Il gatto rosso

Il gatto rosso Il gatto rosso Compariva spesso in casa [acnostra, io non. so come, un mcerto gatto rosso e magro, che Istsi trascinava dietro una coda ;trirtalinconica e alzava su di noi due occhi pietosi. Ogni tanto spalancava quella sua bocca tutta spnizzerellata intorno di bianco e, nel suo dialetto, sembrava chiederci un pezzo di pane o un gocciolo di latte. Se trovava la nostra vecchia domestica, non supplicava invano; ma se trovava me, stava fresco. Non potevo soffrirlo, quel gattonzolo rosso come la volpe. Intanto, di gatti ne avevamo già uno, e. così bravo che si poteva accarezzarlo con ogni agio, portarlo sotto il braccio come un fagotto, tirargli la coda e giocarci insieme per ore. Se i miei avessero voluto altre bestie per casa, avrei preferito uh bel cane, alto e fiero come quello del signor Antonio. Perciò, quando quel rossaccio mi veniva tra i piedi, non mancavo mai di dargli la fuga con gridi, sibili e sassate. Ma lui tornava ancora, tornava sempre: tanto che -un bel giorno decisi di fargli la festa. Brandii un «asso cento volte più grosso della mia mano e, tenendolo sollevato all'altezza del capo, mi posi a inseg lido. Ma lui capiva benissimo che quel terribile proiettile non era punto pericoloso a 'distanza : a mala pena avrei potuto lasciarglielo piombar bene sul capo quando a lui piacesse di fermarsi. Andava quindi adagio adagio, due metri davanti a me, come un signorino che esca tranquillo a diporto. Pareva persino più vispo del solito; la coda, bisognava vedere copie se la dimenava intorno ai fianchi! Qualche volta volgeva, indietro il muso spruzzerellato di bianco e miagolava argutamente come per dirmi: «Ma bravo, ragazzo, bravo, bravo ! ». Si girò cosi intorno alla casa : lui davanti, con quell'aria più o meno tranquilla e maliziosa ; io dietro, tutto rosso di stizza, col mio sasso per aria. Poi si scese per una viuzza in cui i ciottoli, facendomi i più malvagi scherzi sotto i piedi, rendevano assai difficile l'equilibrio fra la mia agitata persona ed il peso che reggevo. Infine ci s'avviò su per la scala d'un tetro fienile. . Il micio era sempre più su di me e s'era fatto inquieto. Quando poteva, si sofferma va a guardarmi e quasi a sfi darmi con due occhi verda stri che potevano benissimo essere, cóme avevo udito di re, un poco infernali. Ma. poi entrato che fu, si trovò ai piedi d'un mucchio di fieno così alto, da ogni parte, che 6alire proprio non si poteva Al'ora, sentendosi perduto si vi." .e e mi piantò in faccia due occhi spaventosi, del tutto simili, in quella sciagurata penombra, a due pezzi di zolfo incandescente. Non la mia volontà — tut ta, smontata e disfatta da quelle arti magiche — ma il suo stesso peso e la mia fretta di uscire da quel pasticcio fecero sì che il <"•— con nrì/'t , dai ,..i^uuccai giù per la «cala, e via di corsa verso casa. Ero conscio di aver ucciso e di essere dunque un ■"oco assassino come quel Cainaccio che, nel libro di storia sacra, vedevo fuggire disperato, i capelli al vento. In guisa d'espiazione, pensai di buttarmi all'amore delle bestie, di tutte le bestie. A scuola avevano già tentato di farmi amico degli uccelli, e c'erano anche riusciti: la cincia, la cincia allegra e la cincia col ciuffo, le amavo molto senza conoscerle bene, e perciò ripetevo spesso i loro bei nomi. Pure talvolta mi dicevo : « Perchè tanto amore degli uccelli che in fin dei conti, ti frullano poi sempre via?». La mia simpatia si estese presto ben oltre questi simpatici chiacchierini, e abbracciò in un solo amplesso tutti gli abitanti della terra e del cielo. In una stelletta in fondo all'orto avevo impiantato lina