DIZIONARIO.

DIZIONARIO. DIZIONARIO. Claudio Monfeverdi all'ombra del Torrazzo Vino e torta [.Grecl <*Mj devano il vino in un recipiente e lo sommergevano nei mare per maturarlo, e il vino cosi maturato chiamavano thalassites in contrapposto all'òinos athàlassos, il rimivi maris expers, il « vino non maturato nel mare ». In che consisteva questa « maturazione > del vino per opera del mare? Si ritorna qui alla grande virtù del mare che è di «insaporire,». Il mare rende sàpido tutto che tocca. Il mare dà sapore e intelligenza alla terra: le dà il sale. Confronta il vino che i Greci mettevano a maturare dentro il mare con i présalés, i montoni che sulla costa normanna pascolano l'erba tozza e grassa che la marea dell'Atlantico bagna due volte il giorno; confrontalo con le vigne bagnate dalle onde del Tirreno che danno quel Moscato di Terracina cosi ulissico che in quel meriggio, o Minotti, assieme centellinammo sullo Scoglio Incantato, subito che varcato il Pisco Montano e 11 taglio « a fetta di burro » fatto da Adriano nell'ultimo dei Lepini perchè l'Aurella gassasse lunghesso il mare, .està a dire che il vino cosi sommerso nel mare era dedicato a Mercurio ptrchè era « ermetico ». Il mare porta civiltà. L'ultima parola è del marini... Era. Tra correre sempre più presto in ferrovia e In automobile e volare, tra agitarsi sempre più e mischiarsi, i caratteri naturali della vita dell'uomo si opacizzano e confondono. La geografia perde a poco a poco 1 suoi caratteri morali. Già gli uomini che vivono vicino al mare non fanno più a tempo a essere più vivi, più intelligenti, più civili degli uomini che vivono nell'interno delle terre e sui monti. Gli uomini si universalizzano e sempre più si universalizzeranno. E una evoluzione naturale, inarrestabile ed è inutile così l'esaltarla come il deplorarla. I valori morali della tradizione si sono ridotti ad argomenti letterari! e trovano degno riposo nella prosa lucente e nostalgica di scrittori come Vincenzo Cardarelli o Rodolfo de Mattei. Avete mai visto fare una torta? In principio le materie prime sono separate una dall'altra: la farina, lo zucchero, 1 tuorli d'uovo, la chiara, il burro, il lievito di birra, la pizzicatina di bicarbonato. Poi si riuniscono le varie materie prima in una unica pasta molle che si lavora lungamente. Infine si versa la pasta in una teglia nella quale si è fatto squagliare del burro per ungerne le pareti e la ai mette al forno; e quando la torta è cotta o come dire « matura », traccia più non rimane del primitivo aspetto, del primitivo sapore, del primitivo carattere di quelle materie prime. L'Europa In questo periodo è nella condizione delle materie prime che si riuniscono per comporre la pasta molle. L'analogia tra Europa e lavorazione della pasta, tra Europa e cottura della pasta è facile e lascio che 11 lettore se le faccia da sè per suo diletto. E' ovvia la conclusione che quando la torta sarà cotta a puntino, l'Europa sarà pronta a comporre unitamente con la sua grande appendice, l'Africa, un complesso geografico da poter bastare a se stessa e alla propria felicità. Perchè dimenticare il fine costante delle nostre fatiche, delle nostre sofferenze che è di essere felici? Per tornare al vino è esemplare la cura con che gli antichi toglievano tra loro e il vino 11 contatto « diretto » sia maturando il vino nel mare, sia appendendo le anfore sopra il focolare e affumicandole come prosciutti (i « fumosi Falerni »), sia mischiando al vino la rèsina del pino come fanno tuttavia i Greci. Nel che è sempre il medesimo principio di * incivilire » ciò che si beve (gli alimenti si •r inciviliscono i, mediante la ^ottura) che è il principio stesso della civiltà: togliere il contatto diretto tra noi e le cose e sostituirlo con contatti indiretti. Augusto Comte voleva incivilire anche l'amore stabilendo contatti indiretti anche tra l'uomo e la donna (vedi suoi amori con Clotilde de Vaux e sua teoria della partenogenesi). Il sapore « indiretto » del vino che viene attraverso il sapore deila re'ina, è