Quella storia delle sige ì di Giovanni Artieri

Quella storia delle sige ì Quella storia delle sige ì Una volta (e non passati sol-! tanto pochi mesi) noialtri non si poteva chiamarli per nome. I loro nomi non passavano nelle nostre cronache, per esteso. Essi andavano, combattevano, vincevano, rimanevano morti o_ feriti, ma non era Tizio o Caio a far tutto questo, era T. o C, una lettera maiuscola. Essi non vi ponevano mente, non se la pigliavano calda : se leggevano il giornale contenente la storia delle loro gesta e que sta appariva bene ed esattameli te esposta, senza gravi eresie . tecniche, senza enfasi ed esagerazioni, se vedevano trattato come conveniva il nemico vaio roso e vinto, _ aggiustatamente esaltato il sacrificio loro, si mostravano contenti lo stesso. Non importava se Klinger diventava K. o Marazio soltanto M. puntato. Questa storia delle sigle finirono col prenderla a scherzo, come tante altre coae — la morte e la vita comprese — pigliavano a scherzo, i piloti di guerra. Cominciarono, anzi, ad adottarla tra loro, qualche volta, chiamandosi con le lettere iniziali, sfottendosi nell'appioppare ad ognuno qualche- sinonimo ridevole ; infine a gustare, in certo senso, l'anonimato cui per ragioni inscrutabili le gazzette li avevano condannati. Un qualche senso recondito e non rivelato di misterioso compiacimento sottentrava al disappunto di codesta mascheratura. Ed era un gusto romantico di combattere dietro il velo dell'incognito un po' da carbonari, un po' da congiurati. Gusto italiano prò veniente da profondità secolari e coloriva di segreta poesia, cioè mistero, le loro persone e personalità, ed essi l'accettavano contenti. Ne avevano già qualche esperienza da un tempo che fu loro carissimo, quello della guerra spagnola. Anche allora si andava a combattere ammantati di non so quale ferraiolo ' quarantottesco. Nomi fittizi, carte fittizie; allora ci si divertiva a chiamar Mario Massai col nome del maresciallo napoleonico Massena, e gli altri_ a capriccio, ingenerando equivoci da riderci sopra, ma che avevano per i piloti anche un altro valore e lo direi metafi sico, quello di ingannare non soltanto i commissari neutri del Non Intervento, sebbene anche la Morte che (ognuno lo sa) rico pia attentamente — la pedante ! gli atti di nascita, senza sbagliare di una vocale e al momento buono ricerca i nomi nel suo libro. (Spesso la Morte « andata su per un cielo di bai taglia a prendersi il tal sottotenente, il talaltro capitano, e ha chiamato con la sua voce gelida: <i Sottotenente Rampini, capita no Zucchi, siete pronti t Venite con me». Ma questi, guardandola bene negli occhi, hanno risposto: «Rampini, Zucchi?... Vi ingannate,. Signora, cercate altrove che qui c'è il sottotenente Rampoldi e il capitano Zecchi, per servirvi». E la Morte confusa, per quella volta, ha morso la punta della matita e se ne è andata altrove). * * Adesso mi assale il sospetto di non poterli ricordare tutti, quei nomi lasciati nella tastiera della macchina da scrivere. O perchè sono molti, o perchè qualcuno a furia di pensarlo cosi, con una sola lettera, è rimasto nella mente soltanto da quella definito. Succede, è fatale._ Il tempo, la distanza, la pigrizia della mente cancellano i ricordi. E' increscioso. Mi viene voglia di ricorrere agli avvisi economici ; per esempio : < Cercasi scopo identificazione tenente G., basso, biondo, occhi cilestri, incontrato al campo T. 2, Africa Settentrionale dal luglio al dicembre». Aspetterei, si capisce, e mi verrebbero moltissime risposte, ma G., come si chiamava G.f, è difficile rintracciarlo. Dove sarà mai? E' bene quello che