Patria, legittimismo e onore militare

Patria, legittimismo e onore militare Patria, legittimismo e onore militare Mi trovai di fronte un giorno un uomo sulla cinquantina dai capelli grigi, con un abito da cacciatore; mi fu presentato in seguito come conte, colonnello di S. M. e già. appartenente ad una divisione che si era bravamente battuta in Albania ed in Russia. Non prestava servizio attualmente, nè aveva voluto fare il prescritto giuramento; viveva alla macchia come tanti altri. ,, . ., ,, Conosco bene certi stati d animo, che dimostrano una valutazione puramente unilaterale del problema nazionale, considerato esclusivamente dal lato delle sue istituzioni politiche; ma sappiamo, però, come spesso per molti questi scrupoli siano stati un ottimo alibi, perchè mai fu grande in loro l'amore per il dovere e per la responsabilità. La Monarchia per molti di costoro è come un vecchio mobile tarlato ed impolverato, ricevuto in eredità dai proprii avi, di cui si stenta a disfarai, perchè lo si considera ancora come un ottimo ornamento della casa; non si ha il coraggio di metterlo in soffitta. Che un sovrano abbia abbandonato un esercito, abbia consegnato la flotta al nemico non li preoccupa; che il Paese sia stato invaso e seminato di rovine li lascia, almeno apparentemente, indifferenti. La sorte di un popolo onesto e lavoratore, che pure ha abbandonato centinaia di migliaia di morti sui campi di battaglia è subordinata agli interessi di una Casa Regnante e di un piccolo gruppo di cortigiani, Industriali, banchieri ed alti funzionari che le fanno corona. Nei tempi andati, sullo scorcio del secolo XVITI, i fedeli ufflciaili dell'esercito piemontese del generale Colli, combatterono, si batterono da leoni, non vinsero; ma i più vollero essere fedeli alla Casa di Savoia e vissero oscuri per un ventennio. Alcuni passarono a far parte dell'esercito francese, altri, i migliori, dell'esercito italico. Ma il Piemonte era scomparso come stato ed era andato a far parte della Repubblica e poi dell'Impero francese. Questa sistemazione poco patriottica delle terre piemontesi, in tempi di attaccamento più dinastico che nazionale degli ufficiali dell'esercito, poteva ben giustificare l'assenteismo di molti di fronte agli eventi della. Rivoluzione e della Patria. L'esercito sardo, per quanto a reclutamento mercenario e con complementi costituiti dalle cosi dette milizie provinciali istituite da Emanuele Filiberto, aveva pur sempre ancora un carattere patrimoniale; era in fondo un appannaggio della corona. E questo processo di reazione antifrancese avveniva però lo stesso In loro, benché la nobiltà e l'alta società culturale francese mista a quella della Savoia, parlasse francese, sconoscere il resto d'Italia e si sentisse legata culturalmente alla Francia. Dirò anzi che l'Italia come concezione politica unitaria, era allora assolutamente sconosciuta. Si può ben dire che l'Italia fosse un'espressione esclusivamente geografica come la definì in seguito il Mettermeli. Poi venne la restaurazione; e coloro ripresero i loro antichi posti; la Rivoluzione liberale era un fatto a loro estraneo; il mondo non aveva camminato. Eppure in tutto il loro atteggiamento di legittima attesa vi erano giusti motivi. La mancanza dell'unità italiana, l'annessione alla Francia, l'introduzione forzata di metodi di vita straniera. Tutti gli ufficiali che avevano militato nelle file dell'esercito Italico o francese, vennero esonerati dal servizio o retrocessi al grado che avevano rivestito prima della soppressione dello Stato Sardo; venti anni di storia dovevano essere annullati. Ricordiamo a questo riguardo quanto ci racconta umoristicamente il D'A zeglio ne: « Miei Ricordi », Eppure qualche anno dopo i moti del 1821 con Santorre di Santarosa ed altri annunciavano nuovi tempi e nuove aspirazioni ed erano il segno vivo che ormai la storia seguiva il suo corso indipendentemente dai ritardatari. Nel 1917, allo scoppio della Rivoluzione Russa, reggimenti, costituiti in gran parte da cadetti, vollero dimostrare che 10 spirito militare non era morto e tentarono un'offensiva in Galizia all'epoca di Ker«nskÌ4 ?lù tar<» la massa degli ufficiali russi si battè per Ben tre anni di seguito contro 11 bolscevismo, affrontando fame, torture e fucilazioni in nome dello Zar ucciso e dèlia Patria tradita, mutilata, nelle mani di un pugno di avventurieri ebrei. Anche i nostri ufficiali realisti avrebbero potuto fare altrettanto. Passato il primo momento di disorientamento, avrebbero dovuto accorrere nell'Italia meridionale al servizio del « loro » Re. Ma non lo fecero; e quando nel mese di giugno il fronte tedesco fu in movimento verso l'Appennino, avrebbero potuto tentare una seconda volta la prova; non vi era nulla da rischiare, per quanto un uomo di fede dovrebbe essere indotto a tutto rischiare pur di raggiungere i proprii ideali. Attraversare le linee nemiche col rischio della vita è un atto di coraggio, ma in questo caso è soprattutto un atto di fede. Io li avrei ammirati, pur non condividendo le loro opinioni. Ma i nostri sono realisti special; essi attendono il «loro Re a domicilio»; preferiscono le « previdenze fasciste x> che patire la fame nel