specie d'infermeria per'le bestie. I migliori bocconi della mia tavola erano per quel popolo singolare: un agnello fra la vita e la morte ; un coniglio ormai boccheggiante ; tre o quattro fra le infinite lucertole che, nei miei paesi, non so se per le gran sassate dei ragazzi o per altro, sono sempre senza coda... Quando m'avviavo verso i campi con le tasche piene di sale e H cuore di gentilezza, gli uccelli mi cantavano intorno, riconoscenti e felici Io credevo che fossero le tre cincie della mia maestra, e le veaspusuteApasogocorodsmnafofimsagiscroamcigvreceatolave inlodUpvmmgrfobsttmmlvtfpamictt accarezzavo un poco in cuor mio. Dai cespugli lungo ]a strada saltavano fuori a quattro a quattro i capretti, si av- o i i e u ventavano verso di me, mi assalivano da ogni parte, mi puntavano persino le zampe sul petto e sulle spalle per potermi meglio leccare le mani. A tutto quell'esercito che mi pareva fanciullesco, io davo solo qualche pizzico di sale, godendo di vederli tutti così contenti di poco e di sentirmi rosicchiare le dita da tanti denti aguzzi. Nel prato tutte le mucche smettevano di pascere appena arrivassi. Le più grandi e forti mi s'avvicinano subito, fiere, cornute, eppure a lor modo affettuose. Insieme col sale parevano volersi trangugiare anche la. mia mano che scompariva ingoiata nelle loro fauci. Le vaccherelle meno ardite e le vitelline timorose m'invocavano dal loro cantuccio con muggiti pieni di languore. E tutte insieme facevano uno scampanio che pareva^un giorno di festa. Incoraggiato da tanto successo, volli stringere amicizia anche col cane del signor Antonio. Un cane molto singolare, a dire il vero ; che mille volte gli ero passato dinanzi, e mai non m'aveva guardato; intento in apparenza a cose lontane: il moto d'una fronda, il volo- d'una farfalla. Una mattina che. avevo tempo, mi fermai più a lungo a vagheggiarmelo, a mangiarmelo con gli occhi. Più lo rimiravo, e più sentivo il bisogno di fargli almeno una carezza . Ma lui se ne stava lì, ritto immobile, attento a tutto fuori che a me. Aveva due orecchie piccole, diritte e mobilissime ; il - corpo lungo, slanciato, e, sotto il pelame, tutto nervosamente palpitante ; una coda lunga e ritta, magnificamente arcuata, simile a un ramo di larice oscillante appena a un fiato di vento. Alla fine ìnj decisi del tut to e mi avvicinai. «Mi farà festa anche lui » pensavo. Ma poi dovetti ricredermi : s'era accorto di me, finalmente, ma non proprio come volevo io. «Forse non avrà.ancora capito le mie amorevoli intenzioni » mi dissi un. poco interdetto. Feci ancora due pas- si. gli sussurrai non so che buona parola, allungai la mano verso di lui. Allora scattò, come una belva. Uno spaventoso latrato gli uscì di fra i denti. A mala, pena riuscii a fuggire. Il cuore mi piangeva dentro, deluso. La mano, rimasta piena di vento, mi tremava tutta. 1 piedi battevano veloci l'aria: non mi sembrava vero di averli ancora tult'e due. *v Giunto nel prato, mi gettai supino in terra, all'ombra fresca dei castagni, e ben presto m'addormentai. Quando riaprii gli occhi, vi piovvero dentro, come nuovi, il cielo azzurrissimo lassù, le montagne irte di abeti fino all'estre piedi: avevo sentito, a una mano, un molle e strano solletico. Era il gatto rosso, era proprio lui. Risuscitato, o non morto mai? Rimasto bestiolina domestica, o divenuto mezzo selvatico per disdegno degli uomini?... Aveva, in ogni modo, l'aria d'aver dimenticato tutto, di non pensarci nemmeno più. Mi guardò un momento in viso, come per ri conoscermi proprio bene. Poi, come se niente fosse, riprese a leccarmi la mano che aveva voluto ucciderlo. S Giuseppe Zoppi