combattette il 29 novembre, nella battaglia aerea di Bir Emba e colpito precipitò a muso sotto dai 3000 ai cento metri d'un solo tratto e pure la fece franca atterrando e venendosene quatto quatto a piedi sino alle linee attraverso 60 chilometri di deserto, col paracadute addosso. Ma come si chiamava- G.? Come si chiamava T. ? quel T. imbarcatosi con me a Bengasi, nell'ultima licenza e aveva con se la moglie e i due figlioletti? Ci rive demmo sul campo, pioveva. Il campo e.a una vasta pozza di fanghiglia maculata di acque stagnanti. Il cielo del Mediterraneo carico di procella, le raffiche intense e sferzanti. Ci incontrammo nell'atrio della « Tappa volo». «Come va, come stai?» ed ero per continuare: «mio caro T. ma mi trattenni. Come si fa a chiamare un amico semplicemente T.? «Vado in licenza di convalescenza, sai; porto a casa mia moglie e i due bambini. Sono tuttavia un po' acciaccato, ma è nulla. La palla, è stata estratta. Ho letto il tuo articolo su La Stampa, ti ringrazio». Io ero lì a guardarlo sperando di interpretare, infine, il chiuso mistero di quel T. Ma come dirgli : « Dì, ho ' dimenticato il tuo nome, come ti chiami?». Perchè se lui m'era distante, confuso in un recente •. passato, non io lo ero da lui. Che l'avevo visto ferito al suo campo, gli avevo parlato mentre ancora giaceva sulla barella, la coscia sanguinante, gli avevo accesa la sigaretta. (Fuori della tenda infermeria, nel vento ammulinato e gelido si udivano arrivare gli altri «cacciatori» ad uno ad uno ed io per lui, col nome e cognogli dicevo i numeri degli aero. plani, egli poteva così tradurli ' in nomi di piloti e contare i compagni che andavano atterrando). Bicordi memorabili, credetemi.icAllesso eglierà:T., solamente T., ;d< io guardando dal finestrino ine. Incredibile situazione. Viaggiammo il Mediterraneo, e tratto a tratto lui mi sorrideva, io pure. Ci scambiammo> un monte di attenzioni e cortesie (il caffè del thermos, i biscottini, un'arancia). A Catania discese, ci salutammo. Andava a Taormina, a riposare. Io a Milano. «Sarò alla :squadra tra venti giorni, scrivimi», mi disse. Scrivimi? Come scrivere al tenente T,t L'estate mandava allora vasti profumi sulla costa d'Africa. A sera la piazzetta di.Derno, ai empiva di piloti. Venivano dal campo, in calzoncini corti, sandali, intrisi di sole e di polvere rossa. Salivano all'albergo, si nettavano, si tiravano a lucido per le poche óre di riposo. Erano i tempi in cui i bombardieri sperimentavano i diversi tipi e stili di combattimento, le nuove tattiche suggerite dal clima, dal nemico, dalle sabbie e dai venti, dai calori in cui venivano a trovarsi le macchine, e tutto era ancora mal noto o ignoto. Si parlava delle «serie», allora. La «serie» era l'esame d'ogni giorno e l'idea fissa. «La tua l'ho vista. E' andata un po' fuori» « Macché, fuori, ho. qui le foto grafie...». «Ho centrato, almeno tre le ho messe bene...». Discussioni. La «serie» dell'uno s'era confusa con la «serie» dell'altro? Il colonnello avrebbe finito col dare il verdetto defini tivo. Ma non cessavano i dubbi, non le rivendicazioni: le bombe purtroppo non portano i nomi di chi le lancia. Questi nomi sarebbero stati anche per il nemico delle sigle? Le sigle di Fiorettidi Gioletta, di Mayer, di Borletti, di Frua de Angeli, i due milionari, di Sondalini, di Vi coli. Vicoli, ah, eccolo, il sotto tenente V., ricordate? Quello della terribile storia, venuto fuori non si sa come dalla morte che gli stette sul collo per venti mi nuti, sotto forma di tre aeroplani da caccia. Tornò, Vicoli, i mezzanote, con cinque ore di ri tardo. A cena ci dissero che Vicoli non sarebbe