Quelli di Stalingrado di Alfio Russo

Quelli di Stalingrado Quelli di Stalingrado Erano morti ancor vivi e aspettavano soltanto d'essere seppelliti sotto le immense rovine della città assediata dalle orde rosse incalzanti Il noBtro Inviato ci trasmotte il raccontò d'un ufficiale romeno che, ferito, è stato trasportato in un ospedale del fronte qualche giorno prima ohe Stalingrado fosse chiusa, in un cerchio di ferro e di fuoco. 11 racconto è riferito con le necessarie adattazioni nella noBtna lingua. Dall'Ospedale di K, febbraio. Egli disse con una voce lontana e lieve che pareva un mormorio: « Si, io ero a Stalingrado, sono uno dì quelli di Stalingrado. Sono stato cinque mesi a Stalingrado, da quando l'estate era ardente e fiammeggiava più della città bruciata; poi sono stato trasportato ferito e morente in questo ospedale ». Le linee del suo volto erano stampate, incise nella cera della carne; egli aveva, mentre parlava, una lievità di gesti e di parole che parevano d'un resuscitato, d'uno che sia tornato alla vita dopo aver scoperto il segreto della morte, « Eravamo morti ancor vivi e aspettavamo soltanto d'essere seppelliti sotto te rovine sanguinose, immense, della città maledetta, sotto le rovine che erano diventate le nostre case. Quando siamo en trati a Stalingrado l'estate fiam meggiava più della città che era caduta pezzo a pezzo, muro a muro, sotto l'impeto della nostra violenza. Il trenta d'agosto io vidi per la prima volta Stalingrado avvolta in una nebbia di fumo: sparavano i cannoni, migliaia, sparavano le mitragliatrici, e gli aeroplani raschiando i tetti delle, case rovesciavano tonnellate di bombe sulle aree industriali. L'aria era piena d'urli e dell'odor della strage. Quanto tempo durò la battaglia f Un mese, un anno, cent'anni, non so dire; ma tutto che accadeva era bello, fiammeggiava l'estate, ardeva la città, i nostri cuori fiammeggiavano come l'estate e come la città. Ma poi nemmeno il freddo, la fame, la morte, spensero la fiamma dei nostri cuori. Nei giorni della conquista « Chi non è stato a Stalingrado prima e dopo, durante l'ebbrezza della conquista e durante la lunga attesa della morte, non capirà mai appunto la nostra ebbrezza che mai altra volta così prepotente e violenta è scaturita da una battaglia e da una conquista. Quei nostri contadini come sono stati belli e saggi. Ve n'era uno, neUa mia compagnia, che durante le poche ore del riposo, tre o quattro ore spesso interrotte da un allarme improvviso e puntej,'aiate dal rumore d'un combattimento assai vicino, ve n'era uno che con una comicità bonaria diceva ai. compagni: allora, il tuo tumu è per stasera, il tuo per le dieci, a tuo per mezzanotte; io verrò con voi più tardi perchè ho ancora mille cartucce, e sorrideva e scherzava, e gli altri sorridevano e scherzavano. Aveva un'immaginazione cosi ricca che era capace di raccontare per due ore di seguito favole divertenti, favole paesane, che erano piene di sottile poesia; e poi disegnava e intagliava nel legno la figura di Cristo, tante figure di Cristo per. che, diceva, ogni tomba romena doveva avere il segno della cristianità; e tutti ascoltavano le favole e tutti baciavano il crocifisso come fosse U viatico dell'ora che ctascuno sapeva assai vicina. La cosa più grande della battaglia di Stalingrado è che tutti hanno accettate il destino senza un attimo di rivolta, senza un pentimento, un desiderio di liberazione. Era scritto che dovessero morire con un sentimento di bontà e di lealtà come mai forse è avvenuto altre volte. Il comandante del mio reggimento era uno dei più valorosi soldati della Romania. Diceva: un giorno