Avventure colorate

Avventure colorate Avventure colorate stallo, in forma di bara, che rinchiudeva delle caramelle di mentino; oppure una gran dicitura greca, sormontata da un lavativo ! Non erano però, questi, che rari incidenti comici in casa della strega. Il resto era tutto macabro: bottiglie, bottiglioni, fiale, barattoli; urne dalle sigillature ermetiche; vasi antichi fregiati d'un arcano emblema, o d'.un esametro latino; cosmetici delicati, o granuli di fiore, incarcerati a tripla mandata di chiave come dei reclusi o dei demoni! Andava e veniva l'uomo nero, felpati i passi nell'ombra, intrise le dita di verde, e tutto di lui si poteva pensare: che facesso apposta, magari, a sbagliare le ricette per uccidere i bambini, (ne capitava uno, qualche volta, a domandare di quelle caramelle di menta : e l'uomo senza sorriso nò sguardo glie le pesava, impassibile, sulle stesse bilancie che avevano servito per la stricnina...) o che la notte, dietro i due fanali balenanti come occhi di drago, fra le tibie in croce e le strigi scolpite, egli evocasse Asmodeo, Astarotte e Belzebù. Lucciolo magate fluttuavano traverso i vetri dei boccali — anime forse, di defunti apoticarì — e noi riguardavamo, sgomenti, le fiale della cantaride segnate da una croce, o il vivaio orribile delle mignatte. Gli strani nomi di quegli elisiri tropicali, di quelle semenze prigioniere! Quelle mosche in polvere che rinchiudevano desideri immani ; quelle sanguisughe divincolanti; quelle pillole tra il tossico e il confetto, di morte e di resurrezione; quelle pastiglie che si chiamavano di giusquiamo o d'ipecacuana, dome degli eroi da fiaba o delle regine di pellirosse... Ma a quel tempo, ho detto, le medicine non erano di mr Ja fra le signore. E ancora non c'era la guerra. E i farmacisisti, in somma, mettevano ancora un po' di paura. inumimi iniiiniiiiiiiiniimiiiiiiiiiniinii inumimi i i inumimi IE TAVOLOZZE jg IIIIIIIIIIIIIIIMIIIIIIIIIIIIIIII 1 , so quante guerre, ricordo d'aver proposto in un mio scritto un'Esposizione di tavolozze. Giovanili chimere; sogni d'un tempo lontano come quello delle fate e delle sirene! Anche le tavolozze hanno cessato d'incantarci: fate dalle luci .iridescenti, cantanti sirene dai giochi molteplici e portentosi. Rimanendo ai pittori, esse hanno però cessato d'essere pittoresche. Una tetra gamma di tinterelle senza smalto e senza splendore si distende sul loro piano, più squallido d'un campo di stoppie dopo una brinata: bianchi spettrali, gialli infermi, melanconici grigiazzurri, ocre e « terre » emergenti qua e là dal tetrore uniforme, come quei resti di coloritura che sopravvivono nelle etisie... La pittura, da tanti anni in qua, è certamente progredita, ma altrettanto certamente la tavolozza è decaduta. I pittori non la mostrano più con l'ilare appassionata vanteria d'una vofta. La nascondono, invece, come l'omicida il coltello. Si direbbe che, dopo i colpi di pugnale in ferti ai loro quadri sotto forma di pennellate! l'arme pesi loro come un rimorso. Non c'era uno di essi, una volta, che non si dipingesse in dieci, venti autoritratti, brandendo quella tavolozza come uno scudo di gloria ogni volta che partisse à scoprire e a conquistare 6e stesso. Oggi Carrà bì ritrae in marsina di Accademico, e De Chirico in costume da torero. Della casacca pittorica si vergognano. Ma, sopratutto, si vergognano della tavolozza. Dove l'occulteranno, ormai, questo corpo di reato? Al tempo in cui io ero ragazzo, e Bazzaro era già un pittore di grido, ricordo il vecchio artista, verBO