mezzogiorno. Giurano su Radio Londra, ma non si sa mai prjden"a To crpdo Invece che pei .a- lunque essa sia, si debba pur rischiare qualcosa. Oggi in Italia abbiamo una situazione chiara e netta che non si presta ad alcun equivoco: una guerra ancora in svolgimento per legittimi interessi, per l'emancipazione definitiva di una nazione povera sul suo mare; un gran Ministro da un lato, un Re che scappa e pianta l'esercito e il paese dall'altro. Ma questi fatti non creano In loro nessuna- emozione, nessun sentimento di reazione: essi sono legittimisti. p.f^' sano che una Monarchia liberale possa ritornare, come se in piena convulsione, con u Comunismo alle porte, la ~to ria non potesse e non dovesse seguire il suo corso. Ventidue anni di Fascismo con i suoi monumenti legislativi, sono trascorsi senza l'asciare traccia nel loro animo, o per meglio dire essi hanno vissuto assenti cai grande travaglio sociale della nazione, appena sfiorandolo. Strane circostanze mi hanno concesso il caso di essere ospite involontario del carcere militare di una delle principali città del Settentrione. Fui rinchiuso nella cella nell'attesa dell'interrogatorio. Ebbi un tavolaccio, un materasso, delle coperte ed un panchetto; 11 tenente di servizio, che sapeva solo il mio grado militare si scusò di non potermi fornire delle lenzuola, ma mi assicurò che il giorno successivo mi sarebbero state procurate. Nelle altre celle vi erano ospiti di tutti i gradi; le porte erano aperte ed i prigionieri potevano tranquillamente passeggiare nei corridoi in succinti costumi da bagno (era una afosa giornata di agosto) e fare la doccia. A mezzogiorno ed a cena il vitto veniva servito in una saletta a parte: un ottimo minestrone, verdura cotta, un pezzo di formaggio ed abl»ndante pane. Io pensavo all'Italia invasa, non al vitto dei carcerati, ma a quello dei comuni mortali e mi convincevo che ben difficilmente in una famiglia della ricca borghesia delle zone invase si sarebbe potuto aspirare ad altrettanto. Gli ufficiali poi si riunivano nella saletta comune, giocavano a scopone; un colonnello faceva il solitario; sembrava una pensione di buona famiglia. Nel corridoio sulla cartina della Francia di un giornale illustrato appiccicata in bella vista al unirò, erano esposte a linee successive e con freccia indicative le direttrici di marcia degli eserciti invasori. Credo che nemmeno su un tavolo di un Comando di una grande unità vi fosse tanta precisione di indicazioni topografiche. Liberato dal carcere, nell'uscire, feci le mie congratulazioni al Direttore, che rideva beatamente, scusandosi. Quegli ospiti domani saranno dichiarati martiri della persecuzione fascista. Ebbene, noi non invidiamo davvero la loro sorte. Nel 1859 il generale Giulaj nell'invadere il Piemonte, varcando il Ticino, parlava al popolo piemontese di «: liberazione » e di « liberatori ». Bisognava liberare 'il Piemonte da una minoranza audace di faziosi troppo irrequieta e pericolosa che disturbava la pace. Anche noi siamo orgogliosi oggi di essere una minoranza e pericolosa come quella; non siamo dei « quietisti »; siamo infatti pericolosi per i «beati possidentes». Un giorno, se gli eventi dovessero precipitare, saremo sempre una falange numerosa che saprà lottare, che non scapperà in Svizzera, che avrà sempre qualcosa da fare nella propria terra disgraziata. Quel giorno noi saremo ben lieti di presentarci al Tribunale con quelle decorazioni che sono state strappate dal petto degli ufficiali che militano dall'altra pa.rte, ben lieti del dovere compiuto; perchè quel dovere sarà il nostro stesso programma per l'avvenire. Perchè noi lottiamo e lotteremo, anche se si trattasse di una causa perduta, perchè l'onore è al di sopra degli opportunismi e degli interessi strettamente politici. H nostro programma è immortale come ogni Idea che nasca dal .profondo delle necessità storiche di un popolo. Dan. |. : Machiavelli, Vico, Mazza* J'-'Jjent incompresi nella lare ""poca, furono nelle epoche ,-uccessive i fari che illumir^'.ripno per secoli un popolo oppresso; essi sono geni politici universali, ma profondamente italiani. E' nostra Iattura di regalare agli altri popoli il meglio di noi stessi. Avevamo finalmente un Uomo che lavorava per noi, lo abbiamo voluto pugnalare alle spalle. Ebbene la sua opera non si spegnerà, qualunque possa essere la sorte della guerra. G'*. se ne sentono gli effetti presso gli altri popoli. La Russia sovietica adotta molte previdenze del Regime, mentre i cosidetti partiti della coalizione meridionale non fanno altro che imitare U programma fascista, pur paventandone le espressioni e la terminologia. Come ai tempi di Napoleone il legittimismo ha paura anche delle parole. Ebbene noi siamo le pattuglie di punta, come per il passato, di una Rivoluzione che non può morire, perchè rimane immortale nelle leggi e nelle opere. E quale maggiore conforto per noi di sapere che accumuliamo l'odio ed il rispetto del nemico? E' molto meglio essere odiati che disprezzati, ma soprattutto è piacevole suscitare un sacro terrore. E' la migliore delle vendette. T. Col. Maurizio Bassi

Persone citate: Colli, Emanuele Filiberto, Machiavelli, Maurizio Bassi, Mazza, Santarosa, Vico