Cielo rovente di Giulio Caprin

Cielo rovente Cielo rovente Se fossimo, noi poveri uomini terrestri, forme spirituali fluttuanti 6opra la crosta del Pianeta, bellissimo ci parrebbe questo cielo. Da quanto tempo è così fermo in serenità? E' d'un celeste sbiancalo che all'alba e ni tramonto trasparisce di rosa, unito, senza un segno di nuvolo. Come sono, perche non ci sono più fra cielo e terrà le nuvole? Il solleone ascende e cala in una sfera che è forse quella respirata da Dante in vetta al Purgatorio, oltre la zona delle piogge e dei venti. Ma lassù il moto della Biera produceva un vento eguale, soave. Da quanto tempo, da nessun punto dell'orizzonte, non giunge a noi alcun soffio? Immobile questo sereno rovente. Si arroventa la terra che ne è fasciata. Le notti tremendamente stellate non danno stilla di rugiada. Domani le zollo saranno ancora più aride e dure. I prati sono stoppie. I fiumi si fermano in basse pozze brunicce, i torrenti sono piste di ciottoli. Siccità. Le viti ch'erano cariche di grappoli perdono i plampani bruciati, i chicchi induriscono: ogni mattina se ne scopre qtialcuua morta di un colpo di sole. I pochi fioli d'estate, zinnie e dalie, che un giardiniere ostinato si affatica ad abbeverare fioriscono fiori già secchi conio fiori d'erbario. Asciuga i co lori l'avvampatla serenità. Questa plaga d'Italia che senza essere verdissima, ù fé lice di vegetazioni tra settentrionali e meridionali si stingo in una luce polverosa. Staccano ancora, disargentati, gli olivi, neri i cipressi. Ma i campi si chiazzano di nudità gialle, tòcchi di un giallore ammalato illividiscono le case bianche. La città, una nobile, città italiana "che non è stata ancora bombardata, si acquatta tra i suoi colli disertati dallo Grazie. Guarda anch'essa il cielo lontano, così severamente sereno, così fisso. Ronzii di aeroplani, che pur non sono nemici, ne infastidiscono il sopore inquieto. I suoi pensieri sono aridi come l'arila che respira. Quel cielo che non dà più una goccia d'acqua non è più la sfera del respiro umano : è un enorme remoto duomo di metallo. Può da un momento incrinarsi e piover bolidi in fiamma. Cielo, sole, stelle: cosmo indifferente alle sorti dell'uomo formioante sull'aiuola feroce. Ma nell'inquietudine che si larrovella l'antichissima credenza che i moti e gli aspetti del cielo operino sulla storia umana rinasce dentro il pensiero [Econfessato. Cielo: una zona di spazio'aereo nell'infinito: ma questo cielo fisso, implacabilmente sereno, incapace di generare più nuvoli e acqua, è agli occhi nostri cosa nostra, cielo nostro d'Italia, spalancato sui giorni più contrari che essa abbia vissuti da secoli. Eppure nella città non brucia che il sole per le vie tranquille. Non una casa è stata finora diroccata, non un fuggente mitragliato. Non è nemmeno sgomento riflesso per ciò che ha mortalmente sconciato le città fraterne, che la tiene in quest'ansia torpida. Ma non può guardare senza un brivido panico questo cielo così sereno, così eguale, che non ha più l'ombra di un cùmulo, la 6toria d'un cirro, che non è più il cielo amico di questa plaga d'Italia. A guardare, sotto la chiara vampa, la campagna che perde foglie mentre ha ancora da maturare i frutti, che s'indurisce, crepa, ai sfarina, un pensiero pauroso balena.'Che con questa fasemortifera nell'avventura degli uomini coincida una fase mortale nell'avventura del Cosmo. Che questa plaga di cielo non obbedisca più alla legge della condensazione e della precipitazione del vapore. Che a poco a poco questa terra, più bella che ferace ma soavemente bella, perda le sue vegetazioni, si tramuti insensibilmente