sera, seduto a rimirarsi la propria tavolozza, e a ricorcare fra i grumi di scarlatto e i mucchietti di cobalto le porpore e gli azzurri dei paesaggi dipinti durante la giornata. Era il riepilogo dell'ora di stanchezza, e la fida compagna di lavoro vi partecipava. Seppi, più tardi, che tanto attaccamento era comune a tutti i maestri del pennello. TVr • • J t • pinfce. Le sirene cantavano nelle loro gamme luminose. Oh, meraviglia 1 Era quella, veramente, l'iride da cui stava per nascere Melusina. Una gara di lucori, di bagliori, s'accendeva lungo l'elisili dell'assicella senza peso, sui margini toccati qua e là da un raggio sidereo, o da una punta di fuoco. Il cadmio rispondeva all'indaco, la biacca al nerofumo, il giallore al vermiglione. Ogni colore era il colore d'una memoria, o d'un viaggio, chiamandosi blu di Prussia o verde Veronese. E quale fragranza veniva da quegli arcipelaghi di lacche pastose, di bitumi profondi, d'isole verdi o brune investite da correnti d'oltremare ! Era odore di bosco. Era odore di favola. Era il profumo fresco e.cupo che s'immaginava, noi giovinetti, alle notti dei Tropici. E li vedevamo già tutti, cogli occhi della mente, i capolavori ancora inconcepiti del pittore sorgere, ad uno ad uno, nella sua tavolozza. Vedevamo in quell'iride spuntare albe, 'spegnersi tramonti, affacciarsi volti, sbocciare ghirlande; o già in un tocco di carminio profilarsi il margine d'un labbro, la punta d'un seno... Che più è rimasto, nelle tavolozze d'oggigiorno? Qualche malato pallore. Qualche tinterella d'agonia. Questo però non riu sciamo a immaginarlo che dai quadri a cui esse danno origine ai progrediti, sì, ma melanconici quadri dell'arte nuova. Perchè quelle tavolozze i pittori non ce le mostrano più. Forse essi temo no, io penso, che si finisca "per scoprirvi le loro impronte digitali. I FARMACISTI Srr:Lp«. »'■ Sr:Lp«»'■ farmacisti, sono più quelli di una volta. I farmacisti della mia fanciullezza erano barbuti, lividi, meschini, maligni. Dovevano far paura, e infatti riuscivano a farne. Perchè a quel tempo le medicine non erano, come oggi, di moda nella buona società ; «c'era per lo speziale lo stesso orrore che per il necroforo; e quando si voleva mettere in soggezione i ragazzi, oltre all'uomo nero del bosco7 si' nominava l'omino nero UU«.U. IlUJIllIlrt V „u - 1 j- l che sedeva dietro un banco debano, fra dei recipienti figurati da teste di morto, con due lunghe mani ossute e due occhi nascosti da un paio di lenti blu. Queste lenti e quei teschi non erano i soli accessòri immancabili dell'apparato sinistro della bottega. C'erano allora, in ogni spezieria, anche due grossi boccioni illùmiriàti, dì VùTl'uno era verde e l'altro rosso. Un pelago e un inferno'! Annegava nell'uno, bruciava nell'altro la nostra immaginazione atterrita. E dietro i due boccali lummeggianti, investito ora dall'uno ora dall'altro coloro di sortilegio, l'omino nero andava e veniva, a piccoli passi contati, senza mai un sorriso uè uno sguardo, attento a delle bilaucie precise come quelle del destino! Livido, barbuto, piccino, maligno, aveva egli la tinta smorta dei suoi veleni, aggravala dal ri flesso cianotico degli occhiali. E intorno a lui, in quella doppia luce di tregenda in cui parevano anche più raggelare i freddi odo ri delle droghe, non distinguevamo che cose truci, appena interrotte qua e là da qualche apparenza stramba o buffa: teste da morto, tibie incrociate, civet te scolpite ; ma poi anche un cri

Persone citate: Carrà, De Chirico, Veronese

Luoghi citati: Prussia