come una pittura sotto vetro: più brillante e prezioso. Alla città natale, che nulla potè dargli, Claudio Monteverdi serbò un'affettuosa ricordanza, oltre che per la memoria di persone care e per un po' di beni ereditati, proprio per la giovinezza e l'esordio. Allontanatosene, vi tornò volentieri, la desiderò negli ultimi anni. Nulla poteva dargli Cremona, decadente anche nelle arti durante la dominazione spagnola, mentre Rinascimento e Barocco ornavano con splendida fecondità le terre governate dai principi naturali. Soltanto la Chiesa, custode di tradizioni e bisognosa di talenti che con le opere artistiche giovassero al moto della Reazione cattolica, avrebbe potuto trattenerlo e compensarlo; ma più dei soggetti religiosi lo attraevano quelli profani, e la sua fantasia, repugnante dalla severità accademica, mirava alla innovazione spregiudicata e audace nelle più moderne tendenze. Succedere, per esempio, al suo insigne maestro, Marc'Antonio Ingegneri, maestro di cappella alla Cattedrale, o stargli accanto nell'officio, sarebbe stato molto lusinghiero, onorifico, ma, per la giusta ambizione giovanile, ristretto, limitato, provinciale. Stato di cose, dunque, e inquietudine lo spingevano altrove. Ventidue anni a Cremona Visse circa ventidue anni a Cremona in buon accordo col padre Baldassarre, medico, con i fratelli, fra i quali Giulio Cesare coltivò la musica, e le sorelle. (Della mamma si ignorano i dati biografici, di quegli anni non restano documenti nè lettere, e però l'avverbio probabilmente dovrebbe ricorrere spesso). Studiò grammatica e musica nel pubblico ginnasio ■ comunale, dove i Gesuiti insegnavano ai giovanetti laici, (l'Università, cui accennò il Prunières, era anch'essa decaduta), e nel bello scrivere non acquistò destrezza, come l'epistolario dimostra ed egli stesso ammise; più tardi si coltivò fino a cercare una estetica guida nei filosofi greci che l'umanesimo aveva quasi divulgato. La manifesta inclinazione alla musica gli valse presso suo padre e presso alcuni ricchi amatori di quell'arte. Fu affidato all'Ingegneri, che, nato a Verona nel 1545, era venuto a Cremona nel '76, e già godeva buona nominanza, maestro, naturalmente, di polifonia. Questa tecnica, il contrappunto vocale, regolatamente austero nelle opere di argomento religioso, alquanto Ubero nei madrigali, e quasi spigliato nelle cantiones meno ortodosse dei mottetti, era pel musico d'allora l'oggetto degli studil superiori L'Ingegneri, artista anche nella pedagogia, avrà mostrato al giovinetto gli esempi preclari dei maggiori, e imposto disciplina e concesso poche eccezioni. Dopo qualche anno, forse tre o quattro solamente, il maestro poteva compiacersi del primo pubblico saggio di Claudio e leggere sul frontespizio il suo nome: Sacrae cantiunculae tribus vocibus Claudini Montisviridis ciemonensis egregii Ingegner'n disciptilì. il quindicenne si presentava umilmente col familiare diminutivo di Claudino e con composizioni piccolette, sacre canzoncine, la designazione propria delle poeslole e dei coretti nella pratica dei fedeli. Precedeva la dedica al « sempre reverendo signor Stefano Caninio Valcarengo », in un curioso Iatinetto, che trascrivo non ritrovandola nei volumi finora pubblicati sulle opere di Monteverdi: «"Essendo sempre sitata consuetudine elle t-oloi-o i quali desiderano pubblicare il frutto delle loro veglie cerchino di rendersi più all'eziouutu la persona da essi g-iudicutu più dotta, ho pensato che <uiella saresti per l'appunto tu, o reverendo mio Caninio. A te potevo dedicare qualcuna di queste mie sacre canzoncine, sebDeue indegne dea* tuo grandissimo nome. (Soltanto ridandomi nel tuo immelmo umore per me, e nella benevolenza dimostratami, osai dedicartele, non senza gran timore. Nota la mia giovanissima età e la reale pochezza della cosa, e non disprezzate. Tu mi proteggerai contro i malevoli e gli invidiosi, che D'accaniscono contro chi cerca usbergo in te, e studia per esser degno Col tuo solito animo lieto e la fronte serena accogli (mesto piccolo dono, qualunque es?o sia. «Cremona, primo d'agosto 1582. « Umile servo della Vostra sacra reverenza 1 Alberto Savinio ra reverenza « Claudino Monteverdi ». 