dobbiamo morire; e che importa se inoriamo a Stalingrado o hi un altro postot Qui noi vogliamo morire, e ci scaveremo ìa fossa con le nostre buone mani di contadini. Il nostro reggimento è stato uno dei più belli di tutto l'esercito; abbiamo combattuto a Odessa, a Carcov, poi siamo venuti a Stalingrado. Allora eravamo vivi, vivissimi: il colonnello non era mai stanco e noi spesso eravamo sfiniti dalla stanchezza, con la gola arsa dalla maledetta polvere della steppa, gli occhi arrossati. A settembre quando tra le erbe secche morirono gli ultimi colchici H caldo erti tuttavia opprimente sino al cader del sole, ma poi cominciavamo a tremare per il freddo. Il clima infernale ci prostrava, ci atterrava. Ma la battaglia avvampava sempre tra le nebbie e la prima neve che venne a ottobne. Noi eravamo già entrati nella città accolti dalle corone incandescenti delle esplosioni, bombe, granate, piogge di bombe scagliate dalle Katiusce, dai mortai, dai cannoni russi appostati sull'altra riva del Volga. Com'era solenne e indifjerenìe il Volga a Stalingrado. Scorreva qonfió d'acqua gialla, il filo della corrente luceva, la notte, sotto la fiamma delle esplosioni, nel riverbero degli incendi. Il Volga pareva un mare, un piccolo mare stretto tra le braccia della terra che poi s'allargava smisuratamente. La città aveva un'aria mortuaria. Quasi nessuna casa intatta, le grandi aree industriali con i palazzi degli uffici e i piani degli sta, bilimenti erano sconnesse, dirupa te; un odore atroce appestava Va ria. Qualche carcassa di tram im pedina fi cammino in certe vie, il palazzo del governo era stato sventrato dai bombardamenti, molte statue degli iddìi bolscevichi erano decapitate, diecimila, cinquantamila case bruciate mostravano una nuda tristissima miseria. Le macerie ingombravano tutte le strade, sotto le macerie giacevano a mucchi t soldati sovietici e la aenfe cittadina. Noi cercavamo, almeno per riposare i nostri occhi, qualche cosa che fosse intatta, arcavamo un rifugio, ma poi finimmo amsMzen Un distaccamento tedesco si è impadronito di uso, le cui case sono ancora in fiamme dopo il cinquanta. Le mitragliatrici erano governate da un solo uomo, come i cannoni della fanteria. I turni di guardia che erano di dodici ore su ventiquattro, diventavano di giorno in giorno più duri; verso la fine di dicembre erano diventati di sedici ore, poco dopo di diciotto e venti. Nessuno dormiva più. Ma per Natale potemmo ascoltare la messa sotto il fioccar delle bombe; non c'era l'organo delle nostre chiese, il coro delle nostre donne, ,c'era invece la Katiuscia, l'organo a sedici canne di Stalin, e il coro infernale delle mitragliatrici. Ajutamà, Dovine, Signore, aiutami, dissero i soldati; e poi dissero: Maica precista, Santa madre. E tonarono al combattimento. Che notte di Natale. Un certo momento i nemici erano cosi vicini che se ne sentiva il respiro perchè appunto un muro li divideva da noi. Eravamo spalla a spalla e ci sparavamo a bruciapelo. Le nostre facce erano annerite dal fumo degli scoppi. «/ oetierali stavano con noi, fianco a fianco; quando una sentinella cadeva sfinita dalla fatica, un generale, un colonnello, pren di il o li f} per metter le tende dentro qualche casa che non aveva quasi più muri. « La nostra vita a Stalingrado era stranissima, grottesca; avevamo conquistato una grande città che non era più niente; tutti i servizi erano paralizzati, l'enorme spazio cittadino era una immensa rovina, la fabbrica dei carri armati, la fabbrica disi trattori erano diventate mucchi d'incredibili macerie; le travi di ferro dei vasti palazzi apparivano contorte, le linee