori della scorta sostenevano tale combattimento, i tuffatoli poitavano a. compimento la propria missione, e il capitano Stringa con la sua squadriglia prendeva a bersaglio la portaerei sussidiaria colpendola replicata-mente con le sue bombe nelle fiancate, e il capitano Cumbat con la sua squadrìglia- mirava al bastimento rimorchiante e ai cacciatorpediniere. II bastimento fu centrato dal capitano Cumbat, personalmente, con la sua bomba; e il suo gregario colpiva il cacciatorpediniere. Altre bombe esplodevano in mezzo la formazione. Il capitano Cumbat, dunque, centrava con le sue bombe il piroscafo rimorchiato. Ma egli non vide nè poteva constatare gli effetti del suo tiro che furono invece osservati da qualche compagno e da qualche cacciatore della scorta. Egli stava risollevandosi dal tuffo, quando l'armiere, dietro di lui, lo avvertiva precipitosamente: — Cacciatore in coda. — Nello stesso momento, il cacciatore nemico, un Curtiss, faceva fuoco con il cannoncino e con le mitragliatrici. , Mi raccontavano i compagni del cipitano Cumbat che videro l'apparecchio di questo che saltava in pezzi. L'armiere fu subito colpito da un proietto del cannoncino che gli fracassò la spalla destra all'attaccatura del braccio. Fu allora che mormorò, ma senza lamentarsi: — Comandante portatemi a casa. —- Il comandante già dirigeva per Pantelleria e sperava, così, che gli riuscisse di arrivarci; quando si incendiò un serbatoio della benzina — dell'ala sinistra — colpito da una pallot-, fola incendiaria. L'apparecchio divampò. Il capitano Cumbat lo buttò in acqua ammarando. Il carrello schizzò in pezzi. Il capitano fece appena in tempo a piccipiiarsi fuori tirando con sè, con uno sforzo disperato, l'armiere e portandosi insieme sul battellino pneumatico di salvataggio; e l'apparecchio affondava e scomparirà. Cumbat con il suo ferito Cumbat si trovava in mare con quel suo ferito, che egli sosteneva. Gonfiò il battellino pneumatico e si sollevò sopra e adagiò il ferito, il suo armiere, primo armiere Cavallo. La ferita era atroce e il sangue sgorgava a fiotti. Ma il bravo ragazzo non si lamentava; ogni tanto ringraziava il superiore dell'assistenza che questi gli prodigava. Ma presto il battellino accennò ad afflosciarsi e a sgonfiarsi. C'era un buco. E Cumbat 10 riparò e lo rigonfiò con una pompa a mano. Egli si teneva in acqua per lasciare io spazio del battellino al ferito, che potesse starci adagiato. E pompava. Scoprì un altro foro, nel battellino, e un'altra fuga d'aria. Riparò anche questa. È continuava a pompare. E un terzo foro ancora; e questo più grosso degli altri, quasi uno strappo. Cumbat seguitava a pompare, con esasperata energia. Ma si accorse che quella situazione non poteva durare; ad ogni momento il battellino minacciava di affondare. La situazione non poteva durare, quando Cumbat scorse nell'acqua che galleggiavano le due ruote del carrello del suo apparecchio. Il carrello si era spezzato all'urto contro l'acqua e le due ruote con i relativi pneumatici staccatesi, galleggiavano. Con sforzo Cumbat nuotò verso una delle ruote tirandosi dietro il battellino e fermandosi di tratto in tratto, per pompare. Finalmente raggiunse la ruota; e dispose così di un galleggiante suppletivo. Poi ripetè la nuotata fino ad afferrare l'altra ruota; adesso aveva due galleggianti suppletivi, c si sentiva più sicuro. Egli del resto confessò che non dubitò mai un momento che sarebbero venuti a salvarlo; e soltanto l'angustia va l'attesa per il ferito, che visibilmente soffrìva; e l'angustiava 11 timore che venissero a prender lo gli inglesi, da. Malta, magari credendolo uno dei loro e lo facessero prigioniero. Passavano le ore. Cumbat, tolti c buttati via i sandali, i calzini e la tuta di volo, s'era sistemato a cavalcioni dell'asse di una delle due ruote per mantenere a galla il battellino. Ogni tanto ristorava il ferito e se stesso con qualche pezzetto di cioccolato, qualche biscotto e qualclie sorso di cognac del pacco viveri dì conforto che era dentro il battellino. Passavano leiore. Passava il meriggio, il sole ormai declinava verso l'orizzonte. Era prossimo il tramonto. Cumbat aveva veduto trasvolare lontanissimo qualche