Poveri professionisti ! di Francesco Argenta

Poveri professionisti ! FASTI E NEFASTI DELL'INGIURIA Poveri professionisti ! Si prodigano per il bene dei clienti ed all'avvocato capita di sentirsi dire che tratta le cause come un ciabattato, al medico che ritarda la guarigione Respinto il diritto di censura, esclusa la efficacia liberatoria della prova, di quella vaga latitudine che governava con intento moderatore il sistema penale dei delitti contro l'onore è sopravvissuta unicamente, nella nuova codificazione, l'immunità giudiziaria. Sullo schema del codice zanardelliano, il codice attuale ripete che « non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dinanzi all'autorità giudiziaria, ovvero dinanzi ad un'autorità amministrativa, quando le offese concernono l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo ». Libertà di difesa La norma si ricollega al principio della libertà di discussione e di difesa, un principio sacro eterno incrollabile, che fu riconosciuto apertamente dal diritto romano e non fu disconosciuto, neppure nel tempi più bui, dal diritto intermedio. Essa si ispira, come ha precisato di recente la cassazione, al « concetto che le parti, allorquando svolgono dinanzi all'autorità giudiziaria le rispettive ragioni, durante la lite, abbiano la più ampia facoltà di difesa onde non vengano a soffrire detrimento . iudlzio nel loro dir' tefessi, anche se ciò potesse importare la necessità, o anche sol tanto l'utilità, di scrivere o dire cose, attinenti altrimenti alla controversia, che contengano offe se... >. Ma per quanto ampia, la immunità ha 1 suoi limiti. E non potrebbe essere altrimenti. Essa non si estende agli atti introdut tivi del giudizio civile, il co3idetto atto di citazione, e non copre la divulgazione, postuma o comunque estranea alla udienza, degli atti di causa. E' un punto fermo, cotesto. Forte del suo diritto, un padrone di casa si era rivolto al pretore per ottenere lo sfratto di un'inquilina e nel ricorso aveva rimproverato a costei di « convi vere scostumatamente con due uomini ». Fu condannato per diffamazione aggravata. A Napoli, il direttore di un'agenzia turistica, venuto a conflitto con il direttore di una banca nella cui sede avrebbe dovuto impiantare i suoi uffici, lo evocò in giudizio notificandogli una citazione nella quale lo definiva « direttore di una banca con soli debiti » e spiegava di non aver voluto « legare, sia pure attraverso il tenue vincolo di una .sublocatone, la propria gestione a quella di una banca in pieno sfacelo ». Il tribunale ebbe dei dubbi ed assolse, ma interven ne la cassazione e l'errore fu cor retto con una condanna aperta, senza riparo. Più curioso il caso del sig. B., a Torino. Assolto dall'accusa di falso, egli venne condannato dagli stessi giudici, qualche mese appresso, per diffamazione in danno di colui che aveva provocato colla sua denuncia il primo giudizio. Reso ebbro di gioia dall'assolutoria, il sig. B. aveva fatto stampare la memoria difensiva redatta dal suo patrono e cosi com'era, inzeppata di contumelie per l'avversario, l'aveva diffusa a centinaia di copie. E' ovvio che entro questi confini, la norma dcl- l'immunità non soffre limitazioni. Nell'interesse della causa, o come si suol dire più aulicamente, nell'interesse della verità e della giustizia, i patroni possono beccarsi a piacer loro (e1 questo capita frequentemente, con manifesto diletto dell'uditorio); altrettanto possono fare le parti (e questo capita con più frequenza, ma con non minore, spasso del pubblico); il patrono può trascendere in offese contro la controparte e magari, anche, contro il cliente, e costoro, a loro volta, possono reagire, ma tutti — parti e patroni — possono malmenare senza pericolo I testimoni. Lo ha ammesso apertamente la cassazione, la quale è anche d'accordo nel ritenere che, per essere coperte dall'Immunità, non è indispensabile che le offese siano ovattate fra le pieghe della trattazione, cosi da confondersi con gli argomenti