dei tram spezzate alzavano in aria i tronconi e parevano braccia mutilate d'ineffabili giganti. Questa èra Stalingrado. Che orrore. Ma noi avevamo tuttavia l'ebbrezza della conquista, una conquista elle ci era sempre contesa e che noi pagavamo giorno per giorno con una nuova fatica e con sangue sempre più abbondante. Poi venne l'Inverno fumo degli scoppi. «/ oetierali stavano con noi, fianco a fianco; quando una sentinella cadeva sfinita dalla fatica, un generale, un colonnello, pren «Poi venne il grande inverno. La città pareva finalmente in pace; la neve copriva pietosamente le sue orribili ferite, copriva le case sventrate, le mura smozzicate, copriva infine l'immensa miseria devi il suo posto. Gli altri uff}della poca gente che v'era rimasta | ciaii facevano il turno di guardia insieme a noi. Venne l'inverno con i come l'ultimo dei soldati. E tutil gelo e il vento, il vento della | tavia le cose non andavano matundra che uccide chi non abbia \le; la rabbia nemica si spezzava un ricovero, chi non sia assai co-i denti contro il nostio coraggio, perto. Possiamo raccontare tutto, contro la nostra implacabile resiora che il sacrificio è consumato, sterna. Il bombardamento era Noi sapevamo, dai generali all'ul- spaventoso, le granate scoppiavatimo soldato, che saremmo rima- no in mezzo ai nostri ricoveri e sii a Stalingrado anche se i russi andavano m aria, esplodendo, fossero venuti a milioni contro la ^pietre e rottami che poi ci cadecittà, sapevamo che per noi non vano addosso, ci pestavano durac'era scampo che nella morte. A [mente. Noi purtroppo non potevanovembre stavamo ancora bene;,mo più sparare a volontà, aspetc'eravamo sistemati nei ricoveri, iltavamo ai veder la faccia dei necombattimenti erano rapidi, brevi,, mici per tirare, perchè le municonvulsi, sempre chiusi con nostro\zioni diventavano rare. Un giorno vantaggio, le comunicazioni con il I che eoa chiaro, non c'era nebbia e fronte di combattimento, a destra]?™ nevicava, et guardammo m e a sinistra, funzionavano ordina- faccia, quelli che eravamo rimatamente. Eravamo allegri, quasi; !*«•' occhi cerchiati, rossi, vwt cercavamo qualche cosa che or-\smagnti con la cornice della barnasse i nostri rifugi, soprattutto, &a sporca; sembravamo tanti cercavamo legna da bruciare che I spettri. I nostri vestiti erano a era la cosa più importante. C'era 2?z?'< '» tenevamo uniti con i fih assai poco nella città, ma qualche]* ferr°> con °P*q° <*« cosa ipiù tenaci trovavano, ar- <™evamo ne' fondo delle tasche, madi rotti, sedie e tavoli sganghe-\Moll*°^<™° J? testa. fasciata, rati. Le stufe avevano nutrimento]™1 1"™ci° al collo> contuso o rotbastevoUe per qualche settimana; *>;te „°^£eo„r0S*e^,auano d's9n' poi qualche cosa sarebbe avvenuto S""3 rappreso. E giorno per giorcheci"avrebbe riparati dal fred- n°>. °™ W ora\ « cerchio si * ' chiudeva, la morte ci abbraccia- ao, per sempre. lentamente ma inesorabil- « Intorno a Stalingrado era un mente. campo d'aviazione dove atterrava- \ no numerosi aeroplani che ci por-} NeSSlMO Si 3frandS lavano viveri e munizioni e tras- »■ un»nua portavano poi i feriti e gli amma- €Ìla chi penmva di arre)lder. lati. Erano trenta, cinquanta aero- sj, Eppure non avevamo più nienplam quotidiani che ci assicura-\te> cartucce e pochissimo, vano la vita e soprattutto assieu-,pane Ma chi voleva arrendersi* I ravano la morte dei nostrii nemici, i capite che eravamo nel cerLa pressione contro la citta s'ac-\chio magico dell'allucinazione, afcresceva sempre più. Masse impo-' fascinati dalla morte; eravamo in nenti di soldati russi popolavano iun mondo dove l'orgoglio dominal'altra riva