aeroplano, così lontano da non distinguere se amico o nemico. Poi ne vide un paio che si avvicinavano e li riconobbe inglesi. Ancora girarono su di lui, abbassandosi; poi se ne andarono. Poco dopo, Cumbat avvistava un idrovolante, un apparecchio tedesco, che dirigeva all'incirca verso di lui. Fu, egli dice, il momento della più forte emozione. Egli non aveva mezzi per richiamare l'attenzione di quelli dell'apparecchio, poiché, quando si era buttato in mare, gli era caduta ed aveva perduto la pistola di segnalazione con i razzi. Quando si accorse che l'idrovolante amico non mostrava, di averli scorti e passava oltre, chinò il capo e non volle guardarlo più. Ma qualche momento dopo, non si trattenne dal sollevare gli occhi. E gli parve che l'idrovolante stesse piegando e tornasse con largo giro verso di lui. Furono i momenti più emozionanti di tutta l'avventura. Finché l'apparecchio ammarò, lì presso, un idrovolante tedesco di soccorso; e raccolse l'armiere ferito e raccolse lui. Erano salvi. Tutti salvi Quasi alla stessa ora, cioè tra le 19 e mezzo e le 19 e tre quarti, un nostro idrovolante di soccorso, rintracciava egualmente e salvava l'equipaggio di un altro nostro apparecchio da bombardamento in tuffo, composto da un sergente pilota e dall'armiere. Questo apparecchio era stato abbattuto in una azione del giorno precedente; e i due erano in mare, con il battellino di salvataggio, ormai da circa trentasei ore; e avevano raccolto e ospitato sul battellino anche un naufrago inglese. Dopo circa trentasei ore di mare, in quelle condizioni, furono ritrovati sereni e lieti; lamentavano soltanto di essere rimasti senza sigarette in tutto quel tempo. E l'inglese, già salvato da loro, fu nuovamente salvato con loro. Il bravo sergente, con la sua arguzia napoletana, notò che non è da tutti, naufragando da un aeroplano in mare, di fare prigioniero un avversario, sia pure anche lui naufrago. Quello stesso giorno, qualche ora prima, era anche stato portato in salvo il capitano Pittonì, dei cacciatori del colonnello Remondino. Dopo averlo trovato, i compagni gli avevano fatto la guardia dal cielo, alternandosi in volo, senza lasciarlo mai, girando con tinuamente sopra di lui. E avevano guidato l'idrovolante nostro di soccorso. L'ultima azione di questa grandiosa battaglia aeronavale del Mediterraneo era stata, compiuta poco dopo il mezzogiorno di quel venerdì 14. I nostri ricognitori aerasi avevano avvistato e segnalato a nord della costa algerina, circa dopo il golfo di Phiiippeville, la superstite formazione di navi da guerra inglesi già di scorta all'ormai distrutto convoglio, mia nave da battaglia, tre incrociatori, quattro cacciatorpediniere che tornavano in velocità, verso occidente alla- volta di Gibilterra. Gli aerosiluranti delle due squadriglie del capitano Ugo Rivoli e del capita no Giulio Cesare Oraziani, cn trombi citati nei comunicati uffi etili, scortati da cacciatori, volarono ad inseguire quest'ultima formazione nemica. A nord-ovest del golfo di Phiiippeville i nostri aerosil tiratori, entrambi in un fuoco infernale della difesa contraerea delle navi, piazzarono ancora un siluro, probabilmente, velia chiglia della nave da battaglia colpirono anche un incrociatore e un cacciatorpediniere. E fu questo, per questa battaglia, l'ultimo attacco portato dai nostri avialo ri, da qìieste basi del Mediterraneo centrale, fino «7 lìmite della propriu antonomi'i, contro le navi da guerra nemiche, che tornavano indietro e scappavano verso la boss di Gibilterra. Il convoglio era ormai distrut- io. La sconfitta «nalo-americana^era completa: una delle più disti-1strose ed umilianti che VInghiltir-\ra abbia mai subito nel nostro Me-Yditerraneo, forse la peggiore di lidie. Mario Bassi Sul mare della battaglia al soccorso dei naufraghi Sul mare della battaglia al soccorso dei naufraghi Come sono stati tratti, in salvo gli equipaggi di nostri aerei caduti in mare Storia di un ferito, di un battellino di gomma e di un intrepido comandante (Da uno dei nostri inviati) Aeroporto di..., 17 agosto. Fu quella mattina di venerdì H L' imponente convoglio nemico composto di oltre r,J, unità fra bastimenti da carico e