A solo per violoncello

A solo per violoncello Verso il 1890 lalTint-oria noni —era certo, in Conio, quella gran sorfabbrica ch'è ora, ma un modesto cheGli aggiun V opificio suburbano che serviva a tingere il poco fabbisogno della seta di casa. Lo ricordo bene perche essendo uri fratello di mio padre un dei Direttori dell'azienda, ebbi occasione da bambino di trascorrere qualche settimana all'anno nella sua casa. In genero tutta Como allora era una piccola cosa, racchiusa tra le mura e le torri, in una sua'intima vita di borgo e di famiglia. Setionchò la Tintoria aveva allora una certa sua fama, diremo così,, politica, perchè nella mae^rauzn tintoria incideva allora, meglio che altrove, la propaganda socialista, che metteva tanta tremerella in corpo ai buoni borghesi. A. quei tempi bastava nominare il Tintore per vedersi sorgere davanti POperajo. "l'Operajo con TO maiuscola, cosciente e vendicativo, muscoloso ed evoluto, che aspettava la sua ora nella posa solenne del a Lavoratore » di Costantino Meunicr gevano noi terribilità quei zoccoloni olandesi di faggio, che sempre porta quand'ò in fabbrica e che camminando suonano co aie altrettanti xilofoni sui lastri cati della fabbrica, e quelle suo forti mani screpolate e sporche di materie coloranti. I Tintori ^furono sempre i primi ad aderire ai movimenti socialisti ch'ebbero luogo in città, e che non furon pochi. 10 me ne accorgevo quando scendendo dall'abitazione dello zio Peppino attraversavo il portico e il cortile della Tintoria, ed essi apparivano qua e là, usciti dai cameroni fuligginosi e rombanti della fabbrica, come da antri di megere dove bollissero brodaje e lordumi infernali, in un gran tai!fo di acido solforico, di ammoniaca e di tannino. Lo zio abitava all'ultimo piano di una vecchia casa alta che an cof" si vede passando pel Lungo Cosia sovrastare a tutto lo 6tabi liinento e dominava dalle sue finestre gran parte della città in quella sua zona fredda e triste di sottomonte. Il rumore afoso dell'opificio al lavoro sotto di noi e l'-icre tanfo degli acidi invadeva- : continuamente tutta la casa, la'permeavano come della tristezza di un lavoro senza requie. Ciononostante era bello stare, specie I inverno, lassù come issati in quella casa alta e solitaria di periferia provinciale, che alle tre del pomeriggio non vedeva già più il sole, situata fra il torrente desolato e l'Abbaaia di Sant'Abbondio tanto antica anche lei, e misteriosa e tacente, come una vecchia camaldula abbandonata. II Cimitero era poco lontano e lì sótto io vedevo passare tutti i mortorii piccoli e grossi della cit tà, col morto in testa e la gente dietro che mandava un misterioso scalpiccio 6u l'acciottolato. Mio zio, ch'era un gran bravomo sui sessantacinque e portava la berretta di saja nera dei tintori e, di più, una vecchia redingotta, aveva ereditato, a suo modo, la.febbre dell'arte che fece di mio padre architetto uno dei più versatili sperimentatori in ogni genere di conoscenza tecnica o artistica. Senonchè in lui l'amor dell'arte si era fissato unicamente nella musica: per la quale aveva una passione veramente disperata. E mi ricordo che, occupato il giorno intero al suo ufficio, egli soleva sfogarla con me in quella mezz'ora prima del pranzo, quando veniva su in saletta a riposarsi, a leggere il giornale e a fumarsi il suo solito virginia. Era allora ch'egli, già compiacendosi delle mie inclinazioni artistiche, mi parlava lungamente di Verdi elio adorava e delle opere e di cori e di terzetti, e di quando, ancor giovine andava a suonare il violoncello in un piccolo teatro della città, detto 11 Cressoni. — Ma come, zio, davvero tu hai fatto l'orchestrante? — No, non propriamente l'orchestrante di mestiere — mi spiegava lui versandomi un bicchierino di quel rosolio che la zia conservava preziosamente in una avita fiala smerigliata. — Ma vedi, allora verso il '50, devi sapere che non c'erano, specie in provincia, tanti teatri sovvenzionati dai Municipi come adesso ma che, nonostante questo, si riusciva a metter su dell'intere stagioni d'opera col solo concorso dei dilettanti della città... E dilettanti signorili erano, sai, mica di sonai qualunque, buoni dilet- , tanti reclutati fra la gente della miglior borghesia, o