Le dimenticate

Le dimenticate Le dimenticate Di Mario Peserico, medico dirigente un Manicomio, conoscevamo un libro di massime dove c'era di tutto, cominciando dall'intelligenza: di tutto, eccetto la carità. E la ferocia di quegli aforismi era stata riconosciuta, insieme al loro pregio, da lettori e critici, con un'unanimità di consensi veramente rara per un esordiente. Con essi il Peserico, di un balzo, s'era posto a fianco di Corrado Tumulti, in primissima filai fra quegli allenisti scrittori ohe in Europa — e 11 fatto è singolare — oggi sono cosi frequenti e valenti. Or ecco, dello stesso autore, un fasclcoletto di liriche accolto invece in silenzio. Vale forse il nuovo saggio meno del precedente? No, certo. Anzi vi troverete, calda, copiosa, persuasiva, anche quella carità cristiana che mancava a Caccia in riserva. E' con estremo spirito d'umanità che il dottore vicentino si volge alle < dimenticate », cioè alle povere pazze che ha in cura; con una piena, profonda, rattristata commozione che non ci saremmo aspettata, diciamolo pure, da un sanitario di professione: se pure Leone Tolstoi, sia mai riuscito a gabellarci, fra l'altre, molte sue grossolanità, quella del cinismo dei medici, a cui l'abitudine dei mali dovrebbe fare un cuore da assedino. Della presente pubblicazione, so il molto bene che ne. hanno detto, fra gli altri, lettori quali Ada Negri e Baldini. Ma perchè non l'hanno scritto? L'opera lo merita. Ha pagine impressionanti. Ne ha qualcuna indimenticabile. Ma forse il libro è cerpitato male, con la sua esile voce dolente nel rombo di tanta guerra, oppure è toccata al dottore di Noventa la sorte di tutti i « rivelati » da un libro, di cui s'ha paura di parlare al libro seguente, quasi non possa più toccare il bersaglio che ha fatto centro la prima volta ? Sono versi liberi, quelli delle Dimenticate, dove appena l'endecasillabo tende a ritornare, ma senz'impegno; e che spesso si distendono in prosa interrotta, con assai poca cura di prendere accento o respiro dove regola comanda. Ebbene: io che pure, anche in arte, sto per tutte le discipline, non mi sento, percorrendo queste anarchiche cento pagine, offeso un solo momento. Certe fratture intempestive fra cadenza e cadenza, certe dissonanze, captate o volute, persino certe opacità o torbidezze interrompenti l'onda fluida del canto mi sembrano adeguarsi drammaticamente alla materia per un vero soccorso di ispirazione. Notate che il Peserico, quando vuole, ha il verso integro, perfetto (la piccola Adriana ride, indifferente, « con occhi spenti, abbandonati e strani»). Soltanto, la sua prosodia risente, vuol risentire di proposito certi sussulti che il tra- flco tema le comunica; e cosi a pur essa i suoi momenti fuggevoli: che l'arte non ne ammetterebbe di più lunghi — d'allucinazione, d'abbandono, d'invasatura: tocchi non disturbanti, e anzi commoventissimi, nel quadro, oltre i quali lo scrittore ritrova il suo preciso ordine, la sua doverosa lucidità. C'è indubbiamente un occhio artistico, nel medico letterato: e ci si domanda sino a che punto esso coincida con l'occhio clinico. Certo la esperienza, la pratica dell'alienista, sono presenti. Ma l'intensità, e direi la verginità dell'emozione con cui la nozione è palesata liricamente, lascia pensare che nel Peserico vivano due esseri distinti — l'operatore e l'osservatore, l'essere impassibile e l'essere suscettibile per eccellenza — come quelli che un altro medico Soeta, il Raiberti, avvertiva i se medesimo cent'anni fa. E quando sentiamo, nelle commosse pagine, la precisazione dello scienziato, questa è ancora poesia. Forse il poeta, con tutta la sua intuizione, non riuscirebbe a spiegarci cosi bene l'« influsso del tempo » sulle malate come si legge a pagina 66: quando le epilettiche diventano striscianti, appiccicose al pari di mosche cavalline, e le isteriche, torbide e sguaiate, si mettono a gareggiare in cattivèrie: ...certo le stelle nell'eterno