passeggeri petroliere é navi da guerra di scorta, partito da Gibilterra, sco perto e segnalato il giorno 11, di retto al Mediterraneo Centrale, era orinai frantumato, disperso, in massima parte distrutto. Piroscafi e navi da guerra in buon numero erano sprofondati negli abissi del mare con il loro carico; altri, incendiati, bruciavano àncora; altri ancora, in procinto di affondare, erano andati ad arenarsi sulla costa tunisina. Il mare, dall'Africa alla Sicilia, brulicava di reliiti di naufragio, di imbarcazioni di salvataggio, di rottami, di naufraghi; questi, che stipavano imbarcazioni e zattere, che si aggrappavano ai rottami, che si reggevamo col salvagente, che nuotavano alla disperata. ■Visione impressionante ■ Traversando-questi spaziai mare a nord-ovest- e a -sud-est del Canale di Sicilia, a nord e a est della costa tunisina, intorno all'isola di Pantelleria e delle Pelagie e fino al gplfo di Hammamei e sulla piccola Sirte da un lato, e verso Malta dall'altro, i nostri ricognitori aerei ritraevano una vi sione impressionante del disastro, della catastrofe del convoglio ne mico. Nostri mezzi di salvataggio, aerei e navali, andavano racco gliendo e soccorrendo naufraghi nemici fra cui moltissimi uomini di truppa. Fu dunque il giorno 14, alla mattina. I nostri ricognitori, come informavo nelle mie corrispondenze dei giorni scorsi e specificavo meglio nella mia corrispondenza di ieri notte, avvistavano ancora un residuo del convoglio a 15-30 chilometri a est dell'isola di Limosa, in direzione di Malta. Al centro si trovava quella grossa unità che non si capiva bene che cosa fosse coperta da un unico ponte in tutta la sua ampiezza e lunghezza; quello doveva essere un incrocia iore ausiliario adattato a nave portaerei sussidiaria, una specie, come è stata definita, di « campo di fortuna » marittimo per l'atterraggio di aerei. Questa unità, probabilmente già colpita da bomba o da siluro, era manifestamente in avarìa e tirata a rimorchio da un bastimento di minore tonnellaggio e circondata da, alcuni cac-, ciatorpedinicro che le stavano intorno a protezione. Un affaracclo pei cacciatori Su tale obiettivo conversero i nostri bombardieri a tuffo, quelli delle squadriglie del capitano Al do Stringa e capitano Antonio Cumbat, citati nei comunicati ufficiali, scortati dai cacciatori del tenente colonnello Aldo Remondi no, citato anche questi nei comu nicati ufficiali. La reazione contraerea dei cacciatorpediniere di scorta e di quelli, stessi della sussidiaria portaerei, si scatenò tremenda. I nostri cacciatori, con il colonnello Remondino alla testa, non sommavano nemmeno alla metà degli avversari. Ma il guaio per i nostri cacciatori, in questa circostanza, era che per scortare i tuffatori, per accompagnarli per la loro difesa- anche nel tuffo, dovevano scendere bassi sul mare; e venivano quindi a mettersi in condizioni di pericolosa inferiorità tattica rispetto al nemico. Ho visto il colonnello Remondino al suo ritorno al campo con i suoi cacciatori; e mentre saltava già dal suo apparecchio, dal suo invitto Macchi 202, lo salutavo: « Ebbene? Ebbene"! Come è andata? ■». Era contrariato e impaziente, perchè aveva veduto cadere in mure uno dei suoi, assalito da due Spitflre. Si capiva, da quel magnifico pilota e magnifico comandante che egli è, provato alla guerra etiopica, alla guerra di Spagna e a questa guerra, valorosissimo Ira i valorosi, si capiva che proprio il combattimento era stato un affa raccio, di quelli che, quando se ne esce bene, si tira un gran sospiro di soddisfazione. E i più giovani sono quelli die daranno più pensiero al comari-* dante perchè molte volte vogliono fare più del necessario. I nostri cacciatori, però, nell'impari combattimento, avevano riportato una tanto più meritevole vittoria, abbattendo quattro dei nemici e mitragliandone parecchi altri. Dei nostri, uno solo colpito, e precipitando in fiamme si era buttato col paracadute. Uno dei compagni volandogli sopra, quando lo vide in mare, gli lasciò cadere il proprio battellino pneumatico di salvataggio. Il inaggiore comandante di un gruppo gli fece cenno che sarebbe tornato ad assisterlo guidando l'idrovolante di soccorso. Difatti, appena