fra le Società corali, gli studenti del Conservatorio e le 6cuole di musica. Già, già, proprio così. Ci si metteva insieme una ventina di persone di buon accordo e ciascuno, secondo le sue bravure, faceva da cantante, o lavorava in orchestra o si dava da fare sul palcosceni co... Io, per esempio, vedi, ho sonato il violoncello per cinque stagioni d'opera consecutive a" Grassoni. — Ma davvero? Mi veniva un poco da riderò al pensare se YAul-a che aveva visto poco tempo prima al Suciale avesso avuto per cantanti i figli della migliore borghesia cornasi:» « avesse reclutato-i suoi professori tra quelli dei nostri indu- mafione pioUnterl'opeEdoló sci—re inglichio,subechfavoallnipascaVepiscoquvenoranequduquvibluogibigepasgil podemuntodemcicouboalfadilnpsihfiuqqlavrlabrrmcsspdtqvqaz— A lllllllllvlllllllllll — Ne, no — obiettava al mio sorriso incredulo. — Ti assicuro che in quel modo si davano dei a ì i e i o o n i a o l a a n l o à e , magnifici spettacoli, e si faceva fior di cassetta... L'ultima stagio ne d'opera che ho fatto, per esempio, fu nel '53, coi Vespri Sici Unni. Un successone. / Vespri Siciliaiiit. — Io interruppi. — Non è forse in quell'opera che c'è un famoso a solo per violoncello? E lui allora subito abbracciandomi: — Ma bravo, ma bravo, ló sai dunque anche tu, lo conosci quel pezzo meraviglioso! — E come no? Me lo fa studiare al cembalo la Monaca che mi insegna musica. — Ah che gran pezzo è mai, figliolo mio! E' il più bel a solo che sia mai scritto al mondo. E io, io, sapessi, coti che gusto lo suonavo, come me lo. ero messo bene sotto le dita ! E il pubblico che pareva matto a udirlo me lo faceva sempre ripetere due, tre volte... Perchè, devi sapere, chi allora avevamo in casa lo stra niero e tutti i cuori fremevano e palpitavano all'idea del nostro ri scatto: e quei Vespri, Peppino Verdi li aveva scritti apposta, ca pisci, per svegliare negli animi i coraggio della ribellione, e in quella cavatina specialmente aveva racchiuso tutto l'ardore del nostro pianto e delle nostre spe rauze: e tutti Io sentivano, tutti, nel profondo del cuore... Sicché quando, prima nel preludio, poi durante l'opera, saltava fuori quella frase appassionata del mio violoncello, ti so dir io se il pubblico non scattava come un sol uomo, che pareva volesse venir giù il teatro... Una sera dovetti bissarla fino sei volte. — Senti, zio — gli chiesi scorgendo ohe come al solito quando parlava di Verdi gli stavano per sgorgare le lacrime — dove lo hai il violoncello adesso? — Egli allora si volse e tacque, poi cavato dalla tasca posteriore della redingotla un virginia si mise ad accenderlo in silenzio. Che lo so io? Dev'essere su un solajo che se lo mangiano i topi. Mi lascieresti andar a prenderlo? Non ne vai la pena, ragazzo mio, non ne vai la pena. In quel momento arrivò di cucina la zia, la quale era una piccola donna quieta e pulitina con un cammeo al collo e i capelli imborsati in una reticella. — Di musica parlate oh, come al solito?... Ma adesso, Cadetto, fammi il favore, vammi a prendere il secchio d'acqua fresca per il pranzo. Era quello il mio compito giornaliero. Presi il secchio ch'ella mi porgeva. Ma ecco che prima ch'io uscissi, con quello, lo zio di colpo mi ha agguantato per un braccio e fissandomi con gli occhi ancora umidi di lacrimo ma accesi di quella santa passione: Vieni qua!... Te la ricordi quella frase oh? — mi fa. — Te la ricorderai sempre, non è vero? E lì tremante e quasi mezzo in vas-ato dal suo ricordo e col viso raggiante cominciò a canterellarla con la sua povera voce barbellante di vecchio: Tra Ta ra ra ra ra ra tra la la le ro, ra ra ra ra... Allora entrai pur io in tono e mentre io dirigevo col mio secchio sisaro hlApmmutInamtvnpfdfnirvntscS=s1m^ScSftSffinFttmddacstrofinarlo melodiosamente sulla pancia del suo violoncello, tutti ejdue lì come due matti ci rican-ia sonata e lo zio usando lo:mo' d'archetto fingeva tammo perdutamente, per tre quattro volte, la bellissima cavatina del nostro riscatto. — Be', ora vai a prender l'ac¬ qua ! — concluse Io zio quando alfine ne fummo sazi. — Sarebbe tempo — sospirà la zia, mettendo in tavola. Carlo Linatì

Persone citate: Carlo Linatì, Peppino Verdi, Tintori, Verdi

Luoghi citati: Como