ondare del tempo e nel mutar delle stagioni guidano l'onda di questo variare continuo degli umori che tortura le mie povere pa*ze: e che lo rende schiave a una vita ignota con brutale ed Insieme divina legge sicura... r a a dove l'ultimo verso, sbagliato forse apposta, si esprime a guisa d'un rantolo dopo una cadenzata serie di singhiozzi. Anche la scena delle «bambole in reparto » presuppone una conoscenza, oltre che una pietà, approfondita per le infelici, a cui può'essere regalata'! una pupattola in premio di' buona condotta! E c'è chi la accetta, stringendosela al cuore, dopo un diniego < ostinato ed insincero », e appartandosi a cullarla; c'è chi, privata del dono e colpita « come da una ignota sciagura », si vendica irridendo, ma penosamente, le favorite. Soltanto un medico, anzi un medico specialista, potrebbe sorprendere la « Imperatrice » mentre commenta ironica se stessa — eia succede, qualche volta, agli alienati — sospettando però subito, torvamente, che altri si sia reso conto di quella sua incertezza, e disponendosi, più imperatoria che mai, a passare in rivista le poche sonnecchiose che l'ascoltano, concedendo loro «un leggero sorriso di parata »! E anche il quadro della «Fame» è una ipotiposi che presuppone una lunga, una valida esperienza Srofessionale. Nelle insensate matto anche l'appetito ora assente ora selvaggio: e c'è chi vuol far vedere che « gioca anche mangiando » i chi si butta allo sfogo bestiale — « nero », dice il poeta — dell'Istinto primitivo; chi ride, stupidamente del peso caldo dello stomaco soddisfatto: sino a che tutte si accasciano agli angoli come sacchi riempiti; e sopravvengono le buone suore, leggere ridenti, con le pure mani e la candida veste che non toccano «il rifiuto che resta e si disperde ». Fotografie, tutte, oltre che quadri: ma sono dell'artista la scelta, il tocco, il timbro, l'inquadratura, l'apporto luministico, la stimma atmosferica. Ed ecco l'afa di una notte d'agosto; il peso d'una piova absnrirveMNnngtapbtzCfpcpptpplrhr.vlelidrp '! ' autunnale — quella pioggia che « gonfia ed invecchia » le mentecatte, non più viventi che al sole come l'erbe e le bestie; — e l'allegria fittizia d'un mattino pasquale; e il risveglio dopo una notte di luna con l'usignuolo sul faggio: risveglio che romperà alle dissennate sognanti, l'illusione « d'una vita diversa, sussurrata — come una vecchia favola al bambini — da bianche nonne dolcemente stanche ». Ecco l'odore del di di festa, entro cui le folli sembrano camminare alleviate, studiandosi « d'essere diverse »; ed ecco invece una tristezza nuova, sconosciuta: quella di traslocare dal Manicomio, mentre la corriera pronta non può dare loro che il senso « d'una morte vicina e anticipata ». Oppure è il «Mattutino in chiesa ». Sembrava loro cosa di grande importanza, il mettersi la veletta in capo per ascoltare le litanie: e infatti sono sempre le prime, le deliranti, a risponderle al sacerdote; ma che tristezza, subito, all'uscita dal tempio, mentre risorge il solito giorno « chiaro ed inumano »! Oppure è la « Gita di primavera ». Si adornano, è vero, e si attillano, anche le più forsennate, per un segreto istinto di piacere. Ma se poi la gente per via dovesse riconoscerle? E cosi tutta la gioia della gita va perduta. Perchè bisognerà stare unite; e darsi un contegno; e trattenere le più svagate, che potrebbero dare nell'occhio... Ma allora l'odio risale; e cova negli sguardi: come quando vengono delle signore in visita, fingendo la carità, oppure esagerandola con gesti teatrali. Credete forse che le pazze non se ne accorgano? Non c' è donna demente che non intenda, subito, una donna menzognera. Per cui, non appena sentono fatua o bugiarda quella compassione, le tapine ne danno subito segno, al medico, per mezzo di complici ammicchi con cui sembrano invitarlo all'indulgenza, sogguardando intanto Te intruse « con dolorante disprezzo ». Altrettanto rivelatore, e bellissimo, è