1 Quelle ventlsel canzoncine, i di cui sei accoppiate in una prima e una seconda parte, son da considerare quasi componimenti scolastici, sia per la elementarità della tecnica, sia per la tenuità della espressione non sempre vicina a quella del testo. Paginette ovvie, ricalcano modestamente 1 procedimenti usati, la linearità recitativa o la flessione della cantilena, la vicenda degli accordi e della imitazione, il trapasso dal tempo pari al tempo dispari, eccetera. Confrontate con le contemporanee laudi fil.ppine, spesso tanto patetiche e vivaci, sembrano corrette e inerti. Quella sul testo del Cantico del cantici Quam pulchra es, che più tardi ispirò un sensuale mottetto monodlco, è rattrappita e frigida. I « madrigali spirituali » Negli anni cremonesi Monteverdi compose anche i Madrigali spirituali, dedicati ad Alessandro Fraganesco, di cui è superstite soltanto la parte del basso, e le Canzonette a tre voci, che nel titolo ricordano ancora l'Ingegneri. Ne patrocinò, forse sovvenzionò, la stampa a Venezia nell'84 Pietro Ambrosini, « molto magnifico signore et patron osservandissimo ». Nella dedica, firmata Claudio Monte Verde, questi ricordava che « una figura fatta di mano d'un poco saputo pittore prende riputazione dal luogo nel quale è stata riposta », e però egli offriva quelle sue prime canzonette a chi con « le qualità come anche per le infinite sue virtù » le avrebbe favorite e fatte sembrar migliori. Anche queste son pagine semplicette, e tuttavia mostrano che due anni non eran trascorsi senza perfezione della mano e migliore agilità dello spirito. Aveva scelto i testi non fra le canzonette vezzose, meliche, dai versi brevi, che col Chiabrera furono denominate anacreontiche, ma fra i madrigaletti erotici e corteggiatori che nel XVI secolo mescolarono agli endecasillabi il settenario e qualche più breve verso, e le quartine e le terzine; solo un testo, l'ultimo, potrebb'esser classificato anacreontico. Ma canzonette t sembrano nella piana armonia, nell'ariosità, vivacità, lindura e grazia, nell'esclusione dell'intrecciato contrappunto. Un alto com petente del Cinquecento, il compianto Casimirl, le giudi cò cosi: « Risentono di tutto 11 brio della gioventù; hanno ancora qualche difettuccio scolastico, ma si affermano già bravamente >. II primo libro dei madri gali, dedicato anch'esso a un mecenate cremonese, il conte Marco Verità, edito nell'87, scritto dunque a Cremona fra i dlciotto e i vent'anni, sup poniamo, differisce dai prece denti volumi, ed è già ricco nell'ispirazione che determina la tecnica. Emerge per la scioltezza e la delicatezza Ch'ami la. vita mia; per la bellezza — ecco, viene nella penna la grande parola, che vuol essere usata opportunamente — e per l'Intensità del l'espressione patetica Ah, che tarmi il ben mio; per la va ghezza melodica tenera e lan guida Baci soavi e cari; per la contemplativa freschezza Vaga pastoiella. E altri madrigali sarebbero da ricordare per la commossa eleganza, per la nuova squisitezza della stesura, che accoglie, trasforma, crea uno stile e una maniera nuova. Qualcuno dei madrigali del secondo libro, che vide la luce nel 1590, sorse negli ultimi mesi del soggiorno a Cremona. Ma non andremo oltre nell'opera vasta e magnifica in ogni campo dell'eccellente artista. Frequenti ritorni Ormai la rinchiusa vita di Cremona gli era angusta. Cercò altri mecenati, ne aveva allora bisogno qualsiasi artista, anche ottimo, altri ambienti. Si recò a Milano e fu apprezzato, fra l'altro, come violista da Giacomo Ricardi, al quale dedicò 71 secondo libro dei madrigali, e segnalato forse al Duca di Mantova; del quale accettò l'invito. Mantova, poi Venezia lo ebbero maestro sempre più illustre e acclamato nel teatro, nella camera, nella chiesa. A Cremona tornò più volte, per affidare al padre la consorte allorché dovè seguire il Duca in Ungheria, nel '95, nelle Fiandre, nel '99; per riposare della laboriosa composizione dell' Orfeo, 1607, c ricevere l'omaggio dell'Accademia degli Animosi che lo accolse socio e l'applaudi dopo l'esecuzione d'una sua scena, e anche soffrire per la morte dell'amatissima consorte, Claudia; per rifarsi del gran travaglio che fu l'Arianna, c-nd'era stremato, e si fermò dal 1608 al 1609; per cercare ospitalità, allorché il duca Francesco lo licenziò, 1612. E forse vi passò qualche giorno, poco avanti la morte, avvenuta a Venezia, il 29 novembre 1643, quando ottenne dai Procuratori di San Marco una licenza per visitare, come annotò un cronista. « città della Lombardia da lui favorite e desiose di rimirarlo». Non stupisce che Cremona l'abbia dimenticato fino al 1887, quando die' a una strada il suo nome. Nè si deve malignare. Il fioco raggio della scarsa cultura musicale in Italia sino a mezzo l'Ottocento non riusciva a illuminare nella coscienza del popolo le grandi persone dei secoli anteriori. Il moto culturale degli ultimi deccnnil va rendendo familiari gli spiriti e le forme anche del Sei, anche del Cinquecento. Il terzo centenario della morte di Monteverdi trascorre consapevole di lui. Compiuta, grazie a Gianfrancesco Malipiero, l'edizione di Tutte le opere, rievocate or è poco a Roma, a Firenze, a Siena, le sue musiche che adesso l'Eiar diffonde in parecchie udizioni, Cremona lo celebra oggi con devota riconoscenza, gli ricambia l'affetto e lo esalta nelle opere. A. Della Corte Il più grande gorilla del mondo Stoccolma, 5 giugno. (M. V.). La più grossa specie di scimmia antropomorfa conosciuta, il gorilla, che signoreggia le dense giungle dell'Africa Centrale, è l'animale che forse meno di tutti sopporta la prigionia. In genere dopo appena due o tre anni di cattività, esso deperisce e muore. Negli Stati Uniti si contano 10 gorilla prigionieri e 15 in tutto H mondo. Il giardino zoologico di Tokio ospita il più grande esemplare della specie : è un gigante che si chiama Mock, alto m. 1,90, pe.ante 325 chili e dotato di una forza spaventosa. Una volta in uno dei suoi rari, per fortuna, attacchi di collera, spezzò due grosse sbarre della gabbia, dopo averle torte come se fossero state di cera: furono in quell'occasione necessari ben dodici uomini robusti per ridurlo all'impotenza e tre di essi riportarono gravissime ferite. Mock vive In un alloggio ben riscaldato e perennemente illuminato da luce solare artificiale, ebbastanza ampio perchè egli possa ogni giorno fare un po' di moto. Gode di un cibo variato e preparato con cura, consistente In frutta ed erbaggi, uova, e d'inverno, anche carne. All'età di un anno Mock pesava 15 chili e ben 90 cinque anni dopo. LIBRERIA FILIPPO SACCHI; «I,h |,riiiiu donna». Ed. A. Mnudndoi i 1,. 91). PIETRO METASTASIO: .Tutte le oliere », voi. 1. Ed. A. Mondadori; lire I?:,. GALILEO GALILEI: « Scritti Iettai ri ». Ed. l'elice Le .Mounier; L. :io. GIUSEPPE MAZZINI: < Nolo nutnbiourallchu ». Ed. Felini Le Mounier; L. 35. LAUDE DRAMMATICHE e Rappresentazioni «acre, a cura di Vincenzo Do IlartlinluniaeK voi. :i; L. ino. ENRICO NBXCIOXI: «Le piti bello pilline ». Ed. Garzanti; L. So. u. TITTA ROSA: « l'ueue con Usure ». Ed. TumiuitielH; L. o,j, FRANCESCO FLORA: « Taverna disi Parnaso ». Ed. Tlimmlllelll; L. :|0. GIUSEPPE UIKliXDA: « 11 balconi) ». Eil. Mumladori; L. 20. MASSI.MO BONTEMPELLI: « (ioide, nel teiniMi », Eli. Mondadori- L. o;> ANTONIO BALDINI: « Diaconato IKK» Parigi-Ankara ». Ed. Mondadori; L. 20. JACOBSEN: « Lu giglioni Fcus ». Ed. Bompiani: L. 20. BENJAMIN CONSTANT; « Il Quaderno rósso ». Ed. Bompiani; L. \». JOHN .MILTON: « Santone agoni-In ». Ed. Bompiani; L. 12. AZOItIN: « Dou Giovanni ». Ed. Bompiani: L. 12. GOETHE: « Le affiniti! elettive ». Ed. Einaudi; L. 30, ITA BAKALDI: «Gli uomini tono iraportanti ». Bd. A. Mondadori- L. 20 MARIO SOLDATI: « L'umico genita ». Eil. Rizzoli; L. 20. NINO BAVARESE: « Cose ,1'Halia ». Ed. Tiiinminelll: L. 2ò. ANNA BANTI: < Le monache canta- 1 ». Ed. Tumminelli: !.. 15. . ARNALDO FRATEILI: «Libera uscita ». Ed. Bompiani; L. 12.