in una di quelle terre predesertiche dove le zolle sempre più arse non danno che incerti raccolti e si deuudano di città, di uomini, di civiltà. Nella storia che gli uomini si raccontano come 'se l'avessero fatta tutta loro, con i loro motivi, non oi sonò stati momenti nei quali la natura — la fiera natura contro cui il disperato Leopardi chiamava tutti gli uomini a confederarsi — ha essa imposto la sua invincibile ragione? Proprio questa città italiana, una delle più nobili nella bellezza e nell'intelligenza del mondo, per tre secoli, tra la fine dell'età romana e lo avvento di Carlomagno, fu muta nella storia: le acque dilaganti sopra un terreno che misteriosamente cedeva, la disfecero di case, la svo¬ tapunttcvssmocsOm"nnzdivsncacfpddtdsQcs tarono di abitanti, giacque per tre secoli sommersa in una conca impaludata. Nascemmo, noi anziani, se non con l'illusione che la natura fosse buona, con la certezza che la vita storica era capace di un ordine, che avevamo toccato un equilibrio, sempre oscillante, non più distruggibile. Giovani vivemmo e operammo con cento opinioni, tutte tacitamente concordi in un cardinale presupposto di sicurezza civile. Ognuno poteva sperare di morire nel proprio letto. Nel"ordine storico e geologico nel quale ci sentivamo uomi ni, la libertà; l'indipenden zn, l'unità di questa parte di mondo che è nostra, l'Itala, erano parti necessarie, inviolabili, di un ordine uni versale. E fissavamo di no stro cielo, oggi chiaro domani nuvoloso, senz'angoscia: cielo familiare, consenziente anch'esso alle nostre certezze cardinali. Che cosa è oggi schiantato fra cielo e terra? Che cosa, per la colpa di aver abbandonato per vent'anni il cardine della libertà, si schianterà ancora in questa aiuola della nostra vita e della nostra morte che è l'Italia? Quasi non si osa più pronunciare la parola: immortale. OH-tc le stesse colpe che ci hanno apparecchiato queste sventure, ci tiene sospesi la idea di un destino senza scampo. Il rigore di un de stino cosmico. Ciechi strtt menli ne sono forse i nemici che dal culo diroccano e ardono le nostre città. Pare ;vent ' un muto flagello anche il cielo rovente nella sua spietata serenità. Si muova la 6ua arida fermezza, riappaiano i nuvoli, si sciolgano nel beneficio della pioggia, ritempri la terra secca e i nostri secchi pensieri. L'ordine di una natura più umana si ricomponga. Può, deve ricomporsi, Nt'la siccità che ha strinato l'erbe e spaccato lo zolle, che minaccia l'avvento del deserto, sorprende la forza segreta di questa nostra terra. Rivedo un bosco di querci che mi è caro: è come inasprito, spinoso nel sottobosco, ma le foglie di un verde appena bruno reggono sui loro rami, non cadono le ghiande, le piante resistono. Ho visto in un paese del settentrione, durante una breve siccità che pareva tremenda a uomini usi al fresco umidore, le querci arrugginirsi, spogliarsi, stecchirsi Querci del Nord, più fronde se, più belle forse delle uo 6tre non duravano a poca arsura. Le nostre sì. Meglio connaturate con una terra magra, capaci di patire all'estremo e sopravvivere. Nelle querci italiche che reggono a questo cielo rovente dal quale non sperano più pioggia, leggo la forza paziente della nostra Italia contro la sorte più avversa, una sua naturale potenza di aopravvivere aspettando che si ristabilisca, fra cielo' e terra e sulla terra, il patto di vita che è stalo violato, che è so speso, che non può essere perduto per sempre. E questo cielo di bronzo, crudel mento sereno, posso fissarlo senz'angoscia nella sua ro e bellezza. Giulio Caprin

Persone citate: Carlomagno, Querci

Luoghi citati: Italia