il «Giorno di Carnevale » : le matte camuffate coi più strani vestiti, coi più grassi colori; però tutte comprese del permesso, che per loro è quasi obbligo, di far baldoria, cioè di fingere una pazzia occasionale, che potrebbe far credere all' inesistenza di quella costituzionale: sorta di vertigine a cui partecipano — ed è il segno più drammatico del quadro — le stesse monache assistenti, recluse diverse da quelle che hanno in custodia, e tuttavia recluse come loro: ... e se qualcuna s'apparta e s'allontana volgendo il capo cori mesto sorriso, la richiamano tutte, schiamazzando e fondendosi insieme: le malate, le Infermiere e le suore insieme avvinte in un solo vivo profondo desiderio d'esser donne che vivono - d'esser danne... Ma l'evocazione più memorabile, e per l'argomento e per l'arte, è quella della «piccola recita»: un capolavoro. Tutte buone ai loro posti, tutte docili e attente alla commedia (anzi «troppo indulgenti e remissive») come comanda la loro anima puerile; però quando appaiono in scena tre bambini con le ali d'argento sul vestitino celeste, Maria Rosa scoppia in un riso folle, irrefrenabile: e poiché tentano di portarla via, «come si svelle una pianta di gramigna», protesta, urla, s'infuria: e costretta a lasciare la sala, rovescia ancora il capo in un ultimo sguardo, ridendo atrocemente verso 1 bimbi rimasti lassù impacciati, sotto il pesò delle loro ali di veletto, e che le ricordano i suoi tre piccoli. Altre figure ricorderete del breve libro: Annina, che ad ogni ritorno di sole nei campi ritorna futile e obliosa come le farfalle a cui ' riguarda; Maria, «la malata delle bestie », fra cui s'aggira « in soliloqui calmi e dialogati»,, misteriosamente compresi dai gatti, dalle capre, dalle galline che le van dietro in una sorta di fascino; l'« Imperatrice», con le sue collane di castagne sul petto flaccido; Luciana, la vecchia idiota, che dorme russando a bocca aperta, i pugni contratti sul collo, fra i lampi temporaleschi che invece svegliano e spaventano Ile altre; l'« antica dama», -che ringraziando con « lontana Indulgenza aristocratica» il dottore, se ne congeda augurandosi d'averlo ospite al suo castello; Bice l'epilettica, che dopo gli accessi esagera la sopravvenuta ' dolcezza, in smorfiette di fragilità, sino a far avvertite le compagne della commedia che recita: e per questo le "compagne la guardano male; ma non appena, rinunciando ai lezi il vecchio volto di bestia malata accenna a rabbuiarsi, tutte si oìl lontanano, atterrite, «fingendo insolite premure»; Lucìa, che non sembra mai tanto aberrata come il giorno in cui lascia l'ospizio sembrando guarita, riavviandosi verso una vita « cHe non sospetta e che non riesce più a ricordare», intanto che.il si. lenzio delle compagne pesa come pietra, tra l'invidia e la paura, sulla partente e sul suo nuovo vestito: ridicolo e stretto, forse, come il destino che la aspetta; Adriana, infine, di cui non posso riferire l'atroce avventura, raccontata in venticinque righe magistrali. Se poi il lettore sospettasse troppo tenebrosa tale materia per essere trattata, sia pure con Ingegno, in un libro di poesia, aggiungerò che nel volume, nitidamente stampato dal Guanda modenese, uno spiraglio di luce esiste. Ed è dove si racconta, dove si dimostra come anche nelle pazze più disperate un istinto mai riesce a spegnersi: quello della maternità. L'« avvenimento in reparto », cioè la nascita di un bimbo, con la catena delle matte incorno al letto della partoriente per fare ala alla creatura « che sta sorgendo desolatamente », o la riconferma di quanto avevamo già saputo dall' episodio dé.'lo bambolr- che le povere smarrite si cullano su) petto, in segreto (« hanno un sonno materno, finalmente! ») trovando in esse una stolta e cupa, ma sicura e bastante felicità. Marco Ramperti

Persone citate: Ada Negri, Baldini, Di Mario Peserico, Ingegno, Leone Tolstoi, Maria Rosa, Noventa

Luoghi citati: Europa