venuto. Era morto, o meglio, non rientrato, eufemismo d'aviazione da cui non c'è gran che di buono da attendersi. Era già pronta la sua roba nella valigia, per la spedi zione alla famiglia, il colonnello aveva scritta la motivazione « alla memoria» e Vicoli, a mezza; notte, eccotelo di ritorno. « Mi hanno ammaccato, ma ce l'ho fatta. Motori, carrello, tutto fuori uso. Due morti a bordo». Mangiava, adesso, in mezzo ai compagni, e raccontava tra un boccone e l'altro. Di M., il tenente M., quello che cadde nel deserto in mezzo alle sabbie, con le gambe fracassate e vi restò due notti e due giorni perduto, mezzo morto di fame, di sete, di febbre, eccolo il nome: Martissa. Attese senza speranza la salvezza e poi capii di dover morire assorbito dal de-1 serto, come una goccia di pioggia. Anche quell'avventura terribile raccontammo a suo tempo, ed il protagonista si chiamava Enzo Martissa, da Monfalcone. La sua faccia emaciata e dolce ci sorrise dal fondò di un letto all'ospedale, di Marina, presso Tobruk. «Dopo che ebbi visto cadere il primo, tirai su per disimpegnarmi dal secondo, ma già mi aveva colpito. Il riduttore dell'elica, il tubo dell'olio, il serbatoio, tutto -scassato. Non avevo sentito il colpo alle gambe. Caddi ; il resto della giornata passai a seguire l'ombra dell'ala, per non morire d'insolazione : la notte soffersi il gelo, ravvolto nella seta del paracadute ; il giorno appresso scrissi un delirante diario, ora per ora, aspettando di morire. La luce e i miraggi mi ossessionavano. Leggevo il numero del mio apparecchio e. pensavo che qualcosa di lui sarebbe rimasto : le strutture, le tele, il ferrame del motore e delle armi. Di me, nulla. Il deserto mi avrebbe bevuto lasciando intatte le mie ossa bianche. Mi umettavo le labbra con la guazza deposta dalla notte sulle ali. L'acqua sapeva di vernice. A .'mezzogiorno si levò il ghibli, quello che- sai, il gbibli estivo. Cinquanta gradi ed io scottavo con la febbre a 40. Vedevo tutto rosso, vedevo il mio campo, i miei compagni, il mio posto alla mensa, vuoto, e dinnanzi al mio posto la bottiglia di acqua fresca, col ghiaccio. Il ghiaccio... ». Martissa scomparve, andò in Italia decorato, in licenza, si parlò a lungo di lui al gruppo di «Gamba di ferro». Anche Bottoj- si capisce, non sfuggiva alla legge della sigla. Egli era il maggiore B., ma tutti lo riconoscevano perchè di maggiori B. detti «Gamba di ferro» non ne esistono due. Era quasi lieto di questo anonimato, gli pareva più consono al suo carattere e alla sua missione. Stava in linea, mutilato d'una gamba, a combattere come il prete sta sull'altare a celebrare la messa. Dal suo volto grave e tranquillo, composto in un profilo di moneta antica, spirava non so che di umana /volontà di sacrificio, una dedizione monacale al Dio delle battaglie, al Dio dei cieli dove si arruffano le giostre degli aeroplani da caccia. Il maggiore B. non portava medaglie, neppure quella d'oro, non parlava molto, non giudicava nessuno, non pronunziava che qualche parola benevola e benefica per gli uomini, quando era condotto a parlar di essi. Neppure delle cose egli amava parlare, delle cose tangibili, voglio dire ; ma s'intratteneva sull'astrazione del combattimento, sulla teoria del duello aereo - ne discuteva come di una tesi di filosofia o di religione, teorizza va sul comportamento degli u Spitfi rei o degli «Hurricane», mssBmsdqtdnndsrmpgpltdsmcftècscslgtmdv4ncdemm con. l'istessa precisione di un to- mista medioevale, in odore di santità. Ogni mattina, quando si mettevano le eliche in moto, Botto, aiutato dal meccanico, montava sull'aeroplano, lui e la sua gamba di ferro, e se ne andava a combattere nel cielo. 