del Volga; da mezzo- ; vo tutti gli altri sentimenti. Progiorno e da tramontana altre mas-babUmente se dall'altro lato fosse scendevano contro t fianchi del- : aero 3tati altri nemici ci saremla città, stringevano il cerchio; noi\mo arresi quando tutto era finisparavamo a zero contro le innu- < to, quando fra noi e loro non c'era meri file; gli aeroplani falciavano ! più che la morte; ma come potèle teste dei russi, tutt'intorno a noi \ vamo avvilire la nostra anima diera un incredibile carnaio. Intor- no a noi era dunque una massa innumere di nemici, ma c'era an- nanzi a mongoli e a siberiani, dinanzi a una razza selvaggia e maledetta? Noi odiavamo i nostri die un nemico più terribile per- nemici con tutto il nostro corpo, che inafferrabile, lo spazio, questo, con tutto il nostro spirito. Che spazio della Russia cosi smtswra-1 ghigno diabolico avevano quei to che non sappiamo nemmeno morti russi che^ci stavano iniorimmaginario; lo sentivamo, e ci no, in mezzo alle macerie. Una torceva il cuore, orribilmente. A- volta avvenne che i russi ci scacvevamo però il sentimento di Dio, ciarono da mezza città; e noi ci U sentimento dell'infinito, che ci riunimmo in un breve spazio e conservava lo spirito, che ci man- sparavamo senza mancare il berteneva uomini. E dovevamo re- saglio. Il combattimento era così star là sotto la pressione che ci intenso, convulso, che nessuno dischiacciava perette Stalingrado ceva una parola, uè i comandatiera nostra e perchè tra Don e ti, né i soldati; tutti sapevano quel Volga un'altra battaglia scuoteva che dovevano fare, non c'era fella tetra. Noi restando a Stalin- sogno di ordini. E nessuno chigrado alleggerivamo il peso dei nava gli occhi sul compagno che nostri compagni lontani. Ma per godeva, tanto fra qualche istante mille che morivano, di russi, ogni accanto a quel morto cento altri volta che ci lanciavamo contro le sarebbero caduti, colonne nemiche, altri due mila, stato sempre così, per giorarrivavano; arrivavano siberiani ini intieri: un attacco seguiva e mongoli che pai evano a casa, l'altro senza interruzioni; non loro in mezzo al gelo e sotto il\c'era il tempo di tiasportare i fevento. E noi eravamo pochi, e ■riti in qualche posto, di seppelliogni morto contuva per dieci. E ,re i morti. Combattevamo sur un poi eiavamo stanchi, orribilmente]terreno cosparso di caduti, romestanchi, affaticati. Ogni morto Wi tedeschi russi. Ma poi venne la accresceva la nostra fatica. Noi elfine perchè un giorno tutto deve i tedeschi ci guardavamo in fac-\ finire, tutto finisce. Per me la fida, ma mai vedemmo gli occhi ne venne un giorno che il freddo tremare, mai vedemmo un volto gelava le mani, e non potevamo impallidire. maneggiare il moschetto. Le mani « Eravamo magri, tirati come scottavano, paralizzate. Le strofiper una corsa al palio, la corsa navamo fino a spellante per poter alla moite. Le compagnie erano sparare. Io non so come accadde: diventate sottili come manipoli, rinvenni solamente quando ero Di trecento uomini n'erano rima- sull'aeroplano con la testa e le. sti cento, in qualche compagnia i braccia fasciate, tormentato da n villaggio rus combattimento. un dolore atroce. Forse una granata m'aveva colpito; ma non sapevo che ero stato trasportato da uno degli ultimi aeroplani, forse dall'ultimo. Mi dissero che mentre mi caricavano i russi tiravano dai bordi del campo sui Junker da trasporto. .Sfa era assai meglio se iti fossi rimasto a Stalingrado, insieme ai miei compagni, insieme ai miei contadini romeni, questi « zarani » cosi saggi e buoni e così umanamente gloriosi ». Alfio Russo

Persone citate: Junker, Moll, Stalin