tornato al campo e riforniti i serbatoi del carburante esaurito nella azione, il maggiore ripartiva in volo con due gregari alla ricerca del caduto. Mentre, dunque, i cacciatori della scorta sostenevano tale combattimento, i tuffatoli poitavano a. compimento la propria missione, e il capitano Stringa con la sua squadriglia prendeva a bersaglio la portaerei sussidiaria colpendola replicata-mente con le sue bombe nelle fiancate, e il capitano Cumbat con la sua squadrìglia- mirava al bastimento rimorchiante e ai cacciatorpediniere. II bastimento fu centrato dal capitano Cumbat, personalmente, con la sua bomba; e il suo gregario colpiva il cacciatorpediniere. Altre bombe esplodevano in mezzo la formazione. Il capitano Cumbat, dunque, centrava con le sue bombe il piroscafo rimorchiato. Ma egli non vide nè poteva constatare gli effetti del suo tiro che furono invece osservati da qualche compagno e da qualche cacciatore della scorta. Egli stava risollevandosi dal tuffo, quando l'armiere, dietro di lui, lo avvertiva precipitosamente: — Cacciatore in coda. — Nello stesso momento, il cacciatore nemico, un Curtiss, faceva fuoco con il cannoncino e con le mitragliatrici. , Mi raccontavano i compagni del cipitano Cumbat che videro l'apparecchio di questo che saltava in pezzi. L'armiere fu subito colpito da un proietto del cannoncino che gli fracassò la spalla destra all'attaccatura del braccio. Fu allora che mormorò, ma senza lamentarsi: — Comandante portatemi a casa. —- Il comandante già dirigeva per Pantelleria e sperava, così, che gli riuscisse di arrivarci; quando si incendiò un serbatoio della benzina — dell'ala sinistra — colpito da una pallot-, fola incendiaria. L'apparecchio divampò. Il capitano Cumbat lo buttò in acqua ammarando. Il carrello schizzò in pezzi. Il capitano fece appena in tempo a piccipiiarsi fuori tirando con sè, con uno sforzo disperato, l'armiere e portandosi insieme sul battellino pneumatico di salvataggio; e l'apparecchio affondava e scomparirà. Cumbat con il suo ferito Cumbat si trovava in mare con quel suo ferito, che egli sosteneva. Gonfiò il battellino pneumatico e si sollevò sopra e adagiò il ferito, il suo armiere, primo armiere Cavallo. La ferita era atroce e il sangue sgorgava a fiotti. Ma il bravo ragazzo non si lamentava; ogni tanto ringraziava il superiore dell'assistenza che questi gli prodigava. Ma presto il battellino accennò ad afflosciarsi e a sgonfiarsi. C'era un buco. E Cumbat 10 riparò e lo rigonfiò con una pompa a mano. Egli si teneva in acqua per lasciare io spazio del battellino al ferito, che potesse starci adagiato. E pompava. Scoprì un altro foro, nel battellino, e un'altra fuga d'aria. Riparò anche questa. È continuava a pompare. E un terzo foro ancora; e questo più grosso degli altri, quasi uno strappo. Cumbat seguitava a pompare, con esasperata energia. Ma si accorse che quella situazione non poteva durare; ad ogni momento il battellino minacciava di affondare. La situazione non poteva durare, quando Cumbat scorse nell'acqua che galleggiavano le due ruote del carrello del suo apparecchio. Il carrello si era spezzato all'urto contro l'acqua e le due ruote con i relativi pneumatici staccatesi, galleggiavano. Con sforzo Cumbat nuotò verso una delle ruote tirandosi dietro il battellino e fermandosi di tratto in tratto, per pompare. Finalmente raggiunse la ruota; e dispose così di un galleggiante suppletivo. Poi ripetè la nuotata fino ad afferrare l'altra ruota; adesso aveva due galleggianti suppletivi, c si sentiva più sicuro. Egli del resto confessò che non dubitò mai un momento che sarebbero venuti a salvarlo; e soltanto l'angustia va l'attesa per il ferito, che visibilmente soffrìva; e l'angustiava 11 timore che venissero a prender lo gli inglesi, da. Malta, magari credendolo uno dei loro e lo facessero prigioniero. Passavano le ore. Cumbat, tolti c buttati via i sandali, i calzini e la tuta di volo, s'era sistemato a cavalcioni dell'asse di una delle due ruote per mantenere a galla il battellino. Ogni tanto ristorava il ferito e se stesso con qualche pezzetto di cioccolato, qualche biscotto e qualclie sorso di cognac del pacco viveri dì conforto che