'Era questa la sua preghiera del mattino. * * . Quel colonnello A., comandante di stormi oggi non è più nella palazzina dei campo cirenaico, il più noto, il più caro dei campi d'aviazione che cono scemino ; lassù sulla spianata rossa, disseminata d'ali, ove nei mesi della calura tremolava sempre l'illusorio lago di un miraggio. Il colonnello A., non è neppure altrove, se n'è andato, volando, un glorilo di ghibli gelato, lo videro partire nei nembi di sabbia. Si perdette tra le alte sciarpe candide ,del vento,, rie merse oltre le cortine furiose, nel cielo ' cristallino, levigato dal freddo. Non tornò più. Annotammo, allora : « il colonnello A. è cadutot. Era uomo duro: pie colo di statura, largo di spalle, a sciatto nel volto angoloso d'un color bruno pallido, scolpito nel sasso. Si moveva e parlava per linee diritte, spirava la forza aggressiva e misteriosa di'certe statue arcaiche. Qualcosa di immemorabile emanava da quella vita d'uomo; la sua energia conteneva alcun che dell'arcano e del 4'irremovibile d'uno strano monumento preistorico. S'era staccato da un nuraghe della Sardegna, da una pietra druidica da un rocco di colonna. Partì i giorno 16 di dicembre per Sidi el Barrani. Quel giorno era impossibile non morire. Tòcco a lui. Andò, scortato dai cacciatori, sulla Settima Divisione bis « Ussari della Regina » ; una marea di autoblinde. Egli non attese che i nostri impegnassero i cacciatori avversari. Si buttò con i suoi, come un masso sul brulicare nemico. Seminò di ferro e di morte quel pezzo di deserto. Da basso sparavano disperatamente e, adesso, anche da sopra, i caccia nemici. Quante volte egli s'era trovato in queste condizioni ! Udiva le mitragliatrici del suo apparecchio sparare fitto. Poi niente più: l'armiere era caduto. Si tolse dal posto di pilotaggio, cedette il comando a Grandjaquet, il suo secondo. Trovò il ragazzo morto : prese l'arma e la diresse ; ma dall'opposto lato un altro inglese, ecco, lo fulminava. Il suo gregario di destra vide a traverso la cabina cadere riversò, a faccia in alto, quel corpo atticciato e muscoloso. Vide il volto aguzzo, tagliato a gran colpi di ascia, volgersi al cielo e tutt'iutera la macchina avvampare nell'aria. Così morì il colonnello A. Mario Aramu, — secondo quanto me ne raccontarono. * * Ho sempre immaginato dacché bazzico gli aviatori di serbare i loro-ritratti e le loro storie, annotare le loro indoli diverse e le loro stranezze, in un diario o in un libro o T)ur* in..un museo impossibile che chiamerò Galleria dei Piloti. Ma la memoria' non può tener dietro a'questo mondo nascente degli «.uomini d'Aria », altrettanto difficile e semplice che si trattasse d'una umanità d'altri pianeti. E' gente curiosa: sogna stràni sogni come quello del bombardiere che per non sbagliare attaccherebbe la bomba ad un filo sottile e lungo lungo per calarlo sul bersaglio come una lenza d'acciaio-e mollarlo d'un ct<'> po, poi, sicuro. Sogna il sogno del cacciatore che-i quello di non dover più manovrare un apparecchio, ma scomparso anche -questo, im stesso giostrare' in aria come un uccello di rapina ; 60gna il sogno del ricognitore eh è'queljo di poter fermarsi a guardare, in alto in alto, su d'un'invisibile piattaforma di cristallo, ooea fa il nemico. Inscrutabili viaggi compiono i piloti quando dor mono e quando volano. Perciò, divenuti terrestri, noi li vediamo così calmi e candidi come i bambini, affacciarsi eul nostro mondo solido, positivo, che essi ignorano. E quasi, discesi dal cielo, hanno l'aria di chiedere intorno: « Ma, scusate, dove mi trovo? ». Giovanni Artieri