che la sostanziano, e neppure è necessario che saettino nel corso di essa, con la immediatezza la continuità la conseguenzialità con cui sprizzano le faville sotto 11 ricadere del maglio. La donna nuda Anche le interiezioni, le imprecazioni, le invettive, le apostrofi che fioriscono^stempiranee.mjente o meditatamente ai margini della discussione godono dell'immunità. « Svergognato! » gridò l'attore al convenuto che eccepiva senza fon damento l'Incompetenza del giù dice, e la cassazione dichiarò che l'offesa era impunibile. A Napoli, durante la raccolta delle prove testimoniali nel corso di un giudizio civile, un tale gridò all'avversarlo, che aveva cercato inutilmente di mettere fuori strada il testi monio, una ingiuria popolaresca, atroce: «ric.! » e, come per rafforzarne la portata con le inaudite risorse offerte dal folclore dei bassifondi, accompagnò l'espressione con una mimica vivace: un gestire largo e nervoso delle due braccia intrecciate in una significazione sconcia ed inequivocabile. L'episodio ebbe la sua eco in cassazione, ma la corte non colpi coll'anatema nè la parola nè il gesto, che « dall'immunità giudiziaria sono escluse le ingiurie reali, ma non quando consistano in semplici gesti compenetrantisi in altre ingiurie verbali». Un freno, tuttavia, esiste anche per le ingiurie che germinano nelle oasi consacrate dall'immunità. Ed il limite è dato dalla patente malafede, dal manifesto intento diffamatorio, senza rigusrdo alla qualità od alla condizione dell'offensore: patrono, parte o teste che sia. Non è coperto dal'immunità, ha detto la cassazione colui che « dinanzi al magistrato esca in uno sfogo di vendetta volgare approfittando della discussione della causa per denigrare l'onorabilità dell'avversario ». Parimenti, si rende colpevole di ingiuria colui che « deponendo in giudizio come testimonio, senza essere astretto dalle domande del presidente, spontaneamente emetta dichiarazioni offensive, affermando a carico di taluno fatti ingiuriosi estranei alla causa ». Lo scopo, infine, di tutelare le ragioni del cliente, non può essere opposto dal patrono per scagionarsi dall'imputazione di diffamazione, quando egli, come nella fattispecie esaminata dalla corte suprema, « abbia pubblicato in vari giornali politici un comunicato inteso a far sapere d'aver sporto istanza per la dichiarazione di fallimento di un terzo ». In Francia, 10 zelo del patrono per sorreggere le claudicanti ragioni del proprio cliente è culminato in ben altro episodio. L'avv. Barboux, ancien bdtonnier di Parigi, difendeva certo Degast in una vertenza civile che questi aveva con la propria sorella. Venuto il giorno della discussione della causa, l'avvocato Barboux fece girare per la sala d'udienza, in modo da farla arrivare ai giudici per impressionarli sfavorevolmente sulla moralità dell'avversaria del proprio cliente, la fotografia di una donna nuda, col viso mascherato, sostenendo che in quella posa non ristava dal farsi ritrarre la Degast. Avvertita dal "proprio patrono, costei svenne. Riavutasi, volle esaminare la fotografia e risultò che si trattava della riproduzione di un quadro. Invitata ad ammettere l'ignobile trucco, l'avvocato Barboux oppose un netto rifiuto e la Degast lo trascinò dinanzi al giudici. Ma 11 tribunale della Senna facendogli credito di una buona fede che, certo, non esisteva, lo assolse! «Vile mercante di parole! » Dà noi, eccessi consimili non sono andati mai Impuniti. Anche 11 giudice, del resto, se abusi del proprio ufficio offendendo senza necessità, oralmente o per iscritto, le parti ed 1 loro patrocinatori, non si sottrae alla norma comune dell'imputabilità. Per un eccesso del genere, il pretore di Recanati comparve dinanzi ai giudici di Macerata. E non usci indenne dall'impreveduta avventura! L'episodio e, ormai, remoto, ma è sempre attuale nella giurisprudenza. Senonchè le offese che corrono fra le parti, o fra i patroni e le parti, o, più spesso, son rivolte dalle parti al patroni, non si inquadrano sempre nei confini della lite, non hanno sempre per isfondo l'aula di un tribunale, non offrono sempre quell'orchestrazione potente che contrassegnò lo scontro di Mlrabeau con il patrono della moglie («Siete stato un cattivo figlio, un cattivo sposo, un cattivo padre, un cattivo cittadino... », al che il tribuno, rosso di collera, tuonò: «Vile mercante di parole!»); non hanno nemmeno, in ogni caso, per sanzione la celebre risposta con cui il Favre spuntò le offese dell'avversario: «Le ingiurie seguono la legge di gravità: non nanno peso se non per l'altezza da cui cadono! ». La parcella in vetrina E' fuor di dubbio l'intemperanza dei patroni (e se ne preoccupava già il Consiglio dei Dieci, allorché « per frenare la scandalosa dicacità di alcuni Avvocati e Sollecitadorl che nel trattare le ragioni dei loro clienti trapassano i limiti della moderatione e della civiltà, invehendo con parole mordaci e satiriche contro gli Avversari... », era costretto ad ordinare ai giudici di toglier loro la pa- l'intemperanza e l'ingratitudine dei clienti, si che lo statuto di Cremona, per reprimere le offese ai patroni, parificava costoro ai giudici, e puniva l'ingiuria recata loro con il quadruplo della pena comunemente prevista. Ma dai Calabroni di Aristofane ai Plaideurs di Racine, dall'antica lode a S. Ivone: advocatus sed non la tro, res miranda popuìo, al Tra ctatus de nequitia advocatorum, che sembra fondarsi su quel cin quecentesco Tractatus cautelarum omnium in cui un giurista patavino indica i ripieghi prò advocatis ad protrahendum causxts ad longum'e prò notaris ad implendam sibi bursam, giù giù, sino a taluni saggi dei giorni nostri, esiste una diffusa letteratura antiavvocatesca, ed è agli spunti più vieti offerti da questa letteratura sostanzialmente ingiusta e di dubbio gusto che il cliente sembra rifarsi nei suoi attacchi contro il patrono. La casistica delle circostanze in cui si scatenano questi attacchi è quanto mai pittoresca. Se capita difficilmente che il cliente trascenda contro il patrono durante il corso della lite, non altrettanto può dirsi quando giunge l'ora della parcella. Un momento difficile, una situazione scabrosa! Lo sapevano anche i romani 1 quali, per togliere di mezzo patemi ed abusi, finirono, colla legge Cincia, per proibire ai patroni di farsi pagare dalla clientela. Su questo tema, il caso più bizzarro è ancora quello che occupò la cassazione sullo scorcio del secolo. Un mereiaio aveva trovato salata la parcella dell'avvocato e, invece di pagarla, l'aveva esposta nella vetrina del proprio negozio. Il fatto sollevò gran chiasso e l'avvocato si que relò per diffamazione. Senonchè il mereiaio non aveva aggiunto scritte o commenti in margine al documento e questo rendeva per plessi intorno alla sussistenza del reato. Ma la cassazione superò queste perplessità: la diffamazio ne era implicita e l'offesa alla reputazione dell'evvocato sussisteva nella semplice e cruda esposizione del documento. In tempi molto più vicini, tale Pupillo di Napoli espresse tutta l'amarezza che gli cagionava il pagamento della paicella, scrivendo sulla busta che conteneva il vaglia diretto al pa trono: « Al celebre ed illibato ed onesto avvocato... ». Ironia, nul l'altro: ma la cassazione giudicò che il fatto era manifestamente ingiurioso per il patrono ed il beffardo cliente fu condannato. La stessa sorte toccò ad un tale che, nell'apprendere dal patrono l'impossibilità di ottenere la sospensione di certi atti esecutivi usci in queste parole: « Non è onesto fare cosi, dopo avere sostenuto tante spese », mentre nel caso del sig. B. Gregoletto, condannato dal pretore di Venezia per avere scritto al proprio avvocato una lettera in cui ne censurava il comportamento professionale e concludeva dicendo: «Voi non avete saputo, o per essere più esatto, non avete voluto difendermi », la cassazione è intervenuta, ed, in segnando che il « cliente può in dubbiamente esprimere le sue convinzioni sul comportamento professionale dell'avvocato, criticarne 1 pret»si errori e le asserite omissioni, purché la critica non degeneri, per la forma, in offese al decoro del professionista », ha mandato ad altro giudice di indagare se la forma usata dall'imputato fosse stata ingiuriosa, « tenuto conto, particolarmente, della sua intenzione ». Un'idea fissa U. Indagine, codesta, che non è sempre agevole, ma che 11 più delle volte è superflua. E del tutto superflua si rivelò nel caso del cliente che scrisse all'avvocato dandogli del « fa-ifnione » e, an-Gggtucòra, jiel caso di quell'altro che ai patrono diede del « ciabattino ».L'episodio si verificò a Cuoifjnè. i a Giunto sul mezzogiorno all'albergo dell'Aquila, reduce dallo studio di un avvocato del luogo, l'agricoltore Maurizio Roncagliene dichiarò, in piena sala, a voce alta, che l'avvocato in questione era un « ciabattino » e « solo un avvocato da ciabattini ». Per questo sproloquio, col quale egli si illudeva di avere divertito oste ed avventori, l'agricoltore fu trascinato in pretura e condannato. Ma non si arrese, e ricorse in appello. Il tribunale di Ivrea, che riesaminò l'episodio, escluse molte- saviamente che l'espressione «avvocato da ciabattini » fosse lesiva dell'onore, che « l'elevatezza professionale e la valentia dell'avvocato non dipendono dal mestiere che esercitano 1 suoi clienti e l'essere avvocato del ciabattini è tanto onorifico quanto l'essere difensore dei più ricchi industriali e latifondisti», ma con pari saviezza giudicò che costituisce offesa al decoro di un avvocato il dargli del ciabattino: « Usando tale termine, l'imputato svalutò l'intelligenza professionale dell'avvocato, ne gandogli la capacità di esercitare degnamente la professione... ». E questa volta il Roncagliene si ras segnò; piegò il capo, rinunciando ad importunare la corte suprema, Anche in cassa zione, inveep Viatesi insistito colle sue capziose ditenstve il farmacista Giuseppe Mantegna, di Giugliano in Campania, il quale era stato con dannato, in primo e secondo giudizio, per diffamazione in danno del medico de,l luogo. Ira medicorum pèssuma, dicevano gli antichi. Ma la giurisprudenza più recente sembra segnalare come pèssuma l'ira dei farmacisti, soprattutto nei confronti di quei loro stretti parenti che sono generalmente considerati i medici. Già la corte di Catania aveva sentenziato che risponde di diffamazione il « farmacista che nello spedire la ricetta prescritta da un medico, e sia pure sotto il pretesto di esprimere un parere scientifico e tecnico, affermi che la prescrizione stessa più che alla guarigione conduca alla morte e che il medico prolunghi la guarigione degli ammalati », ed ecco ora il verbo della corte suprema, secondo cui « l'esecuzione di un diritto o l'adempimento di un dovere autorizzano a compiere quello in cui si estrinseca tale esecuzione o tale adempimento, ma non a consumare un reato ». Nella farmacia del Montegna si era presentata una donna esibendo una ricetta del medico che prescriveva 20 ctg. di calomelano. « Per chi è? » aveva chiesto il farmacista. E poiché la donna aveva spiegato che la medicina doveva servire per un suo piccolo di due anni, 11 farmacista scoppiò in una risata. « Se il bimbo prende que sta medicina, scoppia! » soggiun se. E rifiutò di spedire la ricetta. Non era la prima volta che si comportava in tal modo. Qualche giorno avanti, nello spedire una ricetta dello stesso sanitario, ave va esclamato: «Questo medico non capisce nulla. Che razza di medico. Sarebbe meglio che facesse il ciabattino! ». Un'idea fissa quella del ciabattino, anche per i farmacisti, non solo per i clienti degli avvocati! E poiché fra il medico ed il farmacista, i pazienti optarono per il primo, rivelandogli il comportamento denigratorio dell'altro, il Mantegna non sfuggi alla sua sorte. Si era voluto dare l'aria del salvatore e fu bollato come diffamatore! Francesco Argenta 1cqoaocdncdszrsncprettl

Persone citate: Favre, Giuseppe Mantegna, Gregoletto, Mantegna, Racine