era dentro il battellino. Passavano leiore. Passava il meriggio, il sole ormai declinava verso l'orizzonte. Era prossimo il tramonto. Cumbat aveva veduto trasvolare lontanissimo qualche aeroplano, così lontano da non distinguere se amico o nemico. Poi ne vide un paio che si avvicinavano e li riconobbe inglesi. Ancora girarono su di lui, abbassandosi; poi se ne andarono. Poco dopo, Cumbat avvistava un idrovolante, un apparecchio tedesco, che dirigeva all'incirca verso di lui. Fu, egli dice, il momento della più forte emozione. Egli non aveva mezzi per richiamare l'attenzione di quelli dell'apparecchio, poiché, quando si era buttato in mare, gli era caduta ed aveva perduto la pistola di segnalazione con i razzi. Quando si accorse che l'idrovolante amico non mostrava, di averli scorti e passava oltre, chinò il capo e non volle guardarlo più. Ma qualche momento dopo, non si trattenne dal sollevare gli occhi. E gli parve che l'idrovolante stesse piegando e tornasse con largo giro verso di lui. Furono i momenti più emozionanti di tutta l'avventura. Finché l'apparecchio ammarò, lì presso, un idrovolante tedesco di soccorso; e raccolse l'armiere ferito e raccolse lui. Erano salvi. Tutti salvi Quasi alla stessa ora, cioè tra le 19 e mezzo e le 19 e tre quarti, un nostro idrovolante di soccorso, rintracciava egualmente e salvava l'equipaggio di un altro nostro apparecchio da bombardamento in tuffo, composto da un sergente pilota e dall'armiere. Questo apparecchio era stato abbattuto in una azione del giorno precedente; e i due erano in mare, con il battellino di salvataggio, ormai da circa trentasei ore; e avevano raccolto e ospitato sul battellino anche un naufrago inglese. Dopo circa trentasei ore di mare, in quelle condizioni, furono ritrovati sereni e lieti; lamentavano soltanto di essere rimasti senza sigarette in tutto quel tempo. E l'inglese, già salvato da loro, fu nuovamente salvato con loro. Il bravo sergente, con la sua arguzia napoletana, notò che non è da tutti, naufragando da un aeroplano in mare, di fare prigioniero un avversario, sia pure anche lui naufrago. Quello stesso giorno, qualche ora prima, era anche stato portato in salvo il capitano Pittonì, dei cacciatori del colonnello Remondino. Dopo averlo trovato, i compagni gli avevano fatto la guardia dal cielo, alternandosi in volo, senza lasciarlo mai, girando con tinuamente sopra di lui. E avevano guidato l'idrovolante nostro di soccorso. L'ultima azione di questa grandiosa battaglia aeronavale del Mediterraneo era stata, compiuta poco dopo il mezzogiorno di quel venerdì 14. I nostri ricognitori aerasi avevano avvistato e segnalato a nord della costa algerina, circa dopo il golfo di Phiiippeville, la superstite formazione di navi da guerra inglesi già di scorta all'ormai distrutto convoglio, mia nave da battaglia, tre incrociatori, quattro cacciatorpediniere che tornavano in velocità, verso occidente alla- volta di Gibilterra. Gli aerosiluranti delle due squadriglie del capitano Ugo Rivoli e del capita no Giulio Cesare Oraziani, cn trombi citati nei comunicati uffi etili, scortati da cacciatori, volarono ad inseguire quest'ultima formazione nemica. A nord-ovest del golfo di Phiiippeville i nostri aerosil tiratori, entrambi in un fuoco infernale della difesa contraerea delle navi, piazzarono ancora un siluro, probabilmente, velia chiglia della nave da battaglia colpirono anche un incrociatore e un cacciatorpediniere. E fu questo, per questa battaglia, l'ultimo attacco portato dai nostri avialo ri, da qìieste basi del Mediterraneo centrale, fino «7 lìmite della propriu antonomi'i, contro le navi da guerra nemiche, che tornavano indietro e scappavano verso la boss di Gibilterra. Il convoglio era ormai distrut- io. La sconfitta «nalo-americana^era completa: una delle più disti-1strose ed umilianti che VInghiltir-\ra abbia mai subito nel nostro Me-Yditerraneo, forse la peggiore di lidie. Mario Bassi Sul mare della battaglia al soccorso dei naufraghi Sul mare della battaglia al soccorso dei naufraghi Come sono stati tratti, in salvo gli equipaggi di nostri aerei caduti in mare Storia di un ferito, di un battellino di gomma e di un intrepido comandante (Da uno dei nostri inviati) Aeroporto di..., 17 agosto. Fu quella mattina di venerdì H L' imponente convoglio nemico composto di oltre r,J, unità fra bastimenti da carico e passeggeri petroliere é navi da guerra di scorta, partito da Gibilterra, sco perto e segnalato il giorno 11, di retto al Mediterraneo Centrale, era orinai frantumato, disperso, in massima parte distrutto. Piroscafi e navi da guerra in buon numero erano sprofondati negli abissi del mare con il loro carico; altri, incendiati, bruciavano àncora; altri ancora, in procinto di affondare, erano andati ad arenarsi sulla costa tunisina. Il mare, dall'Africa alla Sicilia, brulicava di reliiti di naufragio, di imbarcazioni di salvataggio, di rottami, di naufraghi; questi, che stipavano imbarcazioni e zattere, che si aggrappavano ai rottami, che si reggevamo col salvagente, che nuotavano alla disperata. ■Visione impressionante ■ Traversando-questi spaziai mare a nord-ovest- e a -sud-est del Canale di Sicilia, a nord e a est della costa tunisina, intorno all'isola di Pantelleria e delle Pelagie e fino al gplfo di Hammamei e sulla piccola Sirte da un lato, e verso Malta dall'altro, i nostri ricognitori aerei ritraevano una vi sione impressionante del disastro, della catastrofe del convoglio ne mico. Nostri mezzi di salvataggio, aerei e navali, andavano racco gliendo e soccorrendo naufraghi nemici fra cui moltissimi uomini di truppa. Fu dunque il giorno 14, alla mattina. I nostri ricognitori, come informavo nelle mie corrispondenze dei giorni scorsi e specificavo meglio nella mia corrispondenza di ieri notte, avvistavano ancora un residuo del convoglio a 15-30 chilometri a est dell'isola di Limosa, in direzione di Malta. Al centro si trovava quella grossa unità che non si capiva bene che cosa fosse coperta da un unico ponte in tutta la sua ampiezza e lunghezza; quello doveva essere un incrocia iore ausiliario adattato a nave portaerei sussidiaria, una specie, come è stata definita, di « campo di fortuna » marittimo per l'atterraggio di aerei. Questa unità, probabilmente già colpita da bomba o da siluro, era manifestamente in avarìa e tirata a rimorchio da un bastimento di minore tonnellaggio e circondata da, alcuni cac-, ciatorpedinicro che le stavano intorno a protezione. Un affaracclo pei cacciatori Su tale obiettivo conversero i nostri bombardieri a tuffo, quelli delle squadriglie del capitano Al do Stringa e capitano Antonio Cumbat, citati nei comunicati ufficiali, scortati dai cacciatori del tenente colonnello Aldo Remondi no, citato anche questi nei comu nicati ufficiali. La reazione contraerea dei cacciatorpediniere di scorta e di quelli, stessi della sussidiaria portaerei, si scatenò tremenda. I nostri cacciatori, con il colonnello Remondino alla testa, non sommavano nemmeno alla metà degli avversari. Ma il guaio per i nostri cacciatori, in questa circostanza, era che per scortare i tuffatori, per accompagnarli per la loro difesa- anche nel tuffo, dovevano scendere bassi sul mare; e venivano quindi a mettersi in condizioni di pericolosa inferiorità tattica rispetto al nemico. Ho visto il colonnello Remondino al suo ritorno al campo con i suoi cacciatori; e mentre saltava già dal suo apparecchio, dal suo invitto Macchi 202, lo salutavo: « Ebbene? Ebbene"! Come è andata? ■». Era contrariato e impaziente, perchè aveva veduto cadere in mure uno dei suoi, assalito da due Spitflre. Si capiva, da quel magnifico pilota e magnifico comandante che egli è, provato alla guerra etiopica, alla guerra di Spagna e a questa guerra, valorosissimo Ira i valorosi, si capiva che proprio il combattimento era stato un affa raccio, di quelli che, quando se ne esce bene, si tira un gran sospiro di soddisfazione. E i più giovani sono quelli die daranno più pensiero al comari-* dante perchè molte volte vogliono fare più del necessario. I nostri cacciatori, però, nell'impari combattimento, avevano riportato una tanto più meritevole vittoria, abbattendo quattro dei nemici e mitragliandone parecchi altri. Dei nostri, uno solo colpito, e precipitando in fiamme si era buttato col paracadute. Uno dei compagni volandogli sopra, quando lo vide in mare, gli lasciò cadere il proprio battellino pneumatico di salvataggio. Il inaggiore comandante di un gruppo gli fece cenno che sarebbe tornato ad assisterlo guidando l'idrovolante di soccorso. Difatti, appena tornato al campo e riforniti i serbatoi del carburante esaurito nella azione, il maggiore ripartiva in volo con due gregari alla ricerca del caduto. Mentre, dunque, i cacciatori della scorta sostenevano tale combattimento, i tuffatoli poitavano a. compimento la propria missione, e il capitano Stringa con la sua squadriglia prendeva a bersaglio la portaerei sussidiaria colpendola replicata-mente con le sue bombe nelle fiancate, e il capitano Cumbat con la sua squadrìglia- mirava al bastimento rimorchiante e ai cacciatorpediniere. II bastimento fu centrato dal capitano Cumbat, personalmente, con la sua bomba; e il suo gregario colpiva il cacciatorpediniere. Altre bombe esplodevano in mezzo la formazione. Il capitano Cumbat, dunque, centrava con le sue bombe il piroscafo rimorchiato. Ma egli non vide nè poteva constatare gli effetti del suo tiro che furono invece osservati da qualche compagno e da qualche cacciatore della scorta. Egli stava risollevandosi dal tuffo, quando l'armiere, dietro di lui, lo avvertiva precipitosamente: — Cacciatore in coda. — Nello stesso momento, il cacciatore nemico, un Curtiss, faceva fuoco con il cannoncino e con le mitragliatrici. , Mi raccontavano i compagni del cipitano Cumbat che videro l'apparecchio di questo che saltava in pezzi. L'armiere fu subito colpito da un proietto del cannoncino che gli fracassò la spalla destra all'attaccatura del braccio. Fu allora che mormorò, ma senza lamentarsi: — Comandante portatemi a casa. —- Il comandante già dirigeva per Pantelleria e sperava, così, che gli riuscisse di arrivarci; quando si incendiò un serbatoio della benzina — dell'ala sinistra — colpito da una pallot-, fola incendiaria. L'apparecchio divampò. Il capitano Cumbat lo buttò in acqua ammarando. Il carrello schizzò in pezzi. Il capitano fece appena in tempo a piccipiiarsi fuori tirando con sè, con uno sforzo disperato, l'armiere e portandosi insieme sul battellino pneumatico di salvataggio; e l'apparecchio affondava e scomparirà. Cumbat con il suo ferito Cumbat si trovava in mare con quel suo ferito, che egli sosteneva. Gonfiò il battellino pneumatico e si sollevò sopra e adagiò il ferito, il suo armiere, primo armiere Cavallo. La ferita era atroce e il sangue sgorgava a fiotti. Ma il bravo ragazzo non si lamentava; ogni tanto ringraziava il superiore dell'assistenza che questi gli prodigava. Ma presto il battellino accennò ad afflosciarsi e a sgonfiarsi. C'era un buco. E Cumbat 10 riparò e lo rigonfiò con una pompa a mano. Egli si teneva in acqua per lasciare io spazio del battellino al ferito, che potesse starci adagiato. E pompava. Scoprì un altro foro, nel battellino, e un'altra fuga d'aria. Riparò anche questa. È continuava a pompare. E un terzo foro ancora; e questo più grosso degli altri, quasi uno strappo. Cumbat seguitava a pompare, con esasperata energia. Ma si accorse che quella situazione non poteva durare; ad ogni momento il battellino minacciava di affondare. La situazione non poteva durare, quando Cumbat scorse nell'acqua che galleggiavano le due ruote del carrello del suo apparecchio. Il carrello si era spezzato all'urto contro l'acqua e le due ruote con i relativi pneumatici staccatesi, galleggiavano. Con sforzo Cumbat nuotò verso una delle ruote tirandosi dietro il battellino e fermandosi di tratto in tratto, per pompare. Finalmente raggiunse la ruota; e dispose così di un galleggiante suppletivo. Poi ripetè la nuotata fino ad afferrare l'altra ruota; adesso aveva due galleggianti suppletivi, c si sentiva più sicuro. Egli del resto confessò che non dubitò mai un momento che sarebbero venuti a salvarlo; e soltanto l'angustia va l'attesa per il ferito, che visibilmente soffrìva; e l'angustiava 11 timore che venissero a prender lo gli inglesi, da. Malta, magari credendolo uno dei loro e lo facessero prigioniero. Passavano le ore. Cumbat, tolti c buttati via i sandali, i calzini e la tuta di volo, s'era sistemato a cavalcioni dell'asse di una delle due ruote per mantenere a galla il battellino. Ogni tanto ristorava il ferito e se stesso con qualche pezzetto di cioccolato, qualche biscotto e qualclie sorso di cognac del pacco viveri dì conforto che era dentro il battellino. Passavano leiore. Passava il meriggio, il sole ormai declinava verso l'orizzonte. Era prossimo il tramonto. Cumbat aveva veduto trasvolare lontanissimo qualche aeroplano, così lontano da non distinguere se amico o nemico. Poi ne vide un paio che si avvicinavano e li riconobbe inglesi. Ancora girarono su di lui, abbassandosi; poi se ne andarono. Poco dopo, Cumbat avvistava un idrovolante, un apparecchio tedesco, che dirigeva all'incirca verso di lui. Fu, egli dice, il momento della più forte emozione. Egli non aveva mezzi per richiamare l'attenzione di quelli dell'apparecchio, poiché, quando si era buttato in mare, gli era caduta ed aveva perduto la pistola di segnalazione con i razzi. Quando si accorse che l'idrovolante amico non mostrava, di averli scorti e passava oltre, chinò il capo e non volle guardarlo più. Ma qualche momento dopo, non si trattenne dal sollevare gli occhi. E gli parve che l'idrovolante stesse piegando e tornasse con largo giro verso di lui. Furono i momenti più emozionanti di tutta l'avventura. Finché l'apparecchio ammarò, lì presso, un idrovolante tedesco di soccorso; e raccolse l'armiere ferito e raccolse lui. Erano salvi. Tutti salvi Quasi alla stessa ora, cioè tra le 19 e mezzo e le 19 e tre quarti, un nostro idrovolante di soccorso, rintracciava egualmente e salvava l'equipaggio di un altro nostro apparecchio da bombardamento in tuffo, composto da un sergente pilota e dall'armiere. Questo apparecchio era stato abbattuto in una azione del giorno precedente; e i due erano in mare, con il battellino di salvataggio, ormai da circa trentasei ore; e avevano raccolto e ospitato sul battellino anche un naufrago inglese. Dopo circa trentasei ore di mare, in quelle condizioni, furono ritrovati sereni e lieti; lamentavano soltanto di essere rimasti senza sigarette in tutto quel tempo. E l'inglese, già salvato da loro, fu nuovamente salvato con loro. Il bravo sergente, con la sua arguzia napoletana, notò che non è da tutti, naufragando da un aeroplano in mare, di fare prigioniero un avversario, sia pure anche lui naufrago. Quello stesso giorno, qualche ora prima, era anche stato portato in salvo il capitano Pittonì, dei cacciatori del colonnello Remondino. Dopo averlo trovato, i compagni gli avevano fatto la guardia dal cielo, alternandosi in volo, senza lasciarlo mai, girando con tinuamente sopra di lui. E avevano guidato l'idrovolante nostro di soccorso. L'ultima azione di questa grandiosa battaglia aeronavale del Mediterraneo era stata, compiuta poco dopo il mezzogiorno di quel venerdì 14. I nostri ricognitori aerasi avevano avvistato e segnalato a nord della costa algerina, circa dopo il golfo di Phiiippeville, la superstite formazione di navi da guerra inglesi già di scorta all'ormai distrutto convoglio, mia nave da battaglia, tre incrociatori, quattro cacciatorpediniere che tornavano in velocità, verso occidente alla- volta di Gibilterra. Gli aerosiluranti delle due squadriglie del capitano Ugo Rivoli e del capita no Giulio Cesare Oraziani, cn trombi citati nei comunicati uffi etili, scortati da cacciatori, volarono ad inseguire quest'ultima formazione nemica. A nord-ovest del golfo di Phiiippeville i nostri aerosil tiratori, entrambi in un fuoco infernale della difesa contraerea delle navi, piazzarono ancora un siluro, probabilmente, velia chiglia della nave da battaglia colpirono anche un incrociatore e un cacciatorpediniere. E fu questo, per questa battaglia, l'ultimo attacco portato dai nostri avialo ri, da qìieste basi del Mediterraneo centrale, fino «7 lìmite della propriu antonomi'i, contro le navi da guerra nemiche, che tornavano indietro e scappavano verso la boss di Gibilterra. Il convoglio era ormai distrut- io. La sconfitta «nalo-americana^era completa: una delle più disti-1strose ed umilianti che VInghiltir-\ra abbia mai subito nel nostro Me-Yditerraneo, forse la peggiore di lidie. Mario Bassi

Persone citate: Aldo Remondi, Antonio